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Autore: Sandra Voirol    12/02/2013    2 recensioni
Non ci credete vero???
Sono tornata con una Shot!!!
Eccovi una piccola anticipazione:
Embry prese le bibite dalla busta di carta e me ne passò una. “Salute amico” disse, mentre scontravamo le due bottiglie ed io finivo di masticare un boccone.
“Uhuh-uhuh”, sentii fuori dal garage. Guardai Embry con un’espressione sicuramente scettica. Ma che erano scesi i lupi dal Monte Rainier?
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Jacob
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Twilight
- Questa storia fa parte della serie 'L' Anima di Edward...ma non solo'
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Buonaseraaaa!!!
Lo so, non ci credete, che dopo tutto questo tempo io mi presento come se niente fosse, con una Shot, nuova nuova!!!

E invece sì!!! I miracoli avvengono ahahahah

Mentre pensavo che non avrei più scritto OS, la mia mente ne ha partorita un'altra!!!

Non so se ho perso il tocco... questo dovete dirmelo voi!!!

E' una OS delicata... niente ad impatto forte, ma che ho sentito che voleva uscire fuori!!!

Allora l'ho accontentata!!!

Questa Shot è
POV. JACOB !!!

Ringrazio tantissssssimo Carmen che ha fatto questa immagine per me!!!
Con una santa pazienza... ahahahah


BUONA LETTURA !!!!







QUANDO  IL  DESTINO  TI  ULULA


POV. JACOB


 
 

Mi stavo gustando il mio panino imbottito in santa pace, finalmente.
Oggi il cielo era stranamente in vena di lasciar passare il sole e per questo, mio padre si era fatto accompagnare con la sedia a rotelle fino a casa di uno dei suoi amici più cari: Harry Clearwater. Non che la pioggia ci avesse mai fermato.
Mi ero attardato giusto il tempo di scambiare due battute con Seth, quel ragazzino mi adorava; sua sorella un po’ meno, mi aveva guardato storto e si era chiusa in camera, con il cellulare all’orecchio.
Avevo stropicciato la chioma al figlio di Harry ed avevo lasciato Billy a ciarlare – manco fossero due vecchie zitelle – con la promessa che sarebbe tornato da solo, possibilmente senza rompersi l’osso del collo. Da casa di Sue, c’era una bella discesa per arrivare alla nostra casetta.
Per quel sabato avevo un bel programmino.
Ero passato per il negozio d’alimentari e mi ero fatto fare un bel panino di quelli che piacciono a me.
Manco a farlo apposta lì avevo incontrato Embry e - comprata doppia razione e due bibite fresche - si era unito con entusiasmo al mio piano per la giornata.
 
Ora, stavamo nel mio garage improvvisato, a fare la cosa che più ci piaceva: mettere a posto la mia Golf del ’86.
Per adesso era parecchio malridotta – ancora - ma contavo di renderla operativa prima del mio sedicesimo compleanno. A La Push la patente si prendeva prima – almeno, mi piaceva pensarlo - anche se ero certo che lo sceriffo di Forks e grande amico di mio padre, non l’avrebbe pensata così. Ma confidavo nella sua bontà d’animo e che per me avrebbe chiuso mezz’occhio: in qualche modo io e Billy ci dovevamo pur spostare, no?
Gli avevamo venduto quel rottame di un Pick-up – funzionante per miracolo e lento da tagliarsi le vene – solo dopo che io avevo assillato mio padre e che Charlie gliel’aveva chiesto per sua figlia.
Era così felice che Isabella avrebbe vissuto per un po’ con lui, che si era dato da fare perché avesse un mezzo di locomozione tutto suo. Bè, supponevo che per una ragazza, andare a non più di ottanta all’ora e con un fracasso costante nelle orecchie, non fosse una cosa così grave.  L’avevo tenuto sì, nelle condizioni migliori possibili, ma doveva essere in pensione da un pezzo secondo me, anche se mio padre si era ostinato a tenerlo fino ad ora.
I soldi fatti con lo Chevy – pochi in realtà: mio padre non aveva chiesto granché a Charlie – li avevo usati per comprare la Volkswagen rossa che adesso stava posata su quattro blocchi di cemento e che per ora sembrava più una natura morta che altro.
Ma avevo intenzione di resuscitarla molto presto.
In effetti, ero già a buon punto. Il mio problema principale, non erano le capacità e nemmeno il tempo, ma la mancanza di soldi. Mi servivano dei pezzi per finirla e Billy non aveva intenzione di sganciare niente gratis. Non che navigassimo nell’oro.
 
