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Autore: Nemainn    12/02/2013    4 recensioni
Rhie, strega, guaritrice, ma sopratutto umana, racconta la sua vita.
Le vicende che segnano un cuore ferito, un amore semplice, una magia antica...
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho tutto quello che ho voluto, no?
Allora perché, lasciando quel luogo, provai solo uno strano vuoto?
Non ho sempre voluto andarmene?
Allora, forse, non sapevo cosa volevo...
La mia storia è molto complicata, lo ammetto, a volte anche io mi dimentico pezzi e parti.
A volte non voglio, semplicemente, ricordarli.

 

 

Era un tramonto come tanti altri, in un villaggio come tanti altri.
Come sempre è accaduto, da che il mondo ha visto il primo nastro di luce, quello che chiamano il miracolo della vita stava accadendo: una donna, mia madre, dava in pasto al mondo la sua creatura.
Già allora, appena il chiarore mi toccò, mi rivelai profondamente diversa da quello che avrei dovuto essere.
Alla mia vista la mia stessa madre gridò...
Prima fu spaventata dalla mostruosità che aveva partorito, poi, mossa a compassione dal primo pianto disperato della creatura che, comunque, aveva portato sotto il proprio cuore e aveva nutrito per mesi con il suo corpo, sorrise.
Il latte materno mi diede forza, ma vedermi succhiare con l'avida impazienza di tutti i neonati non le diede speranze.
Ero nata con i capelli candidi, colmi di riflessi di ghiaccio e i miei occhi, stranamente già aperti, erano braci rosse.
Avrei dovuto morire, esposta alla volontà degli dèi o, meglio, degli uomini: ma non accadde nulla del genere.
Vedova, mia madre non doveva ubbidire ad alcun uomo, quindi decise di tenermi con sé.
Io, più volte scherzo della natura, vidi il modo la prima volta con gli occhi innocenti di una qualunque creatura, destinata a vivere e morire nell'eterno ciclo dell'esistenza.
Mia madre, donna saggia, piena della sapienza tramandata nei secoli dalle antenate della sua famiglia, non era lo stesso preparata a ciò che ero.
Sapeva che non ero un mostro demoniaco, avevo tutte le dita, due occhi strani, ma curiosi e intelligenti e i capelli del colore della luna piena d'inverno, quando il cielo sembra trapuntato di schegge di ghiaccio.
Ma se fosse stata tutta lì, la mia stranezza, forse, non avrebbe battuto ciglio.
Ero nata, o nato dovrei forse dire, non so, con il corpo di un uomo e di una donna imprigionati in un unico essere.
Da sapiente qual'era, mi crebbe come una bambina e, vivendo assieme a lei nella casa lontana dal villaggio, un po' addentro nella foresta antica e magica, rimasi protetta dalle cattiverie del mondo, almeno per un po'.
Il nome che mi diede era Rhie, il nome di sua madre e della nonna della madre, un nome che mi diceva sempre di portare con orgoglio e saggezza, un nome importante, che mi avrebbe portato solo cose buone.
Lei, la guaritrice del villaggio, mi insegnò la sua conoscenza e la sua arte e, molto lentamente, anche al villaggio mi accettarono.
Quello fu l'inizio della tragedia della mia vita.

 

 

