ATTENZIONE: questa shot è la terza della serie ‘The Dreamers’ di cui fanno parte ‘American Dream’ e ‘Dream in America
’ (in questo ordine).
Awakening
“Cambio
per i New York Knicks.”
La voce metallica al megafono annunciò il suo tanto
atteso ingresso in partita. Finalmente era arrivata la sua occasione.
Daiki
diede il cambio al compagno di squadra più stremato che mai. Benché fossero in
vantaggio di sei punti, mancavano ancora cinque minuti alla fine della partita.
Perdere la concentrazione era un lusso che non potevano permettersi.
Intimamente, Daiki fu grato per quella opportunità.
Tra tutti i giocatori presenti era di sicuro il più inesperto, ma il coach gli
aveva comunque concesso di scendere in campo e mostrare quello che sapeva fare.
Le luci erano ancora più intense viste dall’interno
del campo. La folla sugli spalti era un solo ammasso indefinito di urla e
ovazioni. Il ragazzo puntò lo sguardo verso un punto preciso, lì dove sapeva
essere seduto il suo ragazzo: Ryota. Nonostante la
lontananza, riuscì a scorgere un sorriso di incoraggiamento increspargli le
labbra. Conoscendolo, Daiki era certo che fosse più
emozionato di lui in quel momento.
“Non farci fare brutte figure, pulce!” lo canzonò LaFreak, porgendogli il pugno.
“Tu pensa solo a passarmi la palla!” ribatté il
giovane, battendo le nocche contro quelle dell’altro.
La partita riprese.
Aomine
Daiki stava ufficialmente esordendo nell’NBA.
Dello
spumante stappato solo quindici minuti prima, ne era rimasto quel tanto che
bastava per riempire a stento un mezzo bicchiere. Ryota
non faceva altro che urlare dalla gioia e lodare all’infinito le prodezze
sportive compiute dal compagno nei pochi minuti finali della partita: era
felice come se avesse giocato lui stesso tra i migliori cestisti del mondo.
“Quella schiacciata! Dio, quella schiacciata è stata
fenomenale! La prossima volta dovranno farti giocare dal primo minuto, per
forza!”
Daiki,
accasciato sul divano, non smetteva per un secondo di ridere. Guardava Ryota agitarsi e imitare gli stessi movimenti compiuti da
lui poco più di un’ora prima.
“Lo spumante è finito” disse questi all’improvviso con
una faccia da cucciolo bastonato. “Vado a prendere un’altra bottiglia dal
frigo!”
“Ma quante ne hai comprate?”
“Tre. All’inizio volevo prenderne ancora un’altra,
ma poi ho pensato che sarebbe stato troppo” urlò Ryota
dalla cucina. Tornò due secondi dopo con una bottiglia ghiacciata pronta per
essere aperta. Non appena questi gli aveva comunicato che avrebbe giocato in
una partita ufficiale, Ryota aveva già previsto che
avrebbe fatto faville sul parquet e si era attrezzato per festeggiare. Quella
scorta di spumante acquistata solo quella mattina, era l’espressione più palese
e sincera della fiducia che Ryota riponeva in Daiki.
Un po’ impacciato per via dell’alcol che aveva
iniziato a manifestare i suoi effetti, Ryota stava
soccombendo alla resistenza passiva offerta dal tappo di sughero.
Daiki
non poté trattenersi dal ridere a quello spettacolo tragicomico. Richiamò il
compagno e questi, una volta vicino, gli porse la bottiglia. Ma Daiki la ignorò spudoratamente. Afferrò il polso dell’altro
e, facendogli perdere l’equilibrio, lo portò a cavalcioni su di sé.
Prima ancora che Ryota
realizzasse cosa stava succedendo, si ritrovò le labbra di Daiki
incollate alle prorpie. In breve, il bacio perse
tutta la castità iniziale. Le lingue si strusciarono sinuose l’una contro
l’altra, lanciando tante piccole scariche di piacere lungo la spina dorsale di
entrambi, la cui meta era il centro pulsante della loro eccitazione.
“Daikicchi… oh…” Le labbra
di Daiki percorsero la dolce linea del collo diafano
dell’amante. Arrivate alla spalla risalirono sino all’orecchio: si schiusero
con un suono umido e succhiarono golosamente il lobo. Le geremiadi di Ryota mandavano Daiki
letteralmente in estasi.
Fecero collidere i bacini più volte, godendo nel
sentire l’uno l’erezione dell’altro desta e vogliosa. Si guardarono negli occhi
ancora una volta: nelle iridi c’era il desiderio di festeggiare il successo di Daiki con un amplesso degno di questo nome.
“Dai…” La voce di Ryota si
ammutolì all’improvviso, benché le labbra avessero continuato a muoversi.