Embry prese le bibite dalla busta di carta e me ne passò una. “Salute amico” disse, mentre scontravamo le due bottiglie ed io finivo di masticare un boccone.
“Uhuh-uhuh”, sentii fuori dal garage. Guardai Embry con un’espressione sicuramente scettica. Ma che erano scesi i lupi dal Monte Rainier?
Embry sollevò le spalle, a quanto pare non ne sapeva più di me.
“Uhuh-uhuh!” di nuovo. Ma seguito da una risatina familiare. Scossi la testa ed uscii fuori, seguito da Embry.
Era quel solito scemo di Quil.
Ma non era solo. Qualche metro più indietro lo aspettavano.  
C’era sua cugina ed una sua amica – Jessica – e un’altra ragazza della riserva che andava in classe con lui. Probabilmente si era rassegnato a portarsi dietro la cugina per poter gironzolare intorno alle altre due, insieme con un altro amico di scuola: Siky. Lo chiamavamo così per pietà umana, il suo nome era impronunciabile – Sikyahonaw - questo vizio di dare nomi delle antiche tribù. Meno male che mia madre e Billy erano stati più ragionevoli.
Embry sorrideva come uno scemo, evidentemente la compagnia non gli dispiaceva.
“Ma che fai? Ululi?” lo presi in giro raggiungendolo, con Embry alle calcagna.
“Ahahahah, spiritoso. Macchè. E’ colpa di Nonno Quil”, fece una smorfia. “Lui e le sue leggende”.
Per noi ragazzi era difficile tenere i piedi nel ventunesimo secolo, mentre gli anziani coglievano ogni occasione per raccontarci le loro storie. Come se potessero mai pensare che noi dessimo loro il benché minimo credito. Favole! Non avrei mai capito come degli uomini adulti potessero credere così tanto profondamente alle leggende del passato.
“Stamattina se n’è uscito con il verso che facevano Ephraim e company per chiamarsi ed è riuscito subdolamente a ficcarmelo in testa”, scoppiò a ridere. “Non male però, dai! Devi ammettere che è fico” e s’impostò come suo solito, rifacendo di nuovo quella specie d’ululato. Ah, Quil, Quil, che testa! Scossi la mia, con gioiosa rassegnazione.
“Dove state andando?”, chiese Embry indicando con un cenno le ragazze.
“Alla spiaggia”, rispose gongolando impaziente. “Jessica ha visto i visi pallidi nel negozietto vicino First Beach e lo ha detto a mia cugina”, poi abbassò la voce. “Pare che ci siano parecchie ragazze”.
“Andiamo?”, m’incitò Embry.
Mah. Io veramente avevo progettato di lavorare alla Golf. Mi girai a guardare il garage, indeciso. Tutta questa passione per le ragazze come l’aveva Quil, non la sentivo, ma neanche mi dispiaceva fare amicizia.
“Dai! Andiamo!”, insistette Quil. “Non vorrai mica mandarmi da solo con Sik, in mezzo a tutte quelle ragazze?”.
Allo sguardo speranzoso di Embry, sospirai. “Okay”.
“Grande amico”.
Tirai la porta sganganata del garage e chiusi il portone di casa. Difficile che Billy tornasse prima di me, ma tanto per sicurezza gli lasciai un bigliettino attaccato al frigo. First Beach
Feci un sorriso gentile alla cugina di Quil e alle sue amiche, un cenno a Siky e mi avviai con tutto il gruppo, verso il mare.
Quando già si sentivano le voci dalla spiaggia, dal limitare del bosco che costeggiavamo, spuntò fuori uno che non mi sarei aspettato. “Hei, ragazzi! Vi dispiace se vengo anch’io?”, era Sam Uley. Non era certo un nostro frequentatore e ancora meno un amico. Era più grande di noi e con tutto quello che s’era sentito in giro…
Ma era già da un po’, che ogni tanto lo vedevo osservarci, a noi altri ragazzi più giovani. Non avevo intenzione di familiarizzare con lui, chissà cosa gli passava per la testa. E poi, perché mai non se ne stava con i suoi coetanei?
Ci guardammo un attimo, sconcertati. “O-kay” risposi per gli altri, tanto per non essere sgarbato. Non capivo cosa ci trovasse ad unirsi a dei mocciosi, ma se non dava fastidio a lui…
Forse era una scusa per incontrare le ragazze di Forks, ma mi sembrava strano. Già aveva abbastanza casini per conto suo. Ricordai Leah attaccata al cellulare, quella mattina…
 