A sedici anni ero, all'apparenza, una ragazza alta e sottile, con linee a mala pena accennate, schiva e riservata, timida oltre ogni dire, dai lineamenti così delicati e perfetti da non sembrare reali.
Mia madre era ormai vecchia e, sempre più spesso, dovevo andare al suo posto a curare la gente del villaggio, sopportando gli sguardi di paura e rimprovero delle vecchie comari, gli scherzi crudeli dei ragazzi, che si ritrovavano attratti da me nonostante tutto, e le voci insultanti dei bambini.
Con gli abiti dei dimessi colori della foresta, il cappuccio sempre tirato sul capo a nascondere i miei strani capelli e per mettere in ombra il mio sguardo di brace, cercavo di passare inosservata, spaventata dalle occhiate che mi venivano rivolte.
Ma ero capace in quello che facevo e trovai addirittura un'amica al villaggio. Aveva la mia età, ma era sposata e stava per diventare madre: il suo nome era Kiry.
Quel giorno mi trovavo da lei, la scusa ufficiale era di aiutarla nella gestazione lunga e difficile, perché, altrimenti, suo marito non avrebbe mai permesso la mia presenza accanto a quella della moglie.
“Dici che sarà un maschio, Rhie?” L'espressione di dolcezza, con la quale Kiry si accarezzava il ventre, mi strappò un sorriso sul volto normalmente serio e distante.
“Credo di sì, e ora bevi questo.”
Le passai un infuso e, mentre parlavamo, o meglio, lei parlava e io ascoltavo, un improvviso rumore esterno ci spinse a uscire di casa, nel freddo vento autunnale. Davanti a me vidi uno degli esponenti della nuova fede che stava prendendo piede tutto attorno a noi.
L'uomo era alto e magro, avvolto in un saio scuro, legato con un pezzo di corda e aveva con sé un bastone, lungo e grezzo.
Il viso, scarno e pallido, era illuminato da quella che venne poi chiamata luce della fede, ma a me pareva una insana follia.
Non avevo mai creduto negli dèi o nei demoni, ma quell'uomo era pieno delle sue convinzioni e, ben presto, conquistò e convertì al suo nuovo dio, che diceva essere morto e risorto, i cuori di quasi tutti nel villaggio e nei vicini insediamenti. La mia vita, che aveva cominciato a sembrarmi quasi bella, divenne ancora più triste per la perdita di quell'assaggio di umanità che mi era stato concesso.
Una volta, andando nel cuore dell'inverno, in una rara giornata serena, a portare sollievo ai reumatismi della vecchia Maeve, che badava al piccolo santuario con poche statue di legno degli spiriti dei boschi, la trovai in lacrime.
Era davanti ai resti fumanti di quello che era stato il compito della sua vita, circondata dai volti impassibili di chi aveva causato il suo dolore, dando alle fiamme tutto quello che amava. Per la prima volta mi indignai, colmata dall'orrore di quello che vedevo, sentii il mio cuore riempirsi di dolore nel vedere quella donna, vecchia e fragile, sola davanti alla gente che la considerava, a mala pena, un essere umano, perché non aveva cambiato ciò in cui credeva da una vita nella nuova fede, che rendeva ciechi i loro cuori.
Mi avvicinai, decisa, passando davanti al prete, coperto dal solito saio anche nella giornata gelida, e mi inginocchiai accanto alla vecchia Maeve, mettendole sulle spalle il mio mantello.
Mia madre era morta da poco e forse fu quello a farmi soffrire ancora di più, nel vedere una donna vecchia e saggia soffrire per la stupidità umana.
Può darsi che fu allora, che cominciai a odiare gli uomini.
“Demonio! Figlia del Diavolo! Vattene da qua! Non vedete nel suo aspetto il suo marchio!?”
Le parole del monaco mi colpirono come un colpo di frusta e mi rivoltai, inferocita, contro di lui.
“L'unico demone che vedo è la stupidità di chi ha distrutto, con il fuoco, la vita della vecchia Maeve! Adesso cosa farà? Ha dedicato tutta la sua vita agli spiriti del bosco e, per tutta la vita, vi ha aiutato come poteva e voi, stupidi, avete dato tutto in pasto alle fiamme! Davanti ai suoi occhi! Siate orgogliosi di aver causato tutto questo dolore a una vecchia!”
Vidi i visi di alcuni coprirsi di vergogna alle mie parole, ma la mia soddisfazione non durò a lungo.
“Tu! Figlia del demonio! Abbiamo salvato l'anima della vecchia, ma tu non puoi capire creatura malvagia! Vattene!”
Mi scagliò un sasso, mancandomi, e la sorpresa mi immobilizzò.
La mano fragile di Maeve, che si era alzata dal fango della strada, mi strinse debolmente il braccio.
“Vai, Rhie! Scappa prima che ti facciano del male, non vedi la follia nei loro occhi?”
Ubbidii, ma portando via con me la vecchia Maeve. Non l'avrei mai lasciata sola, tra quelle belve in apparenza umane, in mezzo al fango.
Seguendo l'esempio del prete, ci vennero scagliate varie pietre e mi trovai velocemente dolorante e coperta di lividi, spaventata mi incamminai il più velocemente possibile.
Portai con Maeve me alla casa che dividevo con mia madre, costruzione solida e asciutta, pensando che, lontane dal villaggio, forse ci avrebbero dimenticate.
Solamente lì, una volta sprangata la porta, mi sentii finalmente al sicuro.

 

 

