II. I have
no mouth, and I must scream
“Stammi vicino,
Rose”, disse il
Dottore, camminando per il corridoio improvvisamente sgombro.
Dov’erano finiti
tutti i passeggeri?
Rose,
dal canto suo, era
incredibilmente seria e preoccupata. “Cosa succede, Dottore?
Stanno scendendo
tutti dal treno…”.
Lui
non rispose. Decine di
finestrini bui li fissavano, come orbite cave. Da quando era calato il
buio?
Avevano preso il treno alle
tre e un
quarto del pomeriggio, ed erano in viaggio da poco meno di
mezz’ora. Non poteva
già essere buio.
Provò
a guardare attraverso il
vetro. Niente. Non si distingueva neanche una sagoma. Sentiva delle
voci
attutite giungere da fuori, e qualche schiamazzo dai vagoni, ma, per il
resto,
c’erano solo buio e silenzio. Anche Rose era incredibilmente
quieta, e questo
gli provocò un moto di apprensione: forse era spaventata, e
non gli piaceva che
fosse così spaventata.
“Andrà tutto
bene”, le sussurrò,
voltandosi verso di lei. Lui le diceva sempre che sarebbe andato tutto
bene. Per
rassicurarla, si disse. O
forse era lui che aveva bisogno di essere rassicurato.
Ma
Rose tacque. Accennò un sorriso,
che non servì a mascherare la sua apprensione.
“Certo”, rispose. “Ce la caviamo
sempre”.
C’era
qualcosa che non andava.
Quella sensazione, non riusciva a scrollarsela di dosso. La sensazione
che ci
fosse qualcosa di incredibilmente sbagliato, e la sensazione , che
detestava,
di quando qualcosa non gli era completamente chiaro.
“Dottore, ci stanno
guardando”,
bisbigliò Rose, improvvisamente. Gli aveva afferrato il
braccio, fermandosi,
poco prima della porta di congiunzione tra i vagoni.
“Come?”, fece il
Dottore,
guardandola preoccupato. Cercò di seguire la direzione del
suo sguardo, ma non
vide nulla.
“Sono lì.
C’è qualcosa, dietro la
porta…”. Non l’aveva
mai vista così
taciturna, così distratta, e così impaurita. I
suoi occhi erano colmi di
terrore, e stava tremando. Attraverso il contatto col suo corpo, poteva
avvertire i battiti accelerati del suo cuore, e le sue mani erano
gelide.
Anche
sulla porta c’era un
finestrino, e questo gli permise di dare un’occhiata
all’interno del cubicolo;
ma vide soltanto il vuoto del vagone successivo.
Ma
se Rose diceva di avere visto
qualcosa, doveva esserci qualcosa.
“Che cos’hai
visto?”, le chiese,
mentre scansionava la porta col cacciavite sonico. Niente. Non riusciva
a
rilevare niente.
“Io…
c’era qualcosa, lì dentro,
che ci fissava”, disse, passandosi una mano sulla fronte.
“È stato solo un
istante… Ma ho visto degli occhi. Erano spaventosi, Dottore.
Non ho mai visto
degli occhi così”.
Adesso
il treno era immerso nel
silenzio totale. Le uniche voci rimaste provenivano da fuori.
Fuori… perché non
erano ancora scesi a controllare dove si erano fermati?
Perché la prima cosa
che gli era venuta in mente era stata percorrere il corridoio?
Ah,
sì. Voleva controllare il
vagone del macchinista. Forse, scoprire cos’era successo al
treno, e tentare di
riparare qualunque danno avesse riportato era la scelta migliore,
ma… La
curiosità di scoprire dove si trovassero, e
perché fosse così buio, era
decisamente troppo forte.
“Che ne dici di dare
un’occhiata
fuori, Rose?”, propose, rimettendo in tasca il cacciavite.
Lei sembrava essere
meno tesa, rispetto a pochi istanti fa. “Va bene”,
asserì, gli occhi fissi sul
vetro della porta. Il Dottore la vide passarsi le mani sul volto, come
se
volesse svegliarsi.
È
troppo tardi.
Improvvisamente,
si sentì come se
delle mani invisibili gli stessero serrando la gola, impedendogli di
respirare.
Voci invisibili sussurravano tutt’intorno, sferzandogli le
orecchie come lame
affilate, come scie lasciate da proiettili, veloci e dolorose. Era come
se
tutto fosse cambiato, come se fosse stato chiuso in una cupola in cui
il tempo
era immobile, e tutto aveva perso colore, come nel negativo di una
fotografia.
Non
riusciva a respirare, e sentiva
qualcosa sul braccio. Qualcosa di appuntito. Mani. Artigli. Qualcosa
gli stava
camminando sul petto, e ogni passo era un dolore acuto.