In pochi minuti fummo alla spiaggia; c’era un bel gruppo di ragazzi e ragazze di Forks.
Un bel movimento, dovevo ammetterlo. Avevano acceso un grande falò, utilizzando la legna spiaggiata e le pietre che già erano state usate tante volte: anche da noi - qualche volta - e dal gruppo dei nostri più grandi. Si davano da fare per tirare fuori da un Suburban, bibite, panini e quant’altro.
Appena li raggiungemmo ci accolsero con entusiasmo. Bè, i ragazzi un po’ meno. Forse ci vedevano come un intralcio o dei… rivali? Mah.
Tutto sommato erano simpatici: la maggior parte li conoscevo di vista – bene o male, tra Forks e La Push, anche se non stringevamo tutta quest’amicizia, di vista ci si conosceva tutti - ma non frequentavo molto Forks, con il problema del mezzo di trasporto.
Un altro motivo per darmi da fare a sistemare la Golf: avevo la vaga sensazione di perdere troppo tempo.
Ma vedere Quil seduto a poca distanza da me - avevo preso posto sulle pietre - che chiacchierava tutto convinto con delle ragazze di cui sapevo solo il nome, non aveva prezzo.
Io invece, me ne stavo cordialmente tranquillo ad ascoltare il ciarlare generale, mentre un ragazzo chiamato Eric ci presentava altri di loro, che stavano arrivando proprio in quel momento. Probabilmente erano stati alle pozze, erano usciti dalla foresta.
“…e queste sono Bella ed Angela”, finì Eric.
Il mio sguardo si posò su quella ragazza pallida e timida, dai capelli scuri e gli occhi color… cioccolato. Bella… Bella, mi diceva qualche cosa…
E soprattutto era carina.
Era la prima volta che notavo che una ragazza era carina. Frequentavo sempre i ragazzi e le ragazze di La Push – andavo a scuola tutti i giorni con i miei coetanei e vedevo anche le più grandi – ma nessuna mi era mai sembrata più che simpatica. Certo, avevo solo quindici anni, in fondo, avevo tempo per vedere qualcuna che mi piacesse di più. Non avevo tutta la fretta di Quil.
Ma lei attirava il mio interesse…
Sam – che essendo il più grande, si era automaticamente preso l’onere di fare da portavoce – ripeté i nostri nomi per l’ennesima volta.
Poi mi passarono un panino ed una bibita e diedi la mia attenzione alle chiacchiere vicino a me, anche se il mio sguardo periferico non smise di osservare quella ragazza così tranquilla e riservata. Se ne stava per i fatti suoi – assorta nei propri pensieri – mentre dava piccoli morsi al suo panino ed ogni tanto ravviava i capelli ribelli, per colpa del vento e del tempo che stava per cambiare.
Non l’avevo mai vista, era strano. Anche se il suo viso mi diceva qualche cosa, mi ricordava una bambina timida che giocava con le mie sorelle. Ma io a quei tempi ero piccolo, il ricordo era vago.
Però, unendo i due pensieri arrivai alla risposta: era Isabella Swan, la figlia di Charlie.
 
