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Autore: aki_penn    12/02/2013    7 recensioni
“Stai qui ‘sta notte, e vedrai” disse increspando le labbra e stringendo i pugni. Soul poté vedere i tendini sui polsi tirarsi al massimo. Fece una smorfia “E’ una proposta sconcia?” commentò, con un sorrisetto.
“Non dire idiozie” sputò lei, rannicchiandosi più che poteva, finalmente lo guardò di nuovo “Non sto scherzando” sussurrò “Vieni a vedere che non sono pazza”
Soul Eater alzò entrambe le sopracciglia “E sia”
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Death the Kid, Maka Albarn, Soul Eater Evans, Tsubaki, Un po' tutti | Coppie: Black*Star/Tsubaki, Soul/Maka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lullaby

Capitolo nono

Luci nel buio

 
Tsubaki sobbalzò, nel sonno, quando il cellulare di Maka suonò, d’un tratto, nel bel mezzo della notte.
“Oh” boccheggiò “co-cos’è?” domandò, con la voce impastata dal sonno.
“Niente, niente, è tutto a posto” la tranquillizzò Maka, fin troppo sveglia, per essere una che si era appena ridestata dal sonno. Schiacciò un pulsante del cellulare, bloccando il suono della sveglia che lei stessa aveva puntato.
Tsubaki gemette, coprendosi la testa con il lenzuolo, per nulla vogliosa di rimanere desta a lungo. Maka si grattò le testa, mettendosi su un fianco, mentre scrutava l’albero della flebo.
Il punto debole del suo piano era sicuramente Tsubaki, sperava di non svegliarla, aveva ancora qualche problema col buio e con le lenzuola, ma comunque le era sembrava abbastanza intontita da potersi riaddormentare subito, e così infatti fece.
Maka rimase seduta sul letto per qualche secondo, meditando sul da farsi. L’albero era, come sempre, un problema. Lo guardò, gli occhi erano abituati alla penombra e quel palo appariva grigio nel buio, ma ben delineato. Doveva staccarsi il tubino dal braccio o portarsi dietro il sacchetto di plastica. Aveva visto Elka fermare il flusso del liquido e togliere il tubicino dall’ago piantato nel suo braccio, ma non se la sentiva di farlo da sola, al buio per di più.
Chiuse gli occhi e sospirò, si sarebbe portata la sacca appresso. Si alzò e l’afferrò, prima di infilare la mano sotto il cuscino e prendere la torcia che le aveva portato Ox.
Con passo leggero si diresse verso il bagno, cercando di non far cigolare troppo la porta, il sonno di Tsubaki le stava ancora a cuore.
Appoggiò la torcia  e il sacchetto della flebo sul muretto vicino al lavandino, sul quale Elka appoggiava sempre le cose, senza preoccuparsi di accendere la luce, e aprì l’acqua, intenzionata a lavarsi la faccia, era sudata anche se era notte. Mise le mani a conca sotto il getto scrosciante dell’acqua e si beò di quella frescura ancora prima che l’acqua le arrivasse in faccia.
Si passò le mani sugli occhi, per portar via le ultime gocce che erano rimaste impigliate alle ciglia, prima di riaprirli.
Rimase a fissare il proprio riflesso scuro nello specchio, o meglio, ciò che stava dietro al proprio riflesso. C’era qualche cosa che si muoveva, ma non era nulla di umano o animale, era…Maka fece una smorfia iniziando a respirare forte: sembrava che le piastrelle, di due grigi diversi, si stessero sciogliendo su sé stesse. Sembrava che il muro sudasse e si contorcesse su sé stesso, e per un secondo Maka ebbe davvero paura di venir inghiottita da quella roba.
Afferrò la torcia con tanto entusiasmo che fece cadere per terra il sacchetto della flebo, l’ago strattonò dolorosamente il suo braccio, ma un occhio di bue illuminò il muro del bagno. Piastrelle gialle e nere, al loro posto, tanti piccoli quadratini ordinati sistemati l’uno affianco all’altro, come una scacchiera in verticale.
La ragazza sospirò e diresse il fascio di luce a illuminare tutto il bagno. Era tutto in ordine, niente piastrelle che si scioglievano, niente marea di ceramica grigia. La doccia era al suo posto, il water pure.