Passò molto tempo, le stagioni cambiarono tantissime volte, la vecchia Maeve morì e passai sola molto tempo.
Raramente, gente del villaggio che ormai era diventato un paese, veniva da me per essere curata e, nell'arco degli anni, mi chiamarono strega e demonio, ma non mi diedero mai troppa noia. Avevano bisogno di me e nel fondo dei loro cuori lo sapevano.
Poi un giorno, ancora più lontano, vennero a disturbare il bosco con le asce. Ormai avevo venticinque anni, ma continuavo a mantenere linee di femminilità appena accennate.
Sapevo quello che ero, mia madre prima di morire me lo aveva spiegato ma, convinta come ero di essere orribile, mi ritenevo al sicuro da qualunque uomo volesse vedermi senza abiti, scoprendo così il mio segreto.
Ma non feci il conto con gli stranieri che erano arrivati nel mio bosco.
Un giorno, uno di loro venne ferito da un cinghiale e i suoi compagni trovarono, per caso, la mia capanna di legno e pietra: in cerca di aiuto bussarono alla porta, cercando soccorso per il loro amico e, per loro, un rifugio dalla tempesta ormai imminente.
Aprii loro e vidi la paura nei loro occhi non appena si posarono su di me.
Li vidi indietreggiare, uomini adulti spaventati e tremanti davanti a me; i miei capelli erano sciolti e mi ricadevano, nivei, sul volto severo quando li fissai.
“Cosa volete da me?!” La mia voce era bassa, appena udibile sopra il rombo dei primi tuoni.
Quegli uomini scapparono, abbandonando davanti alla mia porta il loro compagno svenuto. Con fatica lo trasportai in casa, era massiccio come gli alberi che abbatteva e pesava moltissimo.
Lo curai e mi prodigai, in mille modi, per salvare la vita a quell'uomo biondo che i suoi compagni avevano abbandonato. Poi, finalmente, quando ormai disperavo di riuscire a salvarlo, riprese coscienza. Mi guardò con gli occhi appannati dallo stordimento e dal dolore, studiandomi a lungo, parlando, infine, con voce debole e roca.
“Sono morto? Sei un angelo? O sei un diavolo?”
“Sono solo Rhie, la guaritrice, e tu non sei morto. I tuoi amici ti hanno lasciato davanti alla mia porta.” Mi guardò ancora, sospirò e tornò a dormire.
Nei giorni successivi riprese le forze, seguendomi con lo sguardo nei lavori di casa, sorridendo appena quando tornavo, dopo essere uscita a raccogliere le erbe o a dare da mangiare ai pochi animali che possedevo.
Uccisi addirittura una gallina per fargli da mangiare, così che potesse guarire prima e così andarsene più in fretta. Almeno fu quello che mi dissi.
Lentamente la ferita alla gamba e la costola rotta si sanarono, mi abituai alla sua presenza.
Una volta che tornai tardi dal mio giro di raccolta di erbe lo trovai intento a rinforzare il traballante, vecchio tavolo della cucina, e notai che la porta della casa era stata riparata alla perfezione.
“Grazie” Non aggiunsi altro e neanche lui parlò.
Pian piano che riprendeva abbastanza le forze, riparava e faceva la manutenzione della casa e io mi trovai, così, alleggerita di molti compiti. Arrivò l'inverno e la neve e lui era quasi guarito. In primavera se ne sarebbe sicuramente andato e quel pensiero mi fece stringere il cuore. Mi accorsi che, stranamente, non volevo vederlo andare via.
Ma come sempre accade la primavera arrivò e lui, perfettamente sano, in un giorno assolato ma ancora freddo, mi aspettò davanti alla porta della casa, seduto sul ceppo dove ero solita spaccare la legna per il camino.
“Devo partire, Rhie, devo tornare alla mia città e al mio lavoro. Ma mi sono abituato a te, vuoi venire con me?” Era la cosa più bella che chiunque, dopo mia madre, mi avesse mai detto e non seppi cosa rispondere.
Avevo paura, sapevo quello che ero, ma scioccamente decisi di andare con lui, non volevo più stare da sola, non volevo più sentire la voce del vento come unica compagnia.
Accettai.
Preparai il mio scarno bagaglio e nascosi i miei capelli dentro un fazzoletto di stoffa rossa, misi i miei pochi averi in uno zaino malconcio, le mie erbe in una borsa che portavo a tracolla e partii, seguendolo.
Lo seguii e camminammo per settimane, seguendo la strada. Fui sorpresa e compiaciuta dal fatto che nessuno mi desse fastidio, finché non notai che prima guardavano me, e poi lui, enorme e con le braccia massicce come montagne. Avevano paura di lui e mi identificavano come la sua donna, la sua proprietà e, se da una parte essere sua mi dava uno strano senso di calore, il terrore gelido era sempre in agguato. La paura di ciò che sarebbe successo quando, ormai non c'era più il 'se', mi avesse vista senza abiti.
Decisi di trovare il modo di nascondere la mia deformità a lui.
Mi consideravo una donna deforme, cresciuta come una donna, ragionavo come una donna, considerandomi meno di quello avrei dovuto essere, una mostruosità.
Finalmente arrivammo al villaggio di taglialegna da dove lui proveniva, lì mi ritrovai davanti uno spettacolo deprimente.
Capanne malconce, aggrappate precariamente alla brulla montagna, pochi alberi stenti e il fetore dello sporco che inquinava l'aria, rendendola irrespirabile per me, abituata alla fresca brezza dei boschi.
Ma lui sembrava felice e la cosa mi riempì il cuore di gioia. Lo vidi ridere e il mio cuore rise con lui, anche se il mio volto dall'espressione perennemente seria e distante non mutò.
Mi portò alla sua capanna al centro del villaggio, era più grande delle altre e fatta di tronchi abilmente incastrati e, con un gesto che doveva essere galante, aprì la porta per me. Mi sentii felice, il calore di quell'emozione, per me così inusuale, mi scaldava come il più caldo dei fuochi.
Entrammo e senza una parola cominciammo a mettere a posto la casa, a pulirla io e a ripararla lui, una sintonia silenziosa, delicata, che sapevo essere fragile ma che volevo mantenere con tutte le mie forze.
Gli uomini che lo avevano abbandonato non si vedevano e, quando vecchi amici vennero a salutarlo, mi presentò come sua moglie e io accettai la cosa in silenzio, sentendomi dilaniata tra la gioia e il terrore sempre più freddo e tagliente. Quando mi avesse scoperto sarebbe stata la mia fine, ma quel sogno di normalità, di una vita vissuta accanto a qualcuno che, anche se non ti ama, ti rispetta e protegge, non voleva abbandonarmi: quindi continuai a recitare la mia parte.
Lì, le reazioni al mio aspetto strano, erano mitigate dall'evidente importanza che lui doveva avere in quella comunità. Mi resi conto che quell'uomo era più di quanto vicino a un capo avessero.
La notte venne in mio soccorso assieme alla pudicizia, vera o presunta, delle donne normali e così, al buio, lo ingannai. Lo avrei fatto per molto tempo, mantenendo intatta, in lui, l'illusione di avere una normale moglie.

