Animali da compagnia
di Gan_HOPE326
Appena entrai nel lussuoso appartamento dei conti Germano,
la padrona di casa mi raggiunse per darmi il benvenuto e condurmi fino al grande salone dove gli invitati alla festa di quella sera
erano già riuniti in gran numero. Chiacchieravano, bevevano
e ammiravano le ricche suppellettili che abbellivano la stanza, in piedi
davanti ad un ricco buffet. Su una tovaglia ricca e
finissima stavano centinaia di piattini contenenti ogni genere di stuzzichini e
antipasti; anche i calici colmi di cocktail variopinti abbondavano. Da diversi
punti della stanza, casse acustiche ben mimetizzate diffondevano un concerto
d’archi, una musica piacevole e non invadente.
-
Stiamo
aspettando che arrivino tutti, cominceremo tra poco. – mi spiegò la contessa –
Se vuole scusarmi…
La contessa Germano scappò via a dare nuove direttive ai
domestici e accogliere i nuovi arrivati. Io mi guardai intorno alla ricerca di
qualche mio conoscente, ma non trovai nessuno. Ero venuto alla festa solo
perché convinto dagli insistenti inviti di un mio certo amico, molto vicino al
conte Germano. Adesso non riuscivo a trovare nemmeno lui. Decisi che gliel’avrei fatta pagare
per avermi piantato in asso in quel modo, dopodichè mi accostai al buffet,
rassegnato a sopportare con garbo qualche ora di noia mondana, dal momento che
abbandonare la festa di punto in bianco dopo che la padrona di casa mi aveva
visto e salutato mi sarebbe parso un gesto di estrema maleducazione. D’altro
canto, mi convinsi presto che non ero l’unico a soffrire. Il mio compagno di
sventura mi apparve davanti all’improvviso, in un lampo bianchiccio.
-
Scommetto
che ti stai annoiando anche tu, eh?
L’altro, uno splendido gattone
perlaceo, mi rispose allargando la bocca in un miagolio che sembrava uno sbadiglio,
e io scoppiai a ridere. Prese a gironzolarmi intorno con gli
occhi alzati verso la mia mano destra. Tenevo ancora tra le dita una mezza tartina presa dal buffet. Il gatto continuava
a puntarla, fissandola con le sue iridi verdi.
-
Perseo!
Non dare fastidio agli ospiti!
La contessa intervenne prontamente, camminando svelta quanto
i suoi tacchi alti glielo permettevano. Si scusò del disturbo che l’animale mi
aveva arrecato, non sapeva proprio stare al suo posto, quella bestiaccia.
-
Nessun
disturbo. – la rassicurai io.
Allentai la presa e lasciai che il gatto si prendesse la sua
preda dalla mia mano. Soddisfatto, Perseo si leccò i baffi ed andò a infilarsi sotto un divano, mentre la sua padrona si
allontanava nuovamente, per dedicarsi ad altre incombenze. Passò circa una
mezz’ora prima che riapparisse, teatralmente, dalla grande
porta in fondo alla sala. Le luci si spensero, tranne per
un paio di faretti che illuminavano la contessa; nella penombra generale, lo
scintillio degli abbondanti gioielli che portava al collo e alle braccia, così
come i riflessi dorati del suo lungo abito da sera, spiccavano ancora più di
prima. Sinceramente, trovavo che tanta ostentazione
fosse piuttosto di cattivo gusto; d’altro canto, stare a guardare le
eccentricità della contessa poteva essere un diversivo in quella serata
altrimenti tediosa.
La padrona di casa cominciò un lungo discorso di benvenuto
in cui salutò tutti coloro che erano intervenuti alla
festa, ci ringraziò per l’onore che facevamo alla sua casa e si scusò per l’assenza
del marito, impegnato, disse, in un lungo viaggio d’affari. Quando accennò al
fatto che era giunto il momento di mostrarci quello per cui
eravamo venuti, aguzzai le orecchie. Non conoscevo il motivo per
cui la festa era stata organizzata; i Germano però erano celebri per
avere il singolare hobby di collezionare animali esotici, che facevano venire,
nei limiti della legge (e, sosteneva qualcuno, anche al di fuori di essi), dai
quattro angoli della Terra.
-
Come
sapete – spiegò la contessa – io e mio marito amiamo
molto gli animali, e teniamo in casa una piccola esposizione di alcune delle
specie più insolite del pianeta. Alcuni di voi non hanno mai avuto l’occasione
di ammirare la nostra collezione, e presto potranno farlo. Oggi però vi
presenterò anche qualcosa di nuovo: qualcosa che, ne sono certa, nessuno di voi
ha mai avuto occasione di vedere prima d’ora. Una vera rarità.