Si passò una mano sulla fronte. Quella volta non era stato come coi fiori, ma molto più veloce, allo stesso tempo non poteva certo dire che fosse stata un’illusione ottica, era rimasta a guardare il riflesso nello specchio per molto più di una frazione di secondo.
Spense la torcia e si guardò in giro, tutto pareva di nuovo calmo e normale, ma il cuore le batteva in petto come se fosse dovuto spuntare dal nulla un fantasma.
Raccolse la sacca e se la mise sottobraccio, uscendo dalla porta del bagno. La gomma delle sue infradito scricchiolava a contatto col il pavimento liscio. Tsubaki stava dormendo con il lenzuolo sopra la testa, l’amica la guardò per qualche secondo, chiedendosi se non fosse il caso di seguire il suo esempio e mettersi a letto.
Si morsicò l’interno delle guance: no, non se ne parlava, almeno un giretto di ricognizione per il corridoio lo doveva fare e se avesse incontrato di nuovo il tipo strano l’avrebbe accecato con la torcia e l’avrebbe costretto a dirle il suo nome.
Varcò la soglia della camera e si inoltrò nel corridoio buio, la sacca stretta al petto, premuta sul suo seno inesistente e la torcia stretta nell’altra mano. fece qualche passo un pochino intimorita, il buio era sempre più fitto, man mano che si allontanava dalla porta aperta della sua stanza. La maggior parte delle camere di degenza erano chiuse, ce n’erano solo un altro paio lasciate spalancate, ma non riuscivano a illuminare abbastanza il corridoio, dato che si trovavano proprio in fondo. Maka allungò il passo, più tranquilla e più convinta, doveva solo attraversare il buio, non c’era nulla in mezzo. Camminò ancora con gli occhi fissi sulla macchia di luce in lontananza, forse si sbagliava, ma era abbastanza sicura che si trattasse del gabbiotto delle infermiere.
La porta si chiuse, come per un colpo di vento, non aveva visto nessun’ombra oscurare la scia di luna sul pavimento, prima che la porta sbattesse. Di vento però non ce n’era, era la serata più calma che si vedesse da un po’. Faceva sempre un gran caldo, ma quella notte, in particolare tutto era fermo. Maka deglutì, dicendosi che probabilmente una delle infermiere era arrivata da dietro e aveva fatto sbattere l’uscio. Ciò, però, non le dava più alcun punto di riferimento, non sapeva dove si stesse dirigendo, avrebbe potuto accendere la torcia, ma non le pareva il momento.
Si voltò indietro, trovando di nuovo lo spiraglio di luce proveniente dalla propria camera. Per un secondo temette che qualche forza avesse chiuso anche quella porta, e invece no, era ancora lì aperta come lei l’aveva lasciata. Non doveva lasciare spazio a quei pensieri da film horror.
 Si voltò di nuovo verso il corridoio buio, decisa a procedere, quando per poco non le arrivò in faccia una carpa, o era una trota o qualsiasi altra cosa, era un maledettissimo pesce, un pesce dorato che nuotava fluttuando nel corridoio buio, brillando solo per sé stesso. Maka trattenne il fiato e scansò il banco di triglie che le si avventò contro, volteggiando per aria e boccheggiando, un pesce sega per poco non le sfiorò la camicia da notte, Maka sussultò chiedendosi cosa le sarebbe successo se l’avesse toccata, quel secondo di distrazione durò abbastanza da non permetterle di accorgersi che un paio di salmoni le stavano arrivando addosso, li notò quando erano ormai a un soffio dal sul petto, aprì la bocca come per urlare, ma non ne uscì alcun suono e i due pesci si infilarono letteralmente dentro di lei, senza che lei potesse presagirne la presenza. Si guardò alle spalle, per vedere se le erano passati attraverso come dei fantasmi –erano fantasmi? Era la prima cosa che le era venuta in mente – ma non c’era niente, sembrava che i pesci fossero stati risucchiati dal suo sterno. Tornò per l’ennesima volta al corridoio buio, per vedere che altri pesci non le passassero attraverso, ma ciò che vide era soltanto buio, di nuovo.