 

 

Quello che gli avevano affidato, era un lavoro che lo teneva lontano anche due o tre giorni di fila e io, che lo avevo seguito nelle terre di quello strano nobile che non vedevamo mai, mi ritrovai a disporre di tanto tempo libero.
Non più schiava della paura di essere scoperta, libera di fare veramente quello che volevo per la prima volta in vita mia, trovandomi vicino a quella che chiamavano città, mi avventurai tra la gente, con il solo scopo di soddisfare la mia curiosità.
Indossai gli abiti migliori che avessi e nascosi i capelli in un velo scuro, messo in modo da lasciare in ombra il mio volto e il mio sguardo.
Allora mi incamminai verso quella città che tanto attirava la mia curiosità, attraversando la campagna coltivata, fino ad arrivare alle sue mura e al suo borgo, completamente costruito in pietra. I tetti di ardesia scura che rilucevano nel sole del pomeriggio attirarono il mio sguardo, così come mille particolari che mi sembravano quasi magici.
Camminai lungo vie e strade lastricate, vidi donne vestite di abiti sgargianti, con colori che non avevo mai immaginato possibili al di fuori della natura, belle ed esotiche nei pizzi e merletti che adornavano i loro colli e i loro polsi. Delicate, quasi creature fiabesche, per me, nelle stoffe pregiate che le avvolgevano.
Vidi tantissime cose belle e tantissime cose mi spaventarono, ma quasi nessuno mi notò.
Ero solo una contadina ai loro occhi: una sempliciotta mai stata in città, con indosso l’abito della festa e lo sguardo basso, che si muoveva all’ombra delle case.
Camminando, le gambe piene dell’energia data dalla curiosità e dalla meraviglia, vidi saltimbanchi vestiti di pezze colorate adorne di campanellini, minuscoli, dal suono allegro dare spettacolo, facendo acrobazie incredibili, vidi uomini che mangiavano le fiamme tra l’ammirazione del pubblico e ascoltai, rapita, cantastorie dalla voce dolce come il miele.
Non mi fermai mai molto a osservare quelle meraviglie, timorosa di attirare l’attenzione, distogliendola, con la mia deforme bruttezza, da quelle persone.
Mi diressi lungo vicoli e lungo strade e, alla fine, mi resi conto di essermi persa, ma non osando chiedere aiuto a nessuno mi trovai imbambolata, ferma come una preda puntata da una lince, in mezzo alla strada.
“Largo! Fate largo al vostro signore!” Una mano mi spinse in malo modo e caddi, mi sentii confusa e spaventata, come se mi trovassi sott’acqua, mentre le voci della gente che mi additava mi parevano grida di rapaci pronti a ghermirmi. Il velo era caduto ed ero sommersa dagli sguardi della gente.
Occhi che mi scrutavano, giudicavano, dita che indicavano la mia persona con paura o con la stessa curiosità che si riserva a una cosa strana.
Ormai era sera e la luce crepuscolare era quasi scomparsa, i miei capelli sembravano una macchia luminosa, nella penombra che cominciava a essere rischiarate da torce e lumi.
Mi raggomitolai su me stessa, cercando di sfuggire, chiudendomi dentro di me, da quelle persone, temendo il peggio.
Incapace di reagire, immobile, attendevo una fine, la fine, forse.
Non mi aspettavo la mano postata sulla mia spalla con gentilezza, non mi aspettavo assolutamente che mi aiutasse ad alzarmi e che si mettesse tra me e le persone che affollavano la via, incuriosite e spaventate dal mio aspetto.
Lo guardai, era l’uomo che aveva dato il lavoro a lui.
Aveva i capelli nerissimi e lunghi, raccolti in una coda bassa, gli occhi azzurri come le acque di un ruscello a primavera.
Non mi guardava come se fossi un mostro, quello, forse, mi spaventò più di ogni altra cosa.
Per la prima volta nella mia vita vidi, negli occhi di qualcuno, uno sguardo ammirato e capii che, nonostante la mia stranezza, dovevo apparire come una creatura dall'inconsueta bellezza: lo lessi nei suoi occhi.
“Io vi conosco, siete la moglie del taglialegna. Venite con me, vi riporto a casa vostra.” Mi ritrovai a seguirlo, mentre camminava tra la folla che si apriva davanti a lui, come se non esistesse nessuna di quelle persone.
Lo guardavano con ammirazione e timore reverenziale, lo rispettavano.
Era il loro signore.
Camminammo e solo a notte tarda arrivammo davanti alla mia misera casa, fatta di tronchi e pietre. Mi fermai sulla soglia, non sapendo cosa fare: non ero certo stata educata a ricevere ospiti, tanto meno a ricevere ospiti nobili. La casa non mi era mai parsa tanto umile nella sua scarna semplicità, aprii la porta e lo guardai, senza sapere cosa fare, e lui entrò, sorridendomi.
Si guardò intorno mentre io accendevo il fuoco nel camino di pietra, mettendo a bollire dell’acqua per preparare un infuso che ci scaldasse.
La casa era composta da una sola, grande, stanza e, oltre a un tavolo con due sedie e il letto, il mobilio si riduceva a degli scaffali, un baule molto grosso e un armadio chiuso, alto quanto me.
Mi sedetti sulla sedia e lo guardai fare altrettanto.
“Volete dirmi il vostro nome?”
“Rhie.” Sorrise, come se gli avessi fatto un dono; mi sentii come se quel sorriso mi rendesse la cosa più importante e bella del mondo.
“Quindi sapete parlare.” Mi guardò negli occhi , curioso, attento, strano. “Lo pensavo, Rhie, che la vostra voce fosse bella e misteriosa quanto voi. Siete meravigliosa...”
Lo guardai, inquietata da quelle parole, incapace di rispondere a esse, per poi alzarmi dandogli le spalle per nascondere il mio disagio.
Misi le erbe nell’acqua ormai bollente e presi due ciotole di legno, le misi sul tavolo, lo servii e non alzai più gli occhi su di lui. Mi confondeva, mi spaventava.
“Ho detto qualcosa che vi ha offeso, Rhie? Ditemelo, vi prego!”