Sembrò che il ragazzo non si fosse accorto di nulla, al contrario di Daiki. Pensò fosse solo un brutto scherzo giocatogli
dall’alcol.
“Cosa?”
“Ho detto…” Di nuovo la voce dell’altro non
raggiunse le sue orecchie e questa volta un guizzo di luce bianca aveva
accompagnato questa anomalia. Daiki iniziò ad
allarmarsi. “Che ti prende?” chiese il compagno.
Un altro lampo accecò Daiki
per un istante. Ne seguì ancora uno subito dopo e poi un quarto. Il viso di Ryota fu inghiottito dalla luce. L’ultima cosa che Daiki riuscì a vedere fu il suo viso preoccupato. Forse
stava gridando, ma non riusciva a sentirlo. Poi, l’intermittenza luminosa cessò
e la forte luce divenne fissa.
No, non era esatto. Ci mise qualche secondo a
comprendere cosa fosse successo. Non era stata la luce a lampeggiare tutto il
tempo. Essa era sempre rimasta accesa. Erano state le sue palpebre a muoversi
velocemente per proteggere dal bagliore accecante le pupille dilatate.
Era steso su di un letto. Una lampada al neon lo
sovrastava. Un forte odore di medicinale gli saturò le narici. Un sospetto
prese forma nella sua mente: si era appena svegliato in un ospedale.
Cercò
di sollevarsi un po’, ma gli risultò più difficile del previsto. Cercò di
muovere le mani per puntellarle sul materasso e darsi una spinta, ma nella
mancina avvertì qualcosa che gli impediva di stringere le dita a pugno. Abbassò
lo sguardo. Una candida mano era stretta alla sua. Accanto, qualcuno dormiva
seduto ad una sedia ma con la testa poggiata sul letto.
Attraverso le ciocche rosate scorse il volto di Sastuki.
“Ohi” chiamò, ma sentì la propria voce troppo
flebile. Riprovò, questa volta più forte. “Ohi, Sastuki.”
La ragazza emise un respiro più profondo. Si mosse
appena, ma non accennò ancora a destarsi.
Daiki
prese fiato e, con inaspettato sforzo, gridò: “Sastuki,
sveglia!”
La ragazza scattò sull’attenti come se fosse appena
stata investita da una secchiata d’acqua, i capelli arruffati e gli occhi gonfi
di sonno. “Che… che c’è?” disse d’istinto. Poi, ripresasi dallo stato di shock,
abbassò la testa verso il ragazzo. Rimase immobile a fissarlo per quelle che
parvero ore. Le iridi rosa si illuminarono e l’espressione sul suo viso
manifestò incredulità, come se stesse ammirando un esemplare di bestia rara.
“Dai-chan…” bisbigliò.
Un velo lucido di lacrime le fece brillare gli
occhi. Il mento si contrasse per lo sforzo di mantenere i singhiozzi.
Daiki
era più perplesso che mai. “Si può sapere che…”
“Dai-chan!” strillò la
ragazza e si fiondò sul collo del ragazzo stringendolo così forte da mozzargli
il respiro.
Daiki
tentò di divincolarsi dalla presa dell’amica, urlandole contro i più coloriti
ammonimenti, ma i suoi tentativi erano vani contro l’abbraccio degno di una
piovra. “Finalmente! Finalmente ti sei svegliato! Ero così in pensiero. Non
farlo più! Non farlo mai più! Mi hai fatto preoccupare così tanto!” disse
ancora in preda alle lacrime di gioia che le bagnarono tutto il viso e il collo
del ragazzo.
“Insomma, mi spieghi che accidenti sta succedendo?”
D’un tratto, Daiki cessò
ogni protesta. Sentiva il corpo di Sastuki tremare
violentemente contro il proprio, segno che la ragazza non riusciva a contenere
le emozioni che la stavano travolgendo. Lasciò che si sfogasse, anche se moriva
dalla voglia di scoprire per cosa. Era la prima volta che la vedeva in un
simile stato e soprattutto che gli manifestava così apertamente il proprio
affetto.
“Sastuki, calmati ora.”
“Scusa… è che…” ma le parole non volevano saperne di
venir fuori, soffocate dagli spasmi dei singhiozzi.
Passarono un paio di minuti ancora senza che Daiki tentasse di allontanarla e senza che Sastuki manifestasse la minima intenzione di farlo. Infine,
sciolse l’abbraccio lentamente. Il volto di lei era madido di lacrime e così
anche la maglietta bianca di Daiki, su cui ora
spiccava una chiazza umida all’altezza della spalla sinistra.
“Mi spieghi una buona volta che cosa significa tutto
questo?”