Affondò le unghie nella sacca della flebo e per poco non la ruppe, che cavolo era quella storia? I fiori, il ragazzino, le piastrelle che si sciolgono e i pesci volanti, che storia era mai quella?
Fece qualche passo in avanti e d’un tratto quello che ebbe davanti fu un viso spiritato, non l’aveva riconosciuto, ma capì subito che si trattava del ragazzino di qualche notte prima. Saperlo non le impedì di ribaltarsi all’indietro ed emettere un urletto di paura.
Sbatté duramente il sedere sul pavimento e probabilmente in quel momento sentì tutta l’assenza del grasso sul suo corpo, più che mai, dolorosamente, sull’osso che cozzava sul marmo. Strinse la torcia nella mano e la accese, allungando il braccio in avanti. Per poco non colpì il ragazzino sul naso, ma il dolore che sembrò provare fu lo stesso.
Il ragazzino, che ora Maka poteva vedere, aveva i capelli rosa, si rannicchiò contro il muro gemendo sofferente.
“La luce mi da fastidio agli occhi” piagnucolò.
Maka si alzò da per terra con una smorfia di dolore, mentre cercava di tenere con una mano sola sia la torcia che la sacca della flebo, per nulla intenzionata a distogliere il fascio di luce dal ragazzino.
“Chi cacchio sei tu?” chiese, in un sussurro, avvicinandosi di un passo. Il ragazzino ebbe un sussulto e si raggomitolò ancora di più, se era possibile.
Maka avrebbe voluto massaggiarsi il sedere, ma non le sembrava il momento, doveva torchiare quel tipo strano. Lo scrutò, con gli occhi ridotti a due fessure. Indossava un pigiama chiaro e lungo, non di quelli dell’ospedale, aveva qualche macchia e qualche buco, lei arricciò il naso e notò anche due pesanti pantofole di peluche a forma di coniglio. Il tutto era grottesco, notò con un brivido che non doveva essere molto più grasso di lei.
“Come ti chiami?”
“Sposta quella luce” piagnucolò lui, senza farsi vedere in volto.
“Prima il tuo nome” ordinò Maka, perentoria, non era tipo da mettere a stretto le persone a quel modo, ma tutta la situazione in sé per sé era quanto mai inquietante.
“Crona…” gemette poi, lui, dopo aver tirato sul col naso e frignato per qualche minuto.
Maka si morsicò il labbro, intenerita, ormai era davvero vicina a lui, e se ne stava chinata, con le ginocchia quasi poggiate a terra.
“Io sono Maka” si presentò in un sussurro.
“La luce” frignò lui “Avevi promesso. Maka non mantieni le promesse?”
La ragazza boccheggiò “Sì, sì, ecco…sì” fece incerta, prima di spegnere la torcia. Il buio fu di nuovo pesto, non era più abituata all’oscurità.
Non ebbe il tempo di emettere un grido, perché Crona le aveva già infilato una mano in bocca, letteralmente, mentre le balzava sopra con tutto il suo peso. Sbatté la testa e la schiena, duramente sul pavimento, di nuovo troppe ossa e poca carne. Strinse i denti attorno alle dita di Crona, le veniva quasi da vomitare, Crona non sembrò avvertire alcun dolore anche se Maka avrebbe potuto tagliargliele via di notte coi denti.
Le stava a cavalcioni addosso e lei poteva vedere la luce riflettersi nei suoi occhi lucidi. La pupilla era dilatatissima, per permettergli di vedere nel buio, meglio che potesse.
Il ragazzo avvicinò il viso a quello di Maka e si mise un dito davanti alla bocca facendo “Sshh, ti porto in un posto…” e così dicendo tolse le dita bagnate di saliva dalla bocca di Maka, che tossicchiò e lo guardò alzarsi da lei. Sentire il suo peso che la abbandonava fu un sollievo. Era magrolino, ma aveva la netta sensazione che se avessero dovuto accapigliarsi lui avrebbe avuto sicuramente la meglio.
Le porse una mano, che Maka afferrò, non senza prima pensare a quello che era appena successo. Raccattò anche la sacca della flebo, che ormai era stata sballottata fin troppo, e la torcia di Ox.