 

Quali scherzi gioca il cuore umano, quali spaventosi misteri sono nascosti da un sorriso e da una voce gentile. Mi blandì, mi corteggiò per giorni, settimane, mesi.
Mi disse che pensava fosse strano che il mio amore per mio marito arrivasse a farmi rifiutare un nobile; ma io avevo paura di lui, non per quello che in realtà ero, ma avevo paura dei suoi occhi, del suo odore.
Aveva l’odore di una bestia che caccia, l’odore del sangue e della paura delle sue prede e non mi illudevo di essere nient’altro di una di esse.
Era abituato ad avere tutto quello che voleva, in qualunque modo, e fu così che mi ritrovai vedova e additata come portatrice di sventure.
Fui scacciata dal piccolo villaggio di taglialegna e, per la prima volta in vita mia, piansi.
Sapevo come mai era morto, sapevo che era stato ucciso perché non avevo dato quello che voleva a quell’uomo.

 

Mi mancava lui, mi mancava la rude vicinanza e il suo aspro affetto. Non mi faceva mai domande quando mi vedeva strana, più del solito, dopo l’ennesima visita del signore di quelle terre. Ma una volta mi abbracciò e mi accarezzò la testa, come se fossi uno dei suoi amati cani, dicendomi che sapeva che ero una brava moglie e che gli ero fedele, che sapeva di potersi fidare di me e, anche se allora non piansi, pur sentendo l’umidore delle lacrime nei miei occhi, capii che lui, anche se non completamente, aveva capito. Nel suo modo rozzo e grezzo, aveva compreso e cercava di consolarmi. Quindi rimasi nel suo abbraccio, sognando una vita felice, con lui, come tutte le donne... una vita che, almeno in parte, avevo ottenuto.

 