Sastuki
prese un fazzoletto da una scatola sul comodino lì vicino. Quando si fu
asciugata gli occhi e le guance, riuscì a parlare senza balbettare troppo. “Un
mese fa, dopo essere uscito da scuola, hai avuto un incidenti. Una macchina ti
ha investito e hai perso conoscenza. Pensavamo che fossi semplicemente svenuto
in seguito al trauma, ma i dottori ci dissero che invece eri caduto in coma. Ti
saresti potuto svegliare dopo giorni o mesi o anni. Abbiamo vissuto
quest’ultimo mese con la continua speranza di vederti riaprire gli occhi. È
stato terribile non poter sapere quando questo sarebbe successo. Ma oggi… ma
oggi tu…” Le lacrime ripresero a scendere, andando a bagnare il sorriso di pura
gioia che le arcuò le labbra.
Daiki
non mostrò alcuna emozione apparente. Sembrò che stesse finendo di elaborare le
frasi appena udite. Il pensiero corse al sogno: l’America, l’NBA, Kise… nulla di tutto ciò era reale, dunque. La delusione
non tardò a manifestarsi.
Sastuki
si allarmò. “Scusa, lo so che è sconvolgente, ma non sapevo come dirtelo in
modo più gentile di così.”
“È tutto a posto” cercò di tranquillizzarla il
ragazzo, ma non fu molto convincete. Per un attimo, aveva desiderato di
sprofondare nuovamente in quel sonno innaturale, lì dove i suoi desideri più
nascosti avevano preso forma. Aveva creduto di vivere un’esistenza
meravigliosa, coronata di successi, ma nulla era vero di ciò che aveva creduto
di vedere e provare, come se fosse uscito da un cinema dopo aver assistito alla
proiezione di un film sulla sua possibile vita futura.
Tutto si era dissolto, come accade per ogni sogno.
Era
strano rivedere i membri della Generazione dei Miracoli di nuovo tutti insieme.
Tra loro vi erano due estranei: Kagami Taiga e Himuro Tatsuya. Il primo aveva fatto credere che fosse andato lì
solo per ‘accertarsi che Aomine si fosse svegliato
davvero’, ma era evidente che in realtà voleva fargli visita per un profondo
senso di rispetto nei confronti di un rivale, anche se non sapeva cosa dire. Il
secondo, che non aveva mai giocato contro Aomine ma
lo conosceva solo di fama, aveva candidamente dichiarato di aver accompagnato Murasakibara per timore che si perdesse nei corridoi
dell’ospedale. Fu proprio Himuro a togliere
d’impaccio Kagami, invitandolo ad uscire insieme
dalla stanza per lasciare Daiki in compagnia dei suoi
soli ex compagni di squadra..
Sastuki
sprizzava allegria da tutti i pori per quella rimpatriata, anche se, si rendeva
conto, il motivo non era dei più lieti. Per la maggior parte del tempo era
rimasta incollata a Kuroko, nella più totale
indifferenza di quest’ultimo.
Era incredibile come nella disgrazia le persone si
mostrassero più unite che mai. A modo suo, ogni ex compagno di squadra aveva
augurato a Daiki una pronta guarigione.
Ma la persona a cui Daiki
prestava più attenzione, era Kise. Tra tutti i presenti, era quello che aveva
parlato meno, persino meno di Kuroko, e si era
mantenuto in disparte salvo intervenire quando esplicitamente interpellato. Un
comportamento del tutto estraneo al suo carattere solare e, a tratti,
logorroico.
Daiki
avrebbe dato qualsiasi cosa per poter leggere i suoi pensieri o, quanto meno,
per restare solo con lui; ma entrambe le opzioni erano impossibili da
realizzare. Si limitò ad osservarlo discretamente. Era evidente che Kise evitava a tutti i costi di incrociare il suo sguardo,
come se su quel letto si trovasse qualcosa di orripilante. Non era a suo agio,
per niente: di sicuro si trovava lì solo perché obbligato moralmente.
Guardandolo, le immagini del sogno si sovrapponevano
alla realtà. Ad ogni secondo, Daiki si rendeva conto
che non riusciva più a pensare a lui come ad un semplice ex compagno di
squadra. Mentre era privo di coscienza, le sue inibizioni e le sue vergogne si
erano annichilite e ogni desiderio si era materializzato in modo nitido ed
inequivocabile. Prima di quel momento non ci aveva mai fatto caso, ma adesso la
sua stessa mente gli aveva mostrato i suoi pensieri più reconditi, rimasti a
lungo soffocati nei remoti anfratti del suo animo: Ryota
gli piaceva davvero, e non come amico o avversario.
Perso in quella muta contemplazione, Daiki non sentiva cosa gli altri stessero dicendo, fino a
che la voce squillante di Sastuki non richiamò
l’attenzione di tutti, compresa la sua.