L’annunciò stuzzicò la curiosità dei più e, devo ammetterlo, anche la mia. La contessa ci invitò a seguirla oltre la porta che aveva aperto,
conducendoci in un’ala dell’appartamento che fino ad allora era rimasta chiusa.
Un lungo ed ampio corridoio immerso nella penombra, ai cui
lati stavano teche in vetro, acquari, gabbie, voliere, ciascuna contenente un
animale diverso. Ci fu concessa un’altra mezz’ora per ammirare la
collezione, prima della presentazione ufficiale dell’ultimo arrivato. Era un
incredibile e fantastico serraglio, popolato delle creature più disparate.
C’erano parrocchetti provenienti dalla foresta amazzonica, variopinti pesci dei
caraibi, lunghe lucertole dalla
sguardo malevolo che abitavano i deserti dell’Australia. Non tutti gli
animali provenivano da climi caldi. Vedemmo anche alcuni lemmings,
i roditori artici che si gettano periodicamente dalle
rupi in forsennati suicidi di massa, e una piccola e splendida volpe dal pelo
argentato. Le loro gabbiette trasparenti erano fredde al tatto, mantenute a
basse temperature da un tubo che soffiava dentro aria gelida. Restai perplesso
di fronte ad un terrario contenente solo stecchi e
foglie marcescenti, ma nessun animale. Pensai fosse
stato approntato per qualche creatura destinata ad arrivare a breve, ma uno
sguardo più approfondito mi rivelò un movimento di qualcosa di bruno e rugoso
come il legno, e capii di trovarmi davanti ad un camaleonte.
La contessa andava avanti e indietro per il corridoio, dando
spiegazioni e raccontando quali traversie aveva dovuto affrontare per ottenere questo o quell’animale. L’interesse degli ospiti per quel
piccolo zoo, però, finì per scemare rapidamente di fronte all’ultima teca,
posta per l’occasione non ai lati, ma al centro del corridoio, e coperta da un
lungo drappo rosso. Ci assiepammo tutti intorno alla colonnina.
-
Questa
gabbia – cominciò la contessa Germano, che si era affrettata a mettersi al centro dell’attenzione – contiene l’esemplare di cui vi
ho parlato prima, per festeggiare il quale ho organizzato questo piccolo party.
Gli esemplari, dovrei dire, perché in effetti sono due, un maschio e una femmina. Erano molto
legati, mi hanno detto, e non avevo cuore di separarli. Li abbiamo acquistati…
Non stetti ad ascoltare molto. La
contessa si profuse solo in una lunga dissertazione su quanto costasse
acquistare simili animali, far loro passare la dogana, e via dicendo. Ringraziò
di nuovo tutti i presenti. Disse che se poteva
mostrarci quegli splendidi esemplari, ora, era grazie a suo marito, e chiese un
applauso per lui. Battemmo le mani senza troppa convinzione. Io ero tormentato
dalla curiosità. La lunga attesa mi aveva dato modo di fantasticare parecchio
su che genere di animali ci saremmo trovati di fronte,
ma nessuno di quelli che mi veniva in mente sarebbe stato così straordinario da
meritare tanta attenzione.
La contessa posò la mano sulla
sommità della colonnina, afferrando la stoffa tra le dita. Mi chiedevo se quella tanto strombazzata sorpresa non si sarebbe poi
rivelata una delusione, ma tenevo comunque gli occhi fissi sulla gabbia.
Alla fine, la contessa Germano tirò via il drappo che
copriva la gabbia, e potemmo vederli.
-
Allora,
non sono meravigliosi? – esclamò soddisfatta.
La gabbia era in realtà una piccola scatola trasparente in
plastica, con tre piccoli fori per fare entrare l’aria, un termostato e uno
sportellino. Dentro c’erano solo un po’ di pagliericcio e una piccola
mangiatoia, con lo scomparto per l’acqua e quello per il cibo.
E poi c’erano loro.
Appena li vidi, mi sentii mancare. Erano in due, un maschio
e una femmina, come aveva detto la contessa, e non c’era davvero bisogno di essere esperti per capirlo. Nella gabbietta razzolavano
nella paglia due minuscoli esseri umani. Erano alti non più di una quindicina
di centimetri, ed erano nudi. La femmina stava sdraiata sulla paglia,
indolente, si rigirava ogni tanto e sembrava mezza addormentata; il maschio
invece frugava in un angoletto, cercando non so cosa.
Si alzò in piedi, e potei vedere quanto assurdamente perfetta fosse la
rassomiglianza di quell’essere con un vero uomo. Le
forme erano perfettamente proporzionate; persino i più piccoli dettagli, come
la disposizione dei muscoli o i peli sul petto, erano senza
dubbio umani, e tra le gambe si poteva vedere pendere un piccolo membro,
della cui nudità non pareva provare alcuna vergogna.