Quando venne a prendermi dovetti andare, lo seguii in groppa a un cavallo, precariamente appollaiata sulla sella. Era notte e io guardavo il cielo e la luna, grande e pallida, attraverso il velo della tristezza che mi stringeva il cuore, non mi era mai parsa così lontana e fredda.
Arrivai alla casa del signore di quelle terre, una grande dimora di pietra con il tetto di ardesia, era bella e grande, ricca.
Vi arrivai e lui mi fece strada verso le sue stanze, mentre pregavo ogni dio avessi anche solo sentito nominare perché il mio cuore smettesse, semplicemente, di battere. Supplicavo in cuor mio perché quello che stava per accadere non succedesse.
Sarei stata scacciata? Uccisa? Messa al rogo?
Cosa mi avrebbero fatto?
Tutte quelle domande affollavano la mia mente e mi rendevano incapace di muovermi.
Incespicavo a ogni passo, sopraffatta da tutto, dai sentimenti che senza controllo mi martellavano la mente e il cuore.
Mi sentivo incapace di fare anche solo un altro passo ma arrivai, guidata dalla sua figura alta e forte, anche se sottile, alla stanza dove pensava che avrebbe trovato la felicità.
Ma io sapevo benissimo che lì, probabilmente, avrei trovato la mia morte.
Mi disse che ero bellissima, mi disse che gli sembravo una brace ardente poggiata nelle neve, che rosseggiava senza scioglierla.
Io ero incapace di guardarlo.
Lentamente sciolse i lacci del mio semplice abito e rimasi solo con la camicia lunga, e mi disse ancora che ero splendida.
Poi mi lasciò nuda e i suoi occhi si riempirono d’ira, mi colpì con il dorso delle mani, facendomi cadere a terra, mi prese a calci e mi picchiò finché non persi i sensi. Forse continuò anche allora, ma non ricordo, ciò che non scorderò mai sono le sue parole.
Mi disse che ero un mostro, mi disse che ero un demonio tentatore, mi disse che non ero una donna ma solo una cosa perversa e schifosa.
Mi maledisse, mi augurò di vivere scontando per sempre la colpa della mia mostruosità.
Mi maledisse e invocò a sua testimonianza i suoi dèi e tutti gli spiriti del mondo e poi mi abbandonò, svenuta e con accanto i miei abiti, nell’erba di un campo lontano, fuori città, quasi morta per le percosse e piena di dolore.
Ma il dolore del corpo era quello che meno mi faceva soffrire.
Ripresi i sensi e a fatica accettai di essere ancora viva, ma non la bramavo, non la volevo affatto.
Non desideravo vedere ancora il giorno o la notte, volevo, con tutte le mie forze, provare ancora una volta il caldo e consolante abbraccio di mia madre.
Desideravo l’incantesimo del sonno che tutto fa dimenticare.
Ma mi alzai, mi vestii e, scalza e dolorante, camminai lentamente e con fatica, finché accanto a un ruscello, non crollai al suolo: bevvi appena un sorso e svenni.
I sogni affollarono la mia mente, le parole di quell’uomo mi perseguitavano con la loro maledizione, entrando dentro di me e facendomi male al cuore, più di quanto pensavo potesse ancora farmene.
Inseguivo una me stessa diversa, normale, non un mostro, ma mi sfuggiva sempre tra le mani non appena la sfioravo, non appena pensavo di averla finalmente raggiunta.
Tutto il mio mondo era crollato e nei miei sogni, dove mi rifugiavo, non facevo altro che rivivere la mia dolorosa condizione di anormalità.
Avevo vissuto come una donna, pensando a me stessa, per un breve periodo colmo di felicità, come donna, anche se non lo ero veramente.
Ma non ero donna, non ero uomo.. ero, cosa?
Cosa ero, se non il mostro che porta male ovunque vada?
Cosa ero, se non una maledizione vivente?
La mia mente lavorava incessantemente, mentre il mio corpo ardeva per la febbre.
Mi rendevo solo vagamente conto che qualcuno accanto a me, c’era, ma non mi importava, cercavo la morte ma lei mi sfuggiva, ostinatamente.
Si dice che quando si è malati sia la volontà di vivere che salvi, eppure la mia volontà di morire non mi ha portato tra le braccia di mia madre.

 

Un giorno, finalmente, mi arresi alla vita e aprii gli occhi trovando, accanto a me, una donna dai capelli fulvi con sparse ciocche argentee con un viso buono, soffuso di una luce calma e dolce.
Vestiva con un semplice abito nero e il velo scuro che portava sul capo era semplice e disadorno, al collo portava una croce intagliata nel legno.
La fissai, senza parole, muta e rassegnata alla vita, senza speranze e senza futuro, aspettando di vedere quello che sarebbe accaduto.
Mi sentivo ancora bruciare, ma la mia mente era finalmente sgombra, quasi tropo vuota di pensieri.
“Ti sei svegliata finalmente! Io e le altre sorelle ci stavamo preoccupando. Eri molto malata, ma ora stai finalmente guarendo!” Parole semplice, colme di gioia per il mio risveglio. Felicità autentica che mi lascio sorpresa.
Ero capitata in uno dei primi luoghi dove i seguaci del dio morto, che si facevano chiamare cristiani, avevano creato una loro comunità di preghiera.
Vidi solo bontà e amore e mi chiesi come potevano esserci persone così diverse, che seguivano la stessa strada, lo stesso dio. Me lo chiesi pensando al sacerdote che aveva distrutto la vita di Maeve.
Loro erano donne sante e pie, mi accolsero con il sorriso, considerandomi una donna tra di loro.
Passavano le giornate in preghiera, lavorando umilmente, e mi unii a loro.
Non perché credessi nel loro dio, ma perché mi piaceva il loro modo di vivere, semplice, isolato, senza pensieri.
Mi sentivo parte di qualcosa.
Tutti i loro gesti, tutte le loro parole…
Il cuore, anche ora, mi si stringe al pensiero delle donne e degli uomini che amavano tanto profondamente la vita che dicevano il loro dio avesse creato.

 

In mezzo a loro mi sentivo al sicuro, ma la mia maledizione mi seguì, mi riconobbero.
Uno dei soldati che avevano lasciato il mio corpo, esanime, lontano dalla città, mi vide e mi riconobbe.
Le pie donne vivevano lì perché il signore di quelle terre aveva concesso loro di rimanere e, il prezzo per restare, era che io me ne andassi.
Piansi a lungo sulle ginocchia di una sorella, la stesa che vidi, per prima, il giorno che accettai di continuare a vivere.
Alla fine nascosi i miei capelli in un velo scuro e mi allontanai, tra gli sguardi desolati delle donne che mi avevano accolto, ma che non potevano più proteggermi dal mondo.
Ancora una volta vagai, sola, tra i boschi, ma questi erano boschi a me sconosciuti, pervasi da un’aria diversa.