“Il dottore ha detto che tra quattro giorni Aomine-kun potrà uscire dall’ospedale, ma si è raccomandato
di non fargli fare sforzi fisici eccessivi. È stato fermo un mese, dopotutto.
Quindi niente basket per almeno…”
“Sastuki, non dare retta
alle stronzate dei medici! Un mese non è così tanto tempo. Una volta uscito da
qui, tre giorni saranno più che sufficienti per rimettermi in forma.”
“Aomine-kun! Non capisci
che c’è in gioco il tuo futuro di giocatore? Potresti rischiare di
compromettere per sempre le tue gambe! Considera che hai avuto un incidente. In
ogni caso, avviserò anche tutti i ragazzi del Touhou.”
“Sastuki…”
“Daiki, lei ha ragione.
Non fare sciocchezze e ascolta chi ne sa più di te” disse Akashi facendo
appello alla sua autorità di ex capitano del Teiko
per quietare l’animo burrascoso del degente.
Discutere con lui era inutile. In risposta, Daiki emise un suono stizzito con le labbra e con ciò
l’argomento sembrò risolversi.
Passarono
solo due giorni dopo che Daiki fu dimesso
dall’ospedale. Sastuki lo aveva tartassato fino allo
sfinimento affinché non si fiondasse a giocare a basket alla prima occasione.
Ma lui aveva ben altri progetti in mente.
Non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Kise a braccia conserte, in piedi nell’angolo della stanza
d’ospedale che fissava il pavimento con aria disagiata. Nessun altro dei suoi
ex compagni aveva manifestato un simile atteggiamento, anzi: si erano tutti
mostrati più solidali di quanto si aspettasse. Aveva bisogno di risposte, e
subito anche.
Probabilmente vedersi da solo con Ryota non era l’ideale, non dopo il lungo sogno che aveva
vissuto. Realtà e immaginazione avrebbero rischiato col fondersi e confonderlo.
Tuttavia, non accettava l’idea di essere stato ignorato così.
Prese il cellulare e gli inviò un sms con su
scritto: ‘Alle 16. Campetto di sempre’. Era certo che Kise
non avrebbe mai declinato un invito a giocare un one-on-one contro di lui e, da parte sua, Daiki
non vedeva l’ora di prendere tra le mani un pallone da basket e sentire il
suono dei suoi rimbalzi sull’asfalto. Due piccioni con una fava, si disse.
Appena un minuto dopo, Kise
gli rispose. Daiki si era preparato a leggere una
conferma, invece il messaggio ricevuto lo spiazzò. ‘Mi spiace, ho già un
impegno, ma ricorda che Momoicchi ti ha detto di
restare a riposo’.
Per poco Daiki non buttò
il cellulare sul pavimento per romperlo in mille pezzi. Kise
non aveva nessun dannato impegno. La scusa era patetica e lui solo un
vigliacco. Perché lo evitava? Che maledetto problema aveva? Di certo non lo
faceva per rispettare la parola data a Sastuki, e
allora cosa lo tratteneva?
“‘Fanculo!” Daiki prese il
pallone e si diresse comunque verso il luogo del mancato appuntamento, ovvero il suo campetto
preferito. Non aveva bisogno di un avversario per giocare. E soprattutto non
aveva bisogno di quel damerino di Ryota: comunque lo
avrebbe battuto, sai che divertimento! E a nulla valeva tentare di soffocare
quella voce interiore che gli ripeteva che incontrarsi per una sfida era solo
una scusa per incontrarlo, vederlo, parlargli e magari far sì che il suo sogno
si trasformasse, almeno in parte, in realtà.
Ma ormai, dopo quel rifiuto, era chiaro che quel
sogno era destinato a rimanere tale. “Va’ all’inferno, Kise!”
Dopo
i primi palleggi, i primi salti e le prime due schiacciate, il suo fisico
sembrò non accusare minimamente il mese di inattività forzata. ‘Alla faccia dei
medici e delle loro raccomandazioni’ pensò, persino. Come aveva potuto Sastuki, anche solo per un momento, sperare di tenerlo
lontano dal basket? Era come togliergli l’ossigeno, anche se, specie
nell’ultimo anno, la mancanza di validi avversari gli aveva succhiato via tutto
l’entusiasmo dei tempi delle medie.
Poi, dopo una serie di veloci cambi di mano, provò a
saltare per andare di nuovo a schiacciare, ma la gamba non resse lo sforzo. Non
appena aveva caricato i muscoli per il salto, qualcosa sembrò spezzarsi. La
fitta di dolore fu acuta e lancinante.
La palla rotolò placidamente verso il bordo del
campo, indifferente spettatrice della sofferenza del suo padrone.