Finito di mangiare, la maggior parte dei ragazzi intorno al falò si sparpagliò in piccoli gruppi - chi si diresse verso la battigia di sassi colorati, chi verso la foresta e le pozze per un’altra escursione e chi verso il negozietto poco lontano - anche i miei si unirono alle passeggiate, compreso Quil: probabilmente aveva puntato qualche ragazza che non avrebbe mai conquistato.
Io non mi mossi. Chi m’interessava era ancora vicino al fuoco.
Eravamo rimasti in pochi, ma una volta che la sua amica si fu alzata e diretta verso le pozze, mi azzardai a parlarle. In fondo – se come pensavo, era la figlia dell’ispettore Swan – eravamo vecchi conoscenti, no?
Andai a sedermi al posto rimasto vuoto accanto a lei. “Tu sei la figlia dell’ispettore Swan: Isabella, vero?” le chiesi, per cercare conferma ai miei sospetti ed anche per iniziare in qualche modo a parlare con lei. Non ero per niente pratico in queste cose. Il solo fatto che avesse attirato la mia attenzione, rendeva molto più difficile parlarle, rispetto ad una qualsiasi altra ragazza con cui avrei voluto fare amicizia. Chissà perché?
“Preferisco Bella” mi corresse, ma confermando che lei era quella che io pensavo che fosse.
“Io sono Jacob, Jacob Black” e le offrii la mano in segno d’amicizia. “Il tuo Pick-up, Charlie l’ha comprato da mio padre”, le spiegai.
“Ah, forse dovrei ricordarmi di te, Billy è tuo padre”, ragionò.
“Io sono l’ultimo figlio, è più facile che ti ricordi delle mie sorelle” precisai, per toglierla d’impaccio. D’altronde, anch’io avevo solo un vaghissimo ricordo di lei.
“Sì”, confermò. “Mi ricordo di loro: Rebecca e Rachel”.  
Si girò ad osservare le ragazze dai capelli neri dirette verso il mare. “Sono qui?”, chiese.
“No. Rebecca ora vive alle Hawaii, è sposata con un surfista; mentre Rachel studia all’università di Washington State”, oppure, erano fuggite da casa dopo la morte di mamma, aggiunsi mentalmente. Non riuscivo ancora a decidere se la loro partenza, fosse stata o no un bene, ma il risultato, era che io e Billy avevamo dovuto cavarcela da soli.
“Però. Sposata!”, esclamò Bella. Ovviamente colpita dalla sua giovane età.
 
Cercai di cambiare discorso, non mi andava di approfondire l’argomento. “Bè, come ti sembra il Pick-up?”. 
“Mi piace molto e va che è una meraviglia”, rispose entusiasta. S’accontentava di poco.
“Mmm, troppo lento però”, una risata mi sfuggì. Lento era ancora poco. “Non sai quanto sono stato contento di venderlo a tuo padre. Il mio, non ne voleva sapere di lasciarmi costruire una nuova macchina, finché avessimo avuto un mezzo a disposizione”.
“Non va poi così piano”, lo difese.
Mi sa che non l’aveva testato sulla velocità, ma era quasi ovvio. “Ai cento sei arrivata?”.
“Mi pare di no”.
“Ecco. Ti consiglio di non provarci” e sorrisi all’idea del fracasso infernale e della riluttanza con cui avrebbe reagito il mezzo.
Rispose al mio sorriso. Era proprio carina. “Comunque è indistruttibile”, precisò.
Su questo non c’erano dubbi. “Ci sono buone possibilità che se la cavi anche contro un carro armato” e una risata mi uscì spontanea e solare.
“Ma la costruisci tu la tua prossima macchina?”, sembrava davvero interessata.
“Bè, mi serve tempo e dei pezzi di ricambio. Mica per caso hai un cilindro freni per una Volkswagen Golf del 1986 in più, da qualche parte?” le chiesi per scherzare, pensando al prossimo pezzo che dovevo assolutamente procurarmi.
“Mmm… mi sembra proprio di no, ma mi guarderò in giro”.
Le sorrisi nuovamente, apprezzando la sua spontaneità. Oltre che carina, era pure simpatica.
 