 

 

Sopravvissi a quell’inverno, non mi ricordo ancora come, preda di dolore e confusione, ma vissi.
Finalmente la neve cominciò a sciogliersi e io cominciai, più che altro per abitudine, a girare nei boschi alla ricerca di erbe, raccogliendo tutto quello che di commestibile e utile c’era.
Il bosco era ricco e rigoglioso, soprattutto deserto di esseri umani e, di ciò, ringrazia gli dèi.
La neve era del tutto sciolta mentre, dietro la casa di una sola stanza che avevo trovato abbandonata, filavo alla luce tiepida del sole la lana delle caprette selvatiche che raccoglievo sui rovi.
La tettoia sopra di me a tratti faceva scivolare a terra gocce d’acqua, simili a piccole stelle, che brillavano alla luce del sole e il chiacchiericcio degli uccelli mi faceva sentire a casa mia, in pace.
Ancora una volta vivevo solo nel presente e nell’immediato futuro, senza curarmi di ciò che era ieri o di quello che sarebbe avvenuto domani.

 

Poi, un giorno, un rumore di passi, tanto estraneo che in un primo momento faticai a riconoscerlo, si fece più vicino, proveniente da un sentiero mal segnato e in disuso che arrivava, da sud, fin nella radura.
Mi coprii i capelli con lo scialle di lana grigia, non tinta, e combattuto l’impulso di fuggire continuai a filare, aspettando.
Vidi, molto prima di essere vista, una donna giovane, poco più di una bambina, camminare appesantita sia da un voluminoso sacco che un po’ portava, un po’ trascinava, che dalla pancia.
Era incinta, anche se non da più di sette mesi.
Quando mi distinse quasi gridò dallo spavento, ma la vidi guardarsi alle spalle e poi voltarsi verso di me.
Scegliendo, ma tra cosa?
Lentamente, chiaramente timorosa, mi si avvicinò. I capelli rossi e ricci, che sfuggivano alla treccia che le ricadeva scomposta davanti, sembravano una nube di fiamma e gli occhi erano disperati, cerchiati di scuro.
Ma la cosa che mi fece, infine, decidere di alzarmi e di andarle incontro furono i lividi, chiaramente visibili sul volto dai tratti ancora infantili.
“Chi sei?”
La voce mi uscì bassa, roca, brusca. La immobilizzò.
Ma probabilmente era una persona con un coraggio fuori dal comune, o estremamente disperata e pensai che, l’ipotesi più probabile, fosse la seconda.
“Io… Io sono Aira. Io...”
Tremava visibilmente. Le feci cenno di avvicinarsi ma non si mosse.
“Cosa vieni a cercare qua, in mezzo al bosco, sola e incinta?”
Tremando e dicendo una parola per volta, lentamente, ferma accanto alla casa, mi spiegò perché aveva cercato la strega del bosco.
Aveva sedici anni ed era stata data in moglie a un’ uomo molto più grande di lei, ma era stata comunque contenta, finché non aveva scoperto che era stata data in sposa a un mostro.
L’uomo la picchiava, facendola stare a volte a letto giorni per il dolore e ora aveva paura, ma non per lei. Temeva per il suo bambino.
Mi disse che la prima volta che era rimasta incinta lui aveva smesso di picchiarla, contento, ma che quando aveva dato alla luce una bambina, la aveva percossa pieno d'ira e aveva portato via la piccola, gliela aveva portata via. Lo aveva fatto così che lei potesse, al più presto, ritentare e dagli un figlio maschio.
Aveva ucciso la sua bambina, considerandola inutile, e ora lei era decisa a salvare questo suo figlio, che fosse maschio o femmina, dalle sue mani.
Però conosceva un unico posto dove nessuno l'avrebbe mai cercata, dalla strega del bosco.
Solo pochi disperati affrontavano la paura e andavano alla sua ricerca, lei lo aveva fatto.
Rhie lentamente annuì, si tolse lo scialle dal capo rivelando i lunghi capelli candidi, sciolti nella brezza, e gli occhi rossi.
“Vuoi ancora rimanere con me?”
La ragazza trasalì, ma annuì.
“Non ho altro posto, strega, fammi rimanere con te. Io ti ho portato dei regali, ti prego, fammi rimanere qua!”
“Non hai paura di me?” Rhie era curiosa e, per la prima volta da tanto tempo, interessata a qualcosa.
Aira annuì piano e disse, sussurrando:
“Sì, ma anche se girano tante storie paurose su di te, nessuno può dire di averti mai vista fare del male, quindi io.. io ho pensato… che forse, tu non eri davvero cattiva.”
Allora le porsi la mano e lei la accettò, le dissi il mio nome e la portai in casa, dove le diedi una tazza di infuso caldo per calmarla.
Le promisi, spinta dalla pietà e dalla rabbia verso l'uomo che era suo marito, che l'avrei protetta.
Ma mi chiesi come avrei potuto mantenere la mia promessa e, mentre Aira dormiva, stremata, nel mio letto, uscii nel bosco e decisi di cercarne gli spiriti. Non avevo più parlato con gli quegli esseri fatati fin da quando, ancora piccola, mia madre mi disse che era pericoloso.
Che potevano fare cose che non si potevano capire.
Girai per i sentieri più nascosti, chiamandoli con la mente, con la voce e con il cuore. Preoccupata di non trovarli e di non avere, quindi, la loro forza per proteggere Aira e il suo bambino.
Ma alla fine vennero da me e stringemmo un patto, lo stesso che la vecchia, che abitava la capanna prima di me, aveva stretto con loro: io avrei protetto e curato il bosco e, in cambio, loro avrebbero protetto me e chi mi era vicino.
Passarono molti giorni, poi una luna: non potevo più immaginare la mia vita senza Aira.
Giovane, dimenticò in fretta la paura, divenne ciarliera come un giovane passero, industriosa, piena di gioia e progetti per quel bambino ancora non nato.
La gravidanza era più indietro di quello che avevo pensato a una prima occhiata e il figlio sarebbe nato poco prima dell’inverno.
Avevamo tutto il tempo per preparaci.
Ma temevo che quello che era bastato, a stento, a nutrire me per un inverno, non bastasse anche per un bambino e sua madre.
Decisi di andare al villaggio da cui proveniva Aira per acquistare, con i pochi soldi che avevo, oppure scambiando le mie erbe, ciò che ci serviva e non potevamo procurarci da sole.
Ma stavolta avrei fatto in modo che nessuno mi scoprisse, i ricordi che avevo dei villaggi mi spaventavano, ma la vista di Aira mi dava coraggio, avevo qualcuno da proteggere.
Tinsi i miei capelli e divennero neri, ma per gli occhi non potevo fare nulla, se non tenere lo sguardo basso e il capo chino, così mi incamminai.
In due giorni di viaggio attraverso il mio bosco arrivai e lì, ai margini, dove ancora mi sentivo protetta, indugiai a lungo, spaventata.
Poi, come Aira mi aveva promesso, vidi la strada sotto di me e la raggiunsi, per poi seguirla fino al centro del piccolo paese, dove il mercato fioriva.
Dietro di me camminava il piccolo asino che possedevo e che mi aiutava, trasportando le borse di erbe e la lana filata che non ci serviva.
Ebbi fortuna e parlai con le persone senza che si insospettissero, dicendo che venivo da un villaggio vicino e che ero vedova. Era una parte della verità, in fondo.
Mi credettero, la gente era cordiale e allegra, facendomi sentire quasi a mio agio, quasi.
Comprai quello che ci serviva e anche qualcosa di più, poi tornai verso casa.
Ma una donna mi aspettava dove avrei dovuto lasciare la strada per addentrarmi nel bosco, ed ebbi paura.
“Sei la strega del bosco, vero?" Aveva i capelli rossi striati di grigio e capii che era la madre di Aira per via della somiglianza.
“Sì.” Che altro avrei potuto dirle?
La donna si mise a piangere e cadde in ginocchio, davanti a me, stringendo l’orlo della mia gonna e singhiozzando.
“Dimmi, mia figlia è viva? È arrivata da te? Ti prego!” Mi abbassai, le presi la mano e lei vide i miei occhi e sussultò, ma non abbassò lo sguardo.
“È viva e sta bene, vieni a trovarla quando vuoi. Vedrai anche tuo nipote all’inizio dell’inverno.”
Poi mi staccai e mi inoltrai nella foresta, con la voce colma di gioia della donna che, alle mie spalle, ripeteva sempre un’unica parola, grazie.