Il ragazzo cadde in ginocchio. Una vampata di calore
gli investì il viso facendolo sudare e ansimare pesantemente. Per miracolo
aveva trattenuto un urlo. Era come provare quattro crampi simultanei. Si
afferrò la coscia, ma non sapeva cosa fare per far passare quel dolore. Strinse
i denti più forte che poté per non gridare, facendosi persino sanguinare le
gengive per lo sforzo. Batté il pugno sull’asfalto più volte e con una forza
tale da spaccarlo quasi, nella vana speranza di scaricare così un po’ della
sofferenza.
Dopo secondi che parvero eterni, lentamente, troppo
lentamente, l’agonia iniziò a placarsi. Daiki si
spinse con la sola forza delle braccia verso la recinzione in metallo che
delimitava il campo, così che, se fosse passato qualcuno, avrebbe pensato che
si stesse semplicemente riposando.
Il pensiero corse a Kise e
alla sua assenza. Che umiliazione sarebbe stata farsi vedere strisciare per
terra come un verme! Inspirò a fondo, come se fosse rimasto in apnea per
diversi minuti.
Si guardò la gamba. E se fosse successo qualcosa di
più grave di un semplice crampo? Possibile che avesse davvero rischiato di
buttare la sua carriera di giocatore per un capriccio? Tremò all’idea che una
simile catastrofe potesse avverarsi.
Non si accorse del sopraggiungere di qualcuno. Solo
quando questi gli rivolse la parola, Daiki si rese
conto di non essere solo. “Aominecchi, non ti senti
bene?”
L’interpellato sollevò la testa, allarmato. L’ultima
cosa che voleva era mostrarsi in tutta la sua debolezza e pateticità davanti a
qualcuno e in particolare proprio Kise, che ora lo
fissava più preoccupato che mai.
‘Almeno ora si degna di guardarmi’ pensò Daiki come unica consolazione.
“Mi sto solo riposando” si affrettò a giustificarsi.
“E il tuo impegno?” chiese pungente. Per fortuna il dolore era quasi svanito,
ma comunque fece appello a tutto l’ autocontrollo che possedeva per evitare di
tremare.
Ryota
parve credere alle sue parole, anche se non completamente. “Scusa, non avevo
nessun impegno, in realtà.”
Proprio come Daiki aveva
immaginato, ma questo non servì a quietare l’ira che lo pervase a quelle
parole. “E allora mi spieghi perché cazzo mi stai evitando? Anche all’ospedale
sembrava che preferissi stare in qualsiasi altro posto che là!”
“Mi dispiace, ma… non è facile… per me.”
“Per te? Non è facile PER TE?” Daiki
si sollevò in piedi di scatto con l’intento di aggredire Kise
come una pantera inferocita, ma la gamba, non ancora ripresasi, frenò la sua
collera con una nuova fitta. “Cazzo!” gridò e, se Ryota
non lo avesse afferrato, sarebbe rovinato in terra come prima.
“Lo sapevo: non ti stavi riposando! Ma perché non
hai ascoltato quello che ti ha detto Momoicchi?”
“Lasciami, ora passa!”
“Ti accompagno a casa e qualunque cosa tu faccia o
dica non me lo impedirà.”
Daiki
conosceva meglio di chiunque altro la testardaggine di Ryota
e quanto fosse difficile farlo desistere da qualcosa. In quel momento non aveva
le forze di protestare, per cui accettò il suo aiuto anche se con non poche
riserve.
Kise
gli prese il braccio e se lo passò attorno alle spalle. Lo afferrò per un
fianco e lo aiutò a camminare in direzione di casa sua.
“Perché sei venuto dopo avermi detto di no?” domandò
Daiki. Così vicino poteva ammirare ogni singolo
dettaglio del volto di Ryota. Non riuscì a trovare
neanche un difetto e non si stupì affatto che faceva il modello ed era pure
piuttosto famoso. Persino il suo profumo era buono ed avvolgente.
“Ti sembrerà stupido ma… avevo un brutto
presentimento. Ti conosco e sapevo che saresti andato a giocare anche da solo.
Visto le continue raccomandazioni di Momoicchi ho
pensato che era meglio verificare che non ti succedesse niente. L’intento era
quello di osservarti senza farmi vedere, ma quando sono arrivato eri già per
terra e non potevo certo far finta di niente.” Kise
sorrise tristemente, sperando che Daiki lo perdonasse
almeno un po’.
Dunque non aveva visto tutta la scena. Daiki si sentì rincuorato. “Prima non hai risposto alla mia
domanda. Hai detto solo che per te non è facile.”