Dall’altra parte del falò mi raggiunse una voce sgradevole, che mi distrasse dall’osservazione leggera di Bella. “Jacob. Non sapevo che conoscessi Bella”. Era una ragazza rimasta vicino al fuoco, insieme con un altro ragazzo che mi pareva si chiamasse Tyler.
“All’incirca, ci conosciamo da sempre” dissi sempre sorridendo, anche se non mi era sfuggito il suo sguardo critico.
“Ma che cosa carina”, ribatté con un tono acido. Ammazza. Perché ce l’aveva con Bella?
Indirizzò la sua attenzione proprio su di lei. “Bella, mi stavo giusto chiedendo con Tyler, come mai i Cullen non siano venuti con noi. Peccato che nessuno li abbia invitati”, il tono era da serpe velenosa. Non che io cogliessi certe cose tra ragazze, ma era talmente plateale.
“Ti riferisci ai Cullen che vivono a Forks?”, s’intromise Sam. Sembrava che avesse la voce leggermente allarmata. Che strano.
“Sì” rispose subito, anche se sembrava irritata dalla sua intromissione. “Mi riferivo proprio ai figli del dottor Carlisle Cullen, li conosci?”, precisò lei.
“I Cullen non entrano nella riserva”, sentenziò Sam. Uffa. Mi sembrava di sentire mio padre o un altro degli anziani. Ma che cavolo? Ora s’era messo a crederci pure lui? Secondo me, era troppo giovane, per dare retta a quelle baggianate.
Fortunatamente Tyler attirò l’attenzione di quella ragazza e Sam chiuse lì il discorso, anche se ero certo che l’avrebbe fatto comunque: in teoria – per chi ci credeva - era vietato parlare delle nostre leggende ai visi pallidi. Nel frattempo, Sam si era messo a scrutare la foresta, come se temesse che all’improvviso spuntasse chissà cosa.
 
Decisi che era meglio cambiare discorso. “Bè, come ti trovi a Forks?”, domandai a Bella.
“Sto cercando di non impazzire”, disse con una smorfia. Non doveva piacerle granché vivere qui. Lei era abituata a città calde ed affollate. Le sorrisi comprensivo.
Poi… mi guardò di sottecchi, con quei profondi occhi cioccolato. “Che ne dici di fare un giro sulla spiaggia?”.
Il mio cuore – non so come – perse un battito e schizzai in piedi per accontentarla. D’altronde, non chiedevo di meglio.
Ci avviammo sulle pietre colorate vicino al mare. Il tempo stava cambiando, non ci sarebbe voluto molto perché il cielo coprisse il sole e tornasse la pioggia. Qui era sempre così.
“Hai sedici anni?”, mi chiese con uno sguardo che dimostrava interesse.
Mi credeva più grande di quel che ero, non era male. Ma decisi di essere sincero, non aveva senso mentire sull’età e avrebbe potuto scoprirlo già solo chiedendo a suo padre. “Ho fatto da poco quindici anni” le confessai, già contento che sembrassi più grande.
“Ma va? Credevo che avessi quasi la mia età”, disse sorpresa.
“Bè, sono alto per gli anni che ho”, supponevo che il motivo fosse quello.  
“Vieni a Forks ogni tanto, vero?”, mi chiese come se lo sperasse. Non era l’unica a volerlo. Appena sarei diventato autonomo, ci sarei andato più spesso del previsto.
“Poco, a dire la verità”, le spiegai. “Ma appena sarò riuscito a finire la macchina e prenderò la patente, potrò venirci quando voglio”.
 