Avessero almeno avuto una deformità,
qualcosa di mostruoso o caricaturale, forse avrei potuto accettarli, considerandoli
solo uno strano scherzo di natura. No, non potevo trovare un simile conforto.
Erano spaventosamente perfetti. Pensai anche che potessero essere un’elaborata
burla tecnologica, ma era impossibile credere che si trattasse solo di piccoli
robot. Bastava osservarli con attenzione per far crollare questa rassicurante
illusione. Lui, stanco per via del suo rovistare, aveva la pelle resa lucida
dal sudore, a tratti dilatava le narici in un ansito di fatica; lei, distesa,
respirava lentamente, e si poteva persino vedere il suo minuscolo seno
sollevarsi ed ondeggiare lievemente.
Mi guardai intorno, cercando conforto negli altri presenti,
sperando di trovare la solidarietà di qualcuno che, come me, trovasse
intollerabile la vista di quello spettacolo: ma fu inutile. Alcuni si erano già
precipitati a complimentarsi con la contessa Germano per l’ottimo acquisto, con
fare da veri intenditori. I più fissavano ancora la gabbietta e i due orribili
esserini, ridendo divertiti al vederne i gesti così spaventosamente umani.
Mio Dio, ma non li
vedete?
Come possono sembrarvi
NORMALI?
-
Ora
della pappa! – annunciò con voce squillante la contessa.
Aprì lo sportellino della gabbia e gettò dentro pochi
rimasugli presi dal buffet: una tartina mezza mangiata, qualche arachide, un
paio di olive. I due mostriciattoli abbandonarono
subito le loro attività per gettarsi famelici sul cibo. Il maschio affondò la
bocca nella tartina, imbrattandosi il viso con la salsina che la condiva,
mentre l’altra spolpava un’oliva a grandi morsi.
-
Sono
molto graziosi! – osservò una signora accanto a me.
-
Sono
orribili. – mormorai io, più che altro rivolto a me stesso.
La signora mi fissò straniata, scosse
la testa, dopodichè si allontanò per raggiungere un gruppo di persone che
discuteva animatamente su come l’allevamento di quel genere di
animali potesse rivelarsi un affare miliardario.
Io continuavo a fissare le due
creature, nonostante la loro vista mi infliggesse solo
maggiore sofferenza; ne ero allo stesso tempo ammaliato e disgustato. Non
riuscivo a distogliere da loro né lo sguardo, né il pensiero. Cercavo una
spiegazione logica all’esistenza di simili esseri, ed ecco che nella mente mi
si affollavano senza coerenza le immagini più diverse, stregoni vudù che rimpicciolivano
veri esseri umani con i loro anatemi e subito dopo biologi folli
che, chiusi nei loro laboratori segreti, coltivavano quegli abomini
costruendoli cellula su cellula.
Ma come fossero
nati non importava. Erano lì, davanti a me, esistevano, camminavano,
dormivano, respiravano, mangiavano, ignari di noi che li osservavamo così come
della miseria della loro esistenza, sorridenti, di un sorriso beato che
rammentava la felicità ebete dei drogati. Mi chiesi se tra le amorose cure che
la contessa prodigava loro non ci fosse anche l’aggiunta di una goccia di
qualche tipo di stupefacente all’acqua o al cibo della
mangiatoia. L’avrei potuto chiedere a lei stessa, e certamente mi avrebbe
risposto senza alcun problema, ma non volli sapere così tanto,
e preferii restare nel dubbio. Immerso in questi pensieri, in realtà, avevo
finito per distogliere lo sguardo dagli esseri che ne erano
l’oggetto: e sarebbe stato meglio continuare così. Fui invece indotto di nuovo
a guardarli da un’esclamazione entusiastica della contessa Germano:
-
Oh,
attenzione! Guardate che fanno ora!
Alzai gli occhi, e vidi l’intera
scena. I due avevano finito di mangiare ed erano tornati al comportamento di
prima. Ad un tratto il maschio, che continuava a camminare avanti e indietro
con fare nervoso, si avvicinò alla femmina, sdraiata languida sulla paglia, e
le salì sopra, e lei oppose un po’ di resistenza, poi cedette, e poi…
- Si stanno accoppiando. – commentò
ridendo di malizia un signore baffuto, mentre alcune delle donne squittivano e
distoglievano lo sguardo da quello spettacolo, solo per poi sbirciarlo con la
coda dell’occhio. Qualcuna sussurrò anche un mezzo apprezzamento per le doti di lui.
Io ero atterrito. Quello era il
colmo dell’orrore, o almeno così credevo. Il disgusto ebbe il sopravvento sul
fascino perverso che fino ad allora mi aveva
calamitato lo sguardo; lasciai la gabbia e corsi in salone, dove mi gettai su
una sedia a fianco del buffet. Afferrai il primo drink che trovai
a portata di mano e lo scolai d’un fiato, senza pensare.