Ryota
sembrò in imbarazzo. Forse aveva sperato che Daiki si
fosse dimenticato di quella risposta e non insistesse oltre sull’argomento, ma
si rese conto che era ingenuo pensarlo. Sospirò e infine trovò il coraggio di
confessarsi. “Ho iniziato a giocare a basket solo grazie a te. In pratica, si
può dire che sei il mio idolo, la persona che più di tutte ammiro. Quando ho
saputo del tuo incidente rimasi sconvolto. Era come aver perso la propria fonte
d’ispirazione e il proprio obiettivo insieme. Quest’ultimo mese è stato
terribile. Ho persino saltato molti allenamenti e qualche partita. Era come se
il basket non avesse più senso. Poi ti sei svegliato e quando ho ricevuto la
telefonata di Momoicchi ero al settimo cielo, ma
sapevo che tu non saresti stato più lo stesso di prima, non subito almeno. Per
quanto bravo, è logico che il tuo fisico abbia pesantemente risentito
dell’incidente e del mese di coma. Io non potevo sopportare l’idea di vedere te
incapace di giocare a basket. Sarebbe stato un trauma per me. Per questo non
sono venuto oggi. Il pensiero che sei uscito da poco dall’ospedale mi avrebbe
annebbiato la mente e non sarei riuscito a giocare decentemente. Io so quanto
detesti gli avversari che non si impegnano al massimo contro di te. E l’ultima
cosa che vorrei è essere detestato da te.”
“Idiota” disse solo Daiki,
di getto. Ryota lo guardò con espressione
interrogativa ma non offesa, convinto di
non aver fatto nulla di male da doversi meritare un simile insulto. “Non
capisci che rifiutandoti di giocare è anche peggio di giocare senza impegno?”
Ryota
si arrestò di colpo (e con lui, per forza, anche Daiki),
come colto da un’improvvisa illuminazione. Non ci aveva minimamente pensato.
Così facendo aveva involontariamente offeso i sentimenti e l’orgoglio di Aominecchi. Idiota era anche poco, pensò.
“Mi dispiace, non ci avevo proprio pensato.”
“Non saresti un idiota, altrimenti” ribadì Daiki, ma senza vera cattiveria. Sciolse l’abbraccio, ormai
certo di poter proseguire a camminare senza bisogno di una stampella umana.
“Ah, sei sicuro che…”
“Sì, sì, ce la faccio!” Fece un paio di passi e la
gamba non gli diede alcun problema.
“Comunque ti accompagno lo stesso!” disse Ryota e Daiki lo lasciò fare. Non
mancava molto per arrivare a casa sua.
Il discorso era stato illuminante, ma deludente. Kise gli aveva esplicitamente detto che per lui non era
altro che un esempio da seguire: in pratica non riusciva a vedere in Daiki qualcosa di più di un giocatore di basket. In fondo,
cosa si aspettava? Prima di quel momento non aveva mai dedicato a Ryota alcun tipo di attenzione che esulasse dalla
pallacanestro, e adesso si aspettava persino che gli mostrasse dei sentimenti
che lui per primo non aveva mai pensato di provare?
Il suo viso si adombrò e Ryota
lo guardò più preoccupato che mai. “Aominecchi…”
“Ho detto che ce la faccio!” lo interruppe aspro Daiki. Persino essere chiamato per cognome gli dava
fastidio, come se, nonostante il vezzeggiativo, Ryota
ergeva una barriera insormontabile tra di loro.
Arrivarono alla meta. Le luci alle finestre erano
tutte spente. “Non c’è nessuno a quest’ora?” chiese Ryota.
“No. Ultimamente i miei stanno facendo un sacco di
straordinari a lavoro.” Anche se non glielo avevano detto, Daiki
aveva compreso che il suo incidente era costato molto in termini economici. Per
questo, le finanze domestiche andavano risanate con parecchie ore di lavoro in
più. Ciò si traduceva in notti trascorse a dormire da solo in casa e in cene
fredde da riscaldare nel microonde con le scuse di sua madre scritte su un
bigliettino. Anche il fatto che al suo risveglio ci fosse Sastuki
ne era una prova. L’amica gli aveva spiegato che sua madre sarebbe rimasta
ventiquattro ore su ventiquattro al suo capezzale, ma era umanamente
impossibile. Per questo, Sastuki si era proposta di
darle il cambio e permetterle di riposare.
“Allora è meglio che rimanga con te.” Daiki gli lanciò un’occhiata carica di perplessità e Ryota si apprestò a chiarire la sua proposta. “Nel caso ti
sentissi male di nuovo.”
Quel ragazzo non conosceva mezze misure: era passato
dall’evitare completamente Daiki al volergli restare
appiccicato tutto il tempo. Non che l’idea in sé dispiacesse poi tanto a
quest’ultimo, ma si sentiva trattato più come un invalido incapace di intendere
e di volere che come un amico infortunato.
“Come vuoi” gli rispose semplicemente.