Fece un cambio repentino d'argomento. “Chi era quello che ha risposto a Lauren? Non è un po’ grande per stare con i ragazzi della nostra età?”, notò. Effettivamente, non è che ci frequentasse, chissà cosa gli era preso quel giorno.
“Ha diciannove anni, si chiama Sam”, le raccontai.
“A cosa si riferiva quando a nominato la famiglia del dottore?” chiese leggera, come se fosse semplicemente curiosa.
“I Cullen dici?” e le infinite sciocchezze che la mia gente continuava a dire su di loro. “Non possono entrare nelle nostre terre”. Guardai verso James Island, mi sentivo a disagio anche a dirle queste cose. Mi facevano sentire retrogrado, credulone. Era difficile che chi non fosse della nostra tribù, capisse l’importanza delle tradizioni e - di conseguenza - anche delle nostre leggende.
Io le rispettavo, ma crederci, era un’altra cosa. Eravamo nel ventunesimo secolo, accidenti. Le leggende potevano essere belle da ascoltare per ricordare la storia della mia gente, ma storie dovevano rimanere.
“Come mai?”, mi chiese lei.
Mi morsi il labbro, rendendomi conto che avevo già violato il fantomatico trattato. “Ehm. Veramente non potrei raccontartelo”, le confessai.
“Ti prometto che non lo dirò a nessuno, la mia è solo curiosità”, mi promise sorridendomi.
Ed io – saltando un altro battito - ricambiai il sorriso. Oh, al diavolo il trattato e tutte le convinzioni degli anziani.
Okay. Gliel’avrei almeno presentata in modo interessante. Alzai un sopraciglio ed abbassai il tono di voce, rendendolo misterioso. “Ti piacciono le storie che fanno paura?”.
“Mi fanno impazzire”, rispose entusiasta.
Bene. Non è che gli potevo propinare la leggenda come la raccontava mio padre intorno al falò, era il caso di renderla un tantino alla portata di ragazzi di sedici anni. Bè, quindici, diciassette, siamo là.
Puntai un grosso tronco d’albero spiaggiato, con mille radici rivolte verso l’oceano. Mi ci accomodai, mentre lei si appoggiò al centro del tronco.
Osservavo le rocce, mentre pensavo a come impostare la faccenda. Intanto era il caso di scoprire se ne sapesse già qualcosa. “Hai mai sentito qualche cosa delle nostre leggende?”.
“Poco” ammise, ma era più probabile che non ne avesse mai sentito parlare, dalla sua espressione.
Allora le raccontai a grandi linee di quella che descriveva come i Quileute si fossero salvati dal Diluvio Universale. Mi venne da ridere, ma credevano davvero che avremmo dato credito a cose del genere. Passai a qualche cosa di un po’ più interessante, con la credenza che il mio popolo discendesse dai lupi. Per un attimo ebbi un flash di Quil e il suo ululato. Poi conclusi: “Infine, abbiamo le leggende che raccontano dei freddi” e così, ero arrivato alle convinzioni di Sam.
“Freddi?”, rimarcò Bella.
“Mmm… mmm” confermai, mettendo quel tanto di suspense necessaria a creare un’atmosfera da storia dell’orrore. “Ci sono leggende antichissime quanto quelle dei lupi, che parlano di loro. Ma vi sono anche storie più attuali. La leggenda, racconta che anche il mio bisnonno ha incontrato dei freddi e fu lui, a concordare il patto secondo cui non è permesso loro di entrare nella nostra riserva” e sollevai gli occhi al cielo, per provarle che non ci credevo, ovviamente.
“Il padre di Billy” chiese, per capire il legame familiare.
“Sì. Mio padre è un anziano della tribù per discendenza. Ora ti spiego” le promisi, alla sua espressione sconcertata. “I freddi hanno un solo nemico: i lupi. In effetti, non proprio i lupi, ma i lupi che le nostre leggende raccontano si trasformassero in uomini, almeno alcuni dei nostri antenati: voi li chiamereste licantropi”.
“E sono nemici fra loro?”, chiese con un interesse che non mi aspettavo.
“Esatto. E’ una leggenda che ci ha resi nemici dai tempi dei tempi”, le confermai. “Ma nel periodo in cui visse il mio bisnonno, i freddi che occuparono la zona, sembravano diversi. Non andavano a caccia come gli altri e per questo erano meno pericolosi per la mia gente. Quindi, il mio antenato stipulò un trattato. Se loro si fossero impegnati a non invadere mai i nostri territori, noi non avremmo parlato di loro ai bianchi” e le feci l’occhiolino.
“Ma come mai, se non erano pericolosi…”, cercò di capire meglio. Era davvero interessata.
“Possono sempre essere una minaccia per gli esseri umani, anche freddi civilizzati come quelli arrivati ai tempi del mio bisnonno. C’è sempre la possibilità che non riescano a resistere a causa della fame”, precisai enfatizzando l’ultima frase. Dovevo ammettere, che per una volta mi stavo divertendo a raccontare questa storia.
“In che senso, civilizzati?”, chiese sempre più curiosa.
“In base a ciò che dice la leggenda, le loro prede non erano esseri umani, ma gli animali” le spiegai, cercando io stesso di controllare lo scetticismo e continuare ad inscenare l’atmosfera di terrore.
“Ma che c’entrano i Cullen. Sono dei freddi anche loro, come quelli che ha conosciuto il tuo bisnonno?” insistette Bella, per cercare di capire dove andava a parare la frase di Sam.
“Non è esattamente così”, le dissi. Restando poi zitto un attimo, nel dubbio se andare fino in fondo. Ma i suoi occhi erano pieni di mille domande, quindi mi decisi. “Sono gli stessi che ha incontrato il mio avo” le confermai, infine.
La paura sul suo viso, prese il posto della curiosità. Avevo raggiunto il mio scopo: fare colpo. Sorrisi, compiaciuto del risultato e continuai. “In quel periodo, Carlisle – il loro capo – era già conosciuto dalla mia tribù. Si era stabilito in zona con il suo clan ed era andato via, prima che i visi pallidi s’insediassero qui. Da allora, ce ne sono due nuovi: un maschio ed una femmina, ma gli altri sono sempre uguali”. Cercai di fare del mio meglio per rimanere serio, per me era tutto così poco credibile.
“E quindi? Cosa sono questi freddi?” chiese lei, arrivando al dunque.
Conclusi la mia scena, sorridendo beffardo e tenebroso. “Bevono sangue, sangue umano. Voi li chiamate vampiri”.
Girò la testa verso l’oceano, impedendomi così di vedere la sua espressione e capire cosa stesse pensando. Ma aveva la pelle d’oca: probabile reazione alla paura, a meno che avesse freddo.
“Ti ho messo paura?”, le chiesi ridacchiando. Forse avevo esagerato.
“Complimenti. Hai del talento per raccontare le leggende” rispose, ma sempre guardando il mare.
“Sono un po’ folli, non credi? Sarà per questo che gli anziani non vogliono che le spifferiamo in giro” dissi, cercando di rassicurarla sulla falsità di ciò che le avevo appena rivelato.
Ancora non mi guardava in viso. “Non temere, non dirò niente a nessuno” mi promise, con una voce troppo seria, come se in qualche modo la faccenda meritasse credito e rispetto.
Mi sfuggì una risatina. “Ho idea di aver appena violato il patto”. Bè, non credevo che il dottore dell’ospedale di Forks se la sarebbe presa, già molti di noi si rifiutavano di andarci, proprio a causa della sua presenza. Altra assurdità.
“Ti giuro che me lo porterò nella tomba”, mi rassicurò.
“Bè, perlomeno non dirlo a Charlie”, le chiesi. “Tuo padre non è molto contento che una parte della mia gente si rifiuti di andare in ospedale, proprio a causa del dottor Cullen. Billy e l’ispettore hanno discusso per questo”, la pregai. Non volevo scatenare un altro putiferio tra mio padre e Charlie.
“Te lo prometto Jacob”, mi disse solenne.
Ma continuava a guardare l’oceano. La cosa cominciava a preoccuparmi, probabilmente avevo davvero esagerato. “Siamo davvero una tribù di superstiziosi, non trovi?” scherzai, ma anche cercando di tastare la sua opinione in merito.
Finalmente si girò e mi sorrise. Un po’ tirata forse, ma sembrava tranquilla. “Piuttosto, credo che tu sia bravissimo a raccontare le leggende. Guarda, mi hai fatto venire la pelle d’oca” e alzò il braccio come prova.
“Forte”, mi uscì soddisfatto.
 