 

Non passò nemmeno una luna e arrivarono in cinque, alla mia piccola casa.
La madre di Aira era con loro e, non appena si videro, madre e figlia si gettarono l’una nelle braccia dell’altra, in lacrime.
I miei capelli, nuovamente candidi, si muovevano alla lieve brezza estiva e capii che le altre donne avevano paura di me, me ne dispiacque.
Ma non potevo immaginare quello che sarebbe successo poi...
Vennero da me malate e io le curai, come avevo sempre fatto, poi se ne andarono lasciando doni e ringraziamenti, benedizioni per me e per chi era nella mia casa.
Così la legenda della strega del bosco che proteggeva le donne, crebbe.
Sempre più spesso, donne e solo donne, venivano da me, portavano formaggi, galline, uova, stoffa, quello che potevano e io le curavo.
Scoprii che il guaritore del villaggio badava poco e male alle donne, concentrandosi sugli uomini che, a suo dire, ne avevano più diritto.
Mi dissero che blaterava di qualcosa circa le donne, definendole colpevoli dei mali dell’uomo e di una mela tentatrice.
Mi chiesi come poteva una persona decidere chi era degno di cure e chi no, così dissi che chi aveva bisogno era sempre ben accetta, alla mia casa.
Vidi Aira orgogliosa di essere la mia apprendista, perché quello era diventata.
Arrivò l’autunno con i suoi colori intensi e fiammeggianti, il ventre di Aira era sempre più grande e rotondo.
Poi arrivò la prima nevicata, accompagnando la nascita di una bellissima bambina, sana, rosea, perfetta.
Piansi di gioia e la madre le dette il nome, mentre mi guardava, sorridendo, me la porse.
La chiamò Rhie.

Qui finisce la mia storia, o almeno la storia che posso raccontare.
Ora che sono vecchia i miei capelli d’argento non spaventano più nessuno.
Non vedo più ciò che mi circonda, i miei occhi sono bianchi, senza più rosso, ciechi.
Sono circondata dalle mura della mia piccola casa, nella radura del bosco, ma altre case sono nate attorno alla mia, case di donne che qui hanno trovato rifugio, nell'abbraccio della strega della foresta.



NdA:
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