“Di qua” la tirò, e più velocemente di quanto avrebbe mai creduto arrivarono alla fine del corridoio, per poi cominciare a salire una delle scale principali, Maka si domando se sarebbe mai riuscita a tornare indietro. Grazie al cielo in quella parte c’erano parecchie finestre e la luce della luna e dei lampioni le permettevano di non inciamparsi negli scalini.
“Dove andiamo?” chiese la ragazza, ma Crona non rispose e la trascinò ancora oltre una porta che delimitava un reparto dall’androne delle scale. Superarono cinque o sei porte e a un tratto Crona virò a sinistra infilandosi in una stanza illuminata dalla luna.
“Oh, siete qui!” esclamò una ragazzina con i capelli a caschetto, seduta a gambe incrociate sul letto, fin troppo sveglia, per essere una che accoglie gente in piena notte.
Crona saltò sul letto come avrebbe potuto fare un gatto e le molle di questo gracchiarono indispettite, dall’altro lato della stanza giunse un grugnito.
“Scusa Hero, facciamo poco rumore adesso” disse la ragazza col caschetto, con una risatina che faceva esattamente presagire il contrario.
“Io sono Patty!” esclamò lei allegra, sedendosi sul cuscino, in modo da lasciare spazio anche a Maka.
“Maka, piacere” fece lei, timidamente, avvicinandosi al letto. “La vuoi una caramella?” offrì Patty, senza curarsi di abbassare la voce. Maka scosse la testa “No, è piena notte”
Patty alzò le spalle “E’ sempre l’ora delle caramelle” e ne lanciò una a Crona, che la prese in bocca come se fosse stato un cane al circo.
Maka la guardò fissare qualche cosa alle sue spalle e si voltò di scatto. Dietro di lei c’era solo la porta che dava sul corridoio buio. Si rigirò a guardare la ragazzina e questa fece un sorrisetto “E’ andato”
“Che?” chiese ancora Maka, Hero grugnì dal suo gomitolo di coperte, era piena notte, d’altronde.
Patty alzò le spalle “Niente”
“Da quand’è che siete qui?” chiese poi Maka, senza nemmeno accorgersi della domanda che aveva appena fatto.
“Da marzo, quando mi hanno operata di appendicite…e Crona da…due anni credo. Prima stava in un ospedale in Florida. Allora la vuoi una caramella?” chiese poi, con un sorriso fin troppo smagliante.
Maka sorrise “Va bene”. L’avrebbe messa in bocca e sputata in una pianta appena avesse potuto.
 
 
Quando Stein entrò nel proprio ufficio trovò una sorpresa sulla scrivania. La sorpresa era bionda e portava un camice.
“Ciao” salutò, con un sorriso che non preannunciava nulla di buono. Il dottor Stein si grattò la testa e sospirò, sapeva che la cosa si sarebbe protratta per le lunghe. Avere Medusa come fermacarte era sempre sinonimo di perdere del tempo, ma a volte non gli dispiaceva uscire dagli schemi.
“Come mai qui?” chiese, facendo finta di niente. Di solito i colleghi si sedevano sulla sedia degli ospiti, di fronte alla sua scrivania, non sulla scrivania. Si accomodò sulla propria poltrona a rotelline e la guardò, con sguardo stanco.
“Sai che non ho niente sotto il camice, potrei togliermelo” disse tranquillamente lei, e appoggiò i piedi sulla sua coscia. Il tacco della scarpa piantato nella carne era abbastanza fastidioso, ma lo ignorò.
“Non ti conviene, c’è l’aria condizionata in funzione, ti prenderesti un accidente” disse calmo, indicando il climatizzatore. Medusa fece un sorrisetto e piegò la testa da una parte “Oh, grazie per avermelo fatto notare, non ci avevo proprio pensato. Sei sempre così premuroso”
Stein annuì “Sei qui per dirmi che hai dimenticato la biancheria a casa, o ci sono altre novità?” domandò poi lui, guardandola dritta negli occhi, mentre le afferrava la caviglia e stringeva forte. Medusa accavallò le gambe e roteò gli occhi, liberandosi dalla presa di Stein “Sono venuta per Maka Albarn”
Stein si morsicò il labbro “Sono un chirurgo, taglio la gente. Non credo che ci sia granché da tagliare addosso a  Maka Albarn” commentò lui. Medusa ridacchiò, senza essere davvero felice. “Lo so, ma tu sei amico di suo padre, sai…”
“Sei tu la sua dietologa” aggiunse poi Stein, senza guardarla.