In quel momento fummo interrotti dall’arrivo di un ragazzo che si chiamava Mike e da una ragazza che lo seguiva come un’ombra. “Ti ho trovata” esclamò lui, come se la stesse cercando.
Mi venne un dubbio. “Ma è il tuo ragazzo?”, chiesi di getto.
“Assolutamente no” mi rispose, facendomi l’occhiolino. Meno male.
Allora mi azzardai. “Quindi, appena presa la patente…”.
“Mi verrai a trovare”, concluse la frase per me. E vai!
Intanto i due ragazzi ci raggiunsero. “Dov’eravate andati?”, le domandò lui.
“Jacob mi ha raccontato le leggende della sua tribù, mi sono piaciute molto”, spiegò. Mi sorrise ed io le risposi allo stesso modo.
Era facile con lei. Spontaneo. Il disagio provato prima di parlarle era scomparso.
“E’ probabile che tra poco piova, stiamo andando via” l’informò Mike, mentre mi squadrava.
Guardammo entrambi il cielo. Okay. Stava per buttarla giù come al solito.
Bella si alzò. “Va bene, vengo subito”.
“Sono felice di averti rincontrata”, le dissi a mò di saluto e per punzecchiare quel ragazzo, che a mio avviso la sentiva un po’ troppo di sua proprietà.
“Ne sono contenta anch’io. Quando mio padre verrà da Billy, vengo con lui”, mi promise.
“Sarebbe forte”, approvai con un sorriso radioso.
“Grazie mille” disse, prima di prendere la strada che portava al suburban.
 