Non so di preciso quanto tempo passò:
probabilmente qualche ora. Intorno a me sentivo le voci della gente che
chiacchierava, non so di cosa, perché non prestavo
loro attenzione. Continuavano ad affollarsi intorno alla
gabbia, all’inizio, poi l’interesse per quello spettacolo andò scemando.
Non mi importava di loro, comunque. Io ero paralizzato
dai miei pensieri e dal terrore, e cercavo di scacciare entrambi continuando a
tracannare, di tanto in tanto, il contenuto dei bicchierini che stavano sul buffet. Volevo ubriacarmi, ma era inutile: il mio stesso
orrore mi attanagliava così profondamente da tenermi lucido, frustando la mia
coscienza con il ricordo di ciò che avevo visto ogni
volta che essa cercava di perdersi in un rassicurante oblio. Alla fine, spossato
dall’angoscia e stordito dall’alcol, caddi in un leggero dormiveglia. Fu un
sonno solo a metà, affollato di incubi confusi e
indefiniti, ma carichi di terrore; allo stesso tempo, ero parzialmente
cosciente di ciò che mi accadeva intorno. Ricordo soprattutto
il gatto, Perseo, passeggiarmi davanti, accoccolarsi sul pavimento, poi
riprendere la sua camminata.
Il gatto?
Il gatto si fermò di nuovo. Teneva
qualcosa in bocca, e mi fissava con soddisfazione. Quel qualcosa era piccolo e
imbrattato di rosso.
Spalancai gli occhi, riscuotendomi
dal torpore. L’angoscia che mi assalì era mille volte più
nera e profonda di quella che avevo conosciuto fino a quel momento.
Osservai meglio il pezzo di carne rosa che il mostro ignaro teneva tra le
fauci, il sangue che ne stillava lasciando una scia di piccole macchie rosse e
rotonde al suolo, il braccio minuscolo (ma umano! Umano!) che penzolava da un
angolo della bocca.
Fui scosso da un tremito di nausea.
Camminai alla cieca, cercando di sfuggire a quella visione, barcollando qua e
là. Mi bloccò la contessa Germano, che mi vide all’improvviso sbucarle davanti,
confuso e boccheggiante com’ero.
-
Che succede? – chiese con premura.
Io non riuscii ad articolare una risposta sensata. Agitai
una mano in direzione di Perseo, balbettando qualcosa come il gatto, il gatto; poi il conato divenne
ancor più violento e fui costretto a fuggire in bagno. Mentre
vomitavo anche l’anima, sentii la padrona di casa lanciare un gridolino, seguito da un vocio diffuso:
-
Brutto
cattivo, Perseo! Cattivo! Non si fa!
-
Accidenti,
che disastro.
-
Ecco,
lo sapevo! Quando gli ho dato il mangiare, ho
dimenticato lo sportellino aperto, e questo cattivaccio non aspettava che
l’occasione giusta!
-
Brutte
bestie, i gatti. Non c’è modo di insegnargli le buone maniere.
-
Infatti. Se decidono di fare di testa
loro, poi, poi!
-
Ma le è rimasta almeno la femmina, contessa, se può consolarla. E chissà che tra un po’ non abbia anche dei cuccioli.
-
Speriamo,
speriamo.
Non ascoltai oltre, spalancai la porta del bagno, mi lanciai
con furia attraverso l’anticamera, verso la porta d’ingresso, la aprii con violenza, uscii, scesi le scale saltando i gradini
a quattro a quattro, fuggii da quella casa maledetta. Corsi in strada, ma ormai
ero segnato, non potevo scappare all’orrore. Lo portavo
dentro, e così sarebbe stato per il resto della mia
vita. Anche all’aperto, non riuscivo a sentirmi
libero, mi restava la sensazione di respirare aria chiusa, viziata, concessami
attraverso tre piccoli fori. Mi gettai a terra, fissando il cielo notturno,
bevendolo disperatamente con gli occhi, cercando di intuire l’enorme vastità
dello spazio e delle stelle per trovarvi sollievo; ma vidi solo un tetto di
plastica sulla mia gabbia, e oltre di esso la luna
piena, iride sciatta e malevola, priva di pupilla, tra due palpebre di nubi, e quell’occhio
cosmico mi scrutava con perfida curiosità, cercando di cogliere gli attimi più
intimi della mia vita, divertendosi alla vista delle mie sofferenze, aspettando
di vedermi mangiare, o bere, o fare l’amore, e di poter ridere di me, piccolo e
misero in confronto a lui. Non potevo fuggire. Mi rannicchiai su me stesso,
stringendomi le ginocchia, come un feto, e piansi di impotenza,
poggiando la testa contro il duro umido asfalto, per sempre solo, nudo,
osservato.