“Pesa trentatré chili e mezzo”
“Non te l’ho chiesto, dovrebbero essere cose private. Non dovresti dirle a me” ribatté Stein, duro. Medusa fece una smorfia e scese dalla scrivania, per andarsi a sedere sul ginocchio destro di lui “Ti sto chiedendo un consiglio. Sai, credo che abbia bisogno di psicofarmaci…credo che dovrei parlarne con suo padre” fece appoggiandosi alla sua spalla, per poi piantargli a tradimento il tacco nella gamba sinistra. Stein fece una smorfia.
“Rimane il fatto che non dovresti parlarne con me”
Medusa si alzò indispettita e si rimise appoggiata alla scrivania, seria “Credo che bisognerebbe fare qualche cosa. Il dottor Shinigami ha vinto un premio per la sua scoperta in campo medico. Credo che bisognerebbe sfruttare questa cosa”
“Di certo Maka Albarn non ha bisogno di un farmaco come quello che ha inventato il primario” ribatté Stein secco.
Medusa si morsicò la lingua “Forse Maka no, ma mio figlio sì”
Fu il momento di Stein per alzarsi “Non sono fatti miei questi” e così dicendo si avviò verso la porta e Medusa ritrovò il suo sorriso.
“Allora sei così preoccupato per la mia salute da non volere che mi tolga il camice?” domandò, mentre lui le dava le spalle.
“Sono pur sempre un medico” le ricordò, lei fece un sorrisetto, guardandolo uscire, sbattendo la porta dove stava appeso il suo nome dopo il titolo Medico Chirurgo. Ebbe solo il tempo per un sospiro, perché la porta si riaprisse e Stein rientrasse chiudendo a chiave l’uscio e spegnendo il condizionatore, prima di guardarla. Si fissarono per un secondo e Medusa ebbe il tempo di mostrargli tutti i propri denti in un sorriso soddisfatto “Beh, ho cambiato idea” commentò lui, per nulla a disagio.
 
 
 
Maka se ne stava sdraiata sul suo letto a sentire il respiro di Soul, sdraiato accanto a lei, con una delle sue codine sugli occhi, come se potesse ripararlo dalla luce e permettergli di dormire.
Era entrato e l’aveva salutata di sfuggita, cacciando lo zaino sotto il letto, la custodia della chitarra al muro e si era sdraiato con un salto sul letto, accanto a lei. Maka non avrebbe saputo dire perché, ma le sembrava quasi familiare la presenza di Soul dormiente accanto, e non aveva detto niente. Era quasi rilassante sentire le loro braccia che si sfioravano appena, per sbaglio.
Ci volle un quarto d’ora perché Soul si degnasse di aprire gli occhi e guardarla.
“Sono esausto” proferì, un po’ scocciato, come se fosse colpa di Maka.
La ragazza alzò le sopracciglia “Gli esami?” Soul annuì “Saranno la mia rovina” disse, chiudendo di nuovo gli occhi.
“Prima è passato Black*Star e si è portato via Tsubaki, non sono molto tranquilla” disse poi Maka stiracchiando le gambe nude sul letto. Le lenzuola erano umide, non c’era sollievo dal caldo afoso. Soul fece un gesto di disinteresse “Sì, li ho visti, si stanno scrivendo sui gessi a vicenda. Sono in una botte di ferro”
Maka alzò le sopracciglia, scettica “Non mi piace molto”
Soul fece una smorfia “Lo vedo, ma non è cattivo. ‘Sta mattina mi ha chiesto perché non ti portavo del gelato e io gli ho detto che dovevi seguire una dieta e che probabilmente non potevi mangiarlo, allora si è arrabbiato e ha detto che non gli sembravi una che avesse bisogno di stare a dieta. Quindi forse ti porterà del gelato, sciolto probabilmente, ma te lo porterà”
Maka non poté fare a meno di ridacchiare. “Non so se posso mangiarlo, ma lo mangerei, del gelato. Magari un cucchiaio” Soul la guardò con lo sguardo serio, tanto che il sorriso di Maka si spense all’istante. Distolse lo sguardo, anche se non sapeva perché.