Wow.
Non sapevo ancora cosa sarebbe diventato, quello che ora sentivo. Ma indubbiamente, era stato bello parlare con lei. Mi ero sentito bene ed avevo provato un’emozione nuova, a cui non sapevo dare un nome.
Amicizia?
Altro?
Lo avrei scoperto con il tempo.
Per ora dovevo solo aspettare la prossima occasione per rivederla.
Lasciai il tronco dov’ero appoggiato e tornai a passo più lento del mio solito – ripensando alle sue reazioni al mio racconto e ai suoi sorrisi – ed evitando per pochi centimetri, le onde del mare che s’infrangevano sempre più aggressive sulla battigia, a causa del tempo.
Vidi Quil ed Embry in lontananza, mentre Sam già stava lasciando la spiaggia, quasi seguendo i ragazzi di Forks, che avevano appena messo in moto i loro mezzi.
“Hei”, mi strillò Quil. “Io vado dietro a cinque ragazze e non combino niente, mentre tu ne punti una e te la porti a spasso. Hai fatto colpo amico!”.
“Macchè”, gli risposi un po’ scocciato. “Era solo la figlia di Charlie – l’ispettore di polizia di Forks – l’amico di Billy”.
“Solo?”, precisò Quil.
“Solo”, confermai.
Tirai su il cappuccio, per ripararmi dalla pioggia che aveva iniziato a cadere più insistente, misi le mani in tasca e mi accodai agli altri con passo spedito.
Destinazione: garage.
Ora, avevo un motivo in più, per darmi una mossa a rimettere in sesto la mia Volkswagen Golf rossa del '86.




   
 
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