Entrati in casa, Daiki si
diresse verso il soggiorno, dove si sdraiò mollemente sul divano e stese la
gamba per rilassarla.
“Hai bisogno di qualcosa?” chiese servizievole Ryota con il suo sorriso da copertina.
“No” rispose tranquillo l’altro.
“Vuoi un po’ d’acqua?”
“No” ripeté Daiki e questa
volta un velo di irritazione trasparì dalla sua lapidaria risposta.
Ryota
non se ne curò. “Hai fame?”
“Kise, piantala! Non
voglio niente, ok? Smettila di trattarmi come se fossi un handicappato!”
Ryota
stava cercando di rendersi quanto più utile al compagno, ma stava ottenendo
solo l’effetto contrario, di nuovo. Non poteva sapere cosa si provasse a
trovarsi nelle condizioni di Aominecchi, ma di certo
doveva trattarsi di una prova psicologica ardua. Per questo, nonostante l’atteggiamento
poco carino dell’altro, Ryota non si sentiva offeso.
Era certo che la rabbia di Daiki non fosse rivolta a
lui, ma al suo infausto destino.
“Cavoli, Aominecchi! È
come giocare un uno-contro-uno con te: qualsiasi cosa faccia non va mai bene”
disse, grattandosi la testa.
Daiki
si portò il braccio destro sugli occhi. Ryota non
aveva colpa, eppure stava sfogando tutta la sua frustrazione su di lui.
Ripensò a tutti gli allenamenti saltati. A tutte le
partite non giocate. Il destino lo stava punendo per la sua superbia,
togliendogli la capacità di muoversi libero come vorrebbe. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per ritornare a saltare, correre, dribblare, schiacciare senza
paura di stramazzare al suolo in preda a dei dolori allucinanti. Si ripromise
che, una volta guarito, non avrebbe mai più snobbato gli avversari o i suoi
stessi compagni.
“Quando ero in coma ho fatto un sogno” esordì
all’improvviso. Ryota rimase impalato davanti a lui
pronto ad ascoltarlo. “Ero diventato un giocatore dell’NBA. Ero ancora un
novellino, in verità, ma poco prima di svegliarmi ero riuscito ad esordire nel
campionato americano e fare persino una schiacciata. Questo è sempre stato il
mio più grande desiderio, ma adesso, per colpa di questo incidente…” si
interruppe. La rabbia e l’impotenza gli strozzavano la gola impedendogli di
continuare.
Era come se Dio gli avesse mostrato il Paradiso
abbastanza a lungo da farlo assuefare a quella beatitudine, per poi chiudere
sadicamente i cancelli e farlo precipitare sulla Terra, nella crudele realtà. E
poi c’era Ryota: un elemento altrettanto importante
di quel Paradiso irraggiungibile.
“Aominecchi.” La voce di Ryota era morbida e calda come una carezza. Lo sentì più
vicino e, quando scostò il braccio, lo vide seduto accanto a sé sul divano.
In un impeto di tenerezza, Ryota
lo abbracciò. Probabilmente, pensò, anche questo gesto avrebbe suscitato una
reazione negativa nell’altro, noto predicatore della bellezza dei seni
prosperosi: troppo etero ai suoi occhi per concedersi di godere di un abbraccio
tra maschi. Ma tutto ciò non aveva alcuna importanza per lui. Voleva solo
fargli sentire il proprio affetto e alleviare un po’ le sue pene. “Le tue gambe
guariranno, ma non devi commettere sciocchezze. Per questi giorni riposati.
Avrai tanto tempo dopo per poter giocare e realizzare i tuoi sogni.”
Ryota
era una tentazione irresistibile. Le sue parole erano come miele e il suo
profumo inebriante. Sapeva che lui non ricambiava i suoi sentimenti e che
quello era solo un gesto di solidarietà tra vecchi amici, ma non riuscì
comunque a trattenersi. Lo strinse a sé, così forte da schiacciarlo contro il
proprio corpo fino a sentire il battito del suo cuore.
Veloce.
Possibile che l’altro si fosse emozionato? No,
probabilmente era solo disorientato dal suo gesto.
“Riesci sempre a sorprendermi” gli disse Ryota, per nulla dispiaciuto da quel contatto così intimo.
Anzi, ne sembrò persino felice.
Era davvero
possibile che…
Si scostarono quel tanto che bastava per potersi
guardare dritto negli occhi. Stranamente, quello più incredulo dei due era
proprio Daiki. Eppure, Ryota
aveva detto che lui era solo un idolo da seguire, che gli piaceva come
giocatore, non come ragazzo. Allora perché lo stava guardando in modo quasi
languido, come se per tutta la vita non avesse aspettato altro che quel
momento?