“Perché la chitarra?” domandò  poi Maka, fissando il soffitto. “Conservatorio” rispose lui sintetico, per poi aggiungere “come se l’università non fosse abbastanza”
“Pensavo che suonassi l’organo” aggiunse lei, perplessa. Soul aveva chiuso gli occhi e si mise a suonare una tastiera immaginaria “Pianoforte” la corresse lui “Non è molto differente, in effetti, ma l’organo è più scomodo, devi premere di più i tasti” spiegò, tranquillo, prima di girarsi dalla parte di lei, per vederla in faccia. Maka fece lo stesso “Sono un pianista. La chitarra non mi piace granché. Ad esser sincero” ammise. Maka fece un sorrisetto, prima di mettersi a fare vento a entrambi con il suo giornalino del sudoku “Forse dovrei leggere qualche cosa a riguardo”
Soul fece di nuovo una smorfia “Non è il tipo di cosa che devi studiare, la musica, cioè, non in senso così stretto” fece lui e a lei sembrò quasi un rimproverò. Gonfiò le guance e si mise di nuovo sdraiata sulla schiena.
“Senti” esordì poi Soul, per nulla preoccupato per il fatto che Maka potesse essersi offesa “Non che io sia un pettegolo, ma sono venuto qui in ospedale con Liz, la mia amica”
Maka si voltò di nuovo a guardarlo incuriosita “Quella alta?” domandò, tanto per certezza, e Soul annuì con un sorrisetto “Lei. È andata da sua sorella, lei sta al piano di sopra e sono passato anche io a salutare e Liz si è messa a strillare cose stupide sul tuo amico” concluse poi alzando le sopracciglia e fissandola con gli occhi cremisi. Maka si accigliò. “Chi, Kid?”
“Il damerino” fu la risposta poco cortese di Soul, che l’aveva visto fin troppo impettito per i suoi gusti. “E?” domandò Maka, indispettita, stavano parlando male di Kid?
Soul gongolò “Liz si è messa a dire che ‘sta sera escono insieme e che è preoccupata perché di solito un ragazzo per diventare carino ai suoi occhi deve farle bere almeno tre birre, mentre lui è carino già così. Ci metteranno davvero poco dal pub al monolocale di Liz” ridacchiò ancora, pensando alla faccia di Liz che si rotolava sul letto della sorellina dicendo che il suo appuntamento sarebbe durato pochissimo perché gli si sarebbe fiondata addosso. Patty non si era più di tanto scomposta.
Maka alzò un sopracciglio e Soul continuò “Com’è Kid?”
Maka fece una smorfia, guardando altrove, pensierosa “Fissato” fu quello che le venne da dire come prima cosa.
“Liz fa casino e simpatizza parecchio per gli alcolici”
“Kid è astemio” lo rimbeccò Maka
“Cacchio, sarà un disastro!” ridacchiò Soul passandosi una mano sulla fronte sudata.
Fu allora che notò l’assenza del trespolo per la flebo “Ti hanno tolto l’appendice” disse.
“Che?”
“La flebo, stai meglio?” chiese, a rigor di logica. Maka si strinse nelle spalle “Come al solito. In realtà peso un po’ meno dell’ultima volta che l’avevano controllato, ma non ho bisogno della flebo. Me l’hanno messa quando mi hanno ricoverata”
“Perché sei qui?” chiese poi lui, a bruciapelo. Maka lo guardò, lui stava più in basso di lei, senza usare il cuscino, sdraiato al suo fianco, questo le dava la sensazione di guardarlo dall’alto in basso e la faceva sentire incredibilmente vulnerabile.
Prese fiato “Sono svenuta il giorno dell’ultimo esame. Te l’ho detto, dovrei laurearmi a breve. Ero preparatissima, avevo bevuto un sacco di caffè per stare sveglia la notte e studiare, potrei darlo adesso se un professore venisse a interrogarmi. Mi piace davvero fare quello che faccio”
Soul la scrutò dal basso “Ma non avevo mangiato. Intendo, da un giorno e mezzo. Ero così presa da quello che dovevo fare che mi sembrava una perdita di tempo fermarmi per mangiare, avevo lo stomaco chiuso e non mi andava”
Soul si morsicò il labbro “Hai mai pensato a fare qualche cosa d’altro nella vita? A parte studiare…”
Maka s’accigliò “Non è vero che non ho altri interessi. Ho studiato i vini e anche botanica”
Soul sbuffò “E sei mai andata a piantare le begonie in giardino?” sbottò, mettendosi le braccia dietro la testa. Maka arricciò il naso “No!”
“Beh, allora non vale” si guardarono negli occhi per qualche secondo “Quando esci di qui ti porto in enoteca e all’orto botanico, e guai a te se ti azzardi a portarti dietro una guida!”
 
 
 
“E quindi ti hanno visitata di nuovo, ‘sta mattina?” domandò la signora Albarn dallo schermo del portatile che Maka teneva sulle ginocchia. La ragazza annuì
“E come va?” chiese ancora la donna “Meglio” mentì sua figlia. Spirit, fuori dal campo della webcam si irrigidì, aveva parlato con Stein. Anche se aveva detto che non gli interessava finiva comunque con lo spifferare tutto a Spirit prima che lui avesse modo di chiederlo alla figlia. Un po’ odiava Medusa, ma era abbastanza sicuro che Maka non avrebbe mai manifestato qualche debolezza dinanzi a Spirit. Il giorno del suo ricovero era stato già troppo imbarazzante per lei.
“E il ciclo?” domandò poi la donna, Maka si grattò la testa, tesa. Se qualcuno l’avesse vista da fuori, qualcuno che non fosse Spirit, avrebbe pensato che quello fosse un interrogatorio “Non ce l’ho, te lo avevo detto. Ma la dottoressa Gordon mi ha detto che se riesco a prendere un po’ di peso potrebbero indurmelo con dei medicinali” spiegò, sudava, il computer sulle sue ginocchia era caldo e le lenzuola del suo letto particolarmente umide.
“E quanto dovresti pesare per prendere queste medicine?”
“Non lo so”
“Non gliel’ho chiesto?”
“Non ci ho pensato”
“Avresti dovuto” commentò la signora Albarn, e Maka la vide lambiccare distrattamente con dei fogli fuori dal suo campo visivo. Spirit distese le gambe e incrociò le braccia, seduto su una sedia vicino alla finestra.
“Comunque stavo dando un’occhiata per quel master di cui avevamo parlato prima di questo inconveniente” esordì la donna e Spirit poté vedere gli occhi di sua figlia illuminarsi “Ti manderò i dati via mail, così potrai darci un’occhiata. Adesso credo che sia meglio che vada. Il fuso orario della Tailandia mi sta uccidendo”
Il petto di Maka si sgonfiò allo stesso modo in cui si era gonfiato, ma la signora Albarn non lo vide perché stava risistemando una risma di fogli.
“Allora ci sentiamo presto?”
“Certo, ti mando una mail dopo la mia conferenza”
“Grazie” la schermata si chiuse con un blob e Maka si lasciò andare, sudata, sui cuscini.
“Papà?” chiamò “Mi hai portato quello che ti avevo chiesto?” domandò, esausta.
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Sono di nuovo qui, con un altro ritardo mostruoso, lo so, lo so, sono orribile. In questo capitolo è tornato il sovrannaturale, che io odio con tutta me stessa, perché quando si scoprirà che cos’è mi darete delle stupida, ne sono certa. >.< Poi beh, c’è Crona, che sembra un po’ Gollum, o almeno, così me lo immagino, ma con le pantofole a forma di coniglio. Non amo particolarmente il suo personaggio, perciò ho imprecato parecchio per scrivere il capitolo.
Ci sono anche Medusa e Stein, non credo che saranno ancora molto presenti, in realtà, mi piacciono, ma in questa storia non credo che abbiano molto altro da fare insieme. <3
(Il titolo del capitolo è pessimo, ma non mi veniva in mente nulla di migliore!!)
In ogni modo, grazie per la pazienza di aver seguito e letto la storia fin qui. A presto! 

   
 
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