Daiki
dovette lasciare l’iniziativa a Ryota, sperando che
ciò che vedeva nelle sue iridi d’ambra non fosse una nuova, spietata illusione.
Il volto di Ryota si fece
più vicino al suo. Sentiva sulle labbra il suo respiro rovente. Si specchiarono
l’uno negli occhi dell’altro, poi, guidati da un istinto ancestrale, entrambi li
chiusero per meglio assaporare il bacio che seguì.
Ryota
era decisamente più esperto: chissà quante ragazze aveva baciato prima di quel
momento. Da prima casto, il bacio divenne più appassionato quando percorse con
la lingua il contorno delle labbra di Daiki, per poi
intrufolarsi tra di esse.
Ogni pensiero, ogni frustrazione, ogni dolore si
dissolse come una bolla di sapone. Rimase solo il desiderio di annegare in quel
piacere e sfiorare ancora una volta quel Paradiso che gli era stato negato.
Quando Ryota si sollevò
appena per riprendere fiato aveva un bellissimo sorriso stampato in faccia. Daiki si chiese invece che espressione avesse lui in quel
momento.
“Kise, tu…”
“Non pensi che sia il caso di chiamarmi per nome
adesso, Daikicchi?” Nel sentirsi chiamare così, la
mente di Daiki recuperò alcuni frammenti di sogno
sovrapponendoli alla realtà, quasi a voler fare un confronto.
“Credevo che ti interessassero solo le ragazze.”
“Potrei dire la stessa cosa di te” rilanciò Ryota e in effetti non aveva tutti i torti. “In realtà, si
può dire che è da quando ti ho conosciuto che le ragazze non mi interessano più
come prima. Mi apparivano tutte uguali e noiose. Non è facile da spiegare, ma
alla fine ho capito che l’unico che mi piaceva davvero eri tu, e non soltanto
nell’ambito del basket.”
Daiki
invidiò la naturalezza con cui il compagno esprimeva i suoi sentimenti. Dal
canto suo, avrebbe potuto raccontargli ciò che aveva sognato su loro due, ma
non era più necessario ormai. A Ryota bastava sapere
che i propri sentimenti erano ricambiati, e di questo Daiki
fu grato.
Ryota
si abbassò di nuovo per baciarlo, ma Daiki gli
premette due dita sulle labbra per fermarlo. “Non pensare che questo sia
sufficiente a farti perdonare: mi devi ancora un one-on-one.”
Ryota
non poteva chiedere niente di meglio di giocare ancora una volta con il suo Daikicchi, ma solo dopo la sua completa guarigione.
Note
dell’autrice
Come prima
cosa, devo dire che l’idea per questa shot mi è stata
ispirata da un’altra storia, ovvero questa: Sono tornato
di AomineTetsuya_chan la diretta interessata neanche lo sa XD
Mi sembrava
doveroso puntualizzarlo!
Non c’è stata
alcun tipo di premeditazione riguardo questa che ormai è diventata una serie
vera e propria. Quando scrissi la prima shot avevo
pensato di fermarmi lì, poi è arrivata l’ispirazione per la seconda ed eccomi
qui con una terza shot (penso che molto probabilmente
sarà l’ultima, ma chi può dirlo: l’ispirazione è una chimera). Si potrebbe
benissimo pensare quindi che usare la parola Dream
nei titoli delle due precedenti storie avesse solo lo scopo di anticipare
subdolamente quella che poi si sarebbe rivelata la realtà, ma, come detto, non
lo avevo minimamente pensato!
All’inizio del
capitolo ho scritto che potete accettare o meno questa storia come il finale
delle due shot precedenti, ma potete anche leggerla
come storia a sé, slegata dalle altre due. Considerate questo, da parte mia,
solo come una proposta di finale: a voi se accettarlo o meno ^^””
Per questa volta
ho sorvolato su una possibile scena lemon, poiché
volevo incentrare l’attenzione di più sull’introspezione di Aomine:
per una volta, volevo descrivere un lato più debole di lui e immaginare come
potrebbe reagire se gli venisse tolto il basket che ama ma che negli ultimi
tempi aveva ignorato per superbia. Non credo di aver reso bene quello che
volevo dire (quando mai, poi), ma non credo avrei potuto fare meglio di così D:
Per quanto
riguarda Momoi, preciso che non c’è alcun tipo di
riferimento ad una qualche possibile relazione sentimentale tra lei e Aomine: come personaggio mi è indifferente in realtà, ma
volevo tanto scrivere qualcosa sul tipo di legame che c’è tra lei e Aomine, in cui mostrare una scena di autentica amicizia tra
ragazzo e ragazza.
Commenti,
critiche, riflessioni e quant’altro (non mi stancherò mai di dirlo) sono sempre
molto graditi!