Provò
a chiamare Rose, ma era come
se non avesse voce. Non aveva voce. Annaspava, tentando di prendere
fiato,
cercando Rose. Ma tutto ciò che toccò fu il vetro
gelido del finestrino.
L’aveva
persa. Sentiva di averla
persa. Rose non era più con lui. Lo sentiva.
Persa.
Non c’è più.
“DOTTORE!”.
Aria.
Le dita invisibili erano
scomparse. Inspirò a fondo, avidamente, tossendo e
riprendendo fiato. Era
accaduto di nuovo. Era la stessa sensazione che aveva provato poco
prima.
Sentiva
la testa girare vagamente,
a causa della mancanza momentanea di ossigeno. Si guardò
velocemente intorno, e
il panico lo assalì, quasi togliendogli, di nuovo, il
respiro. Dov’era Rose?
“DOTTORE!”.
Il Dottore si
mise
a correre, senza esitazione. Proveniva da fuori, ed era la voce di Rose.
In un attimo,
era
fuori dal treno. Poco lontano, vide delle sagome, nel buio, sotto
quello che
sembrava un porticato. Distinse la figura di Rose, e provò
un’indescrivibile
sensazione di sollievo.
“Dottore!
Siamo qui!”, stava gridando Rose.
“Sbrigati!”.
Insieme a lei,
c’erano altre due persone: un uomo anziano, e una ragazza.
L’uomo era
rannicchiato, il volto contratto dal dolore.
“Che
cos’è successo? Si sente male?”,
domandò, ansioso. Estrasse in fretta il
cacciavite, cercando di avvicinarsi all’uomo, ma questi
glielo impedì.
“Non
si preoccupi, mi sento bene”, fece, pacatamente. Trasse due o
tre respiri
profondi, dopodiché cercò di alzarsi in piedi.
“Lasci
che l’aiuti”, stava dicendo Rose, afferrandolo
delicatamente per un braccio. Il
Dottore lanciò un’occhiata apprensiva a Rose.
“Che
cos’è successo? State tutti
bene?”, domandò, riprendendo fiato.
“Non lo sappiamo. Non siamo
riusciti a capirlo”. Era stata la ragazza, a rispondergli;
aveva i capelli
rossi, e singhiozzava. “Qualcosa è saltato fuori
dal buio, e ha aggredito il
signor… il signor…”.
“McMurray.
Bill McMurray. Ma chiamatemi Bill, vi prego”, rispose
l’uomo. Aveva gli occhi
gentili, e radi capelli bianchi. “È successo
all’improvviso: stavo parlando con
la signorina, qui, di quanto è accaduto al treno, quando
qualcosa è balzato
fuori da dietro al portico, facendomi cadere. Poi se
n’è andato, scomparso. E
poi è arrivata quest’altra signorina, tutta
preoccupata. Ma sto bene. La
signorina, però, si è presa un bello
spavento…”.
E
accennò alla ragazza dai capelli
rossi, tremante e singhiozzante. Rose le sfiorò dolcemente
un braccio, un gesto
empatico, cercando di tranquillizzarla. “Non ti preoccupare.
Adesso c’è il
Dottore: sei al sicuro”.
Al
Dottore venne spontaneo
contraddirla, ma si trattenne. Non esserne così sicura,
Rose. A volte, quelli
che erano con lui se ne andavano per primi.
Quel
pensiero gli ricordò
l’esperienza di poco prima.
“Rose, quando sei scesa dal
treno?”, le domandò, afferrandola per le spalle.
Lei gli lanciò uno sguardo
confuso.
“Sono scesa quando ho
sentito
gridare. Tu avevi appena proposto di uscire dal treno, e poi abbiamo
sentito
l’urlo”. Fece una pausa, guardandolo, perplessa.
“Perché ci hai messo tanto, a
seguirmi?”.
Il
Dottore tacque. Dunque Rose non
aveva visto niente. Era stata un’allucinazione…
Oppure no? Dopotutto, anche lei
aveva detto di avere visto qualcosa. Forse non si trattava di
allucinazioni. E
c’era definitivamente qualcosa che non andava, e non si
riferiva ad un treno
fermatosi all’improvviso in mezzo al niente.
“Tu stai bene,
Rose?”. Non seppe
cos’altro domandarle. Era infinitamente felice di rivederla:
quella visione gli
aveva lasciato il terrore addosso.
Lei
annuì, con un sorriso. “Ma
certo. Tutto a posto”. Il suo sorriso si spense.
“Dove siamo, Dottore?”.
Ma
lui non rispose. La strinse a
sé, in un abbraccio frettoloso. Non ne aveva la minima idea:
sembravano i resti
appena accennati di una qualche stazione, ma non c’erano
cartelli, né
indicazioni su dove potessero trovarsi. Un orologio malmesso e
arrugginito
torreggiava poco sopra il treno, le lancette a penzoloni, e il
quadrante
rovinato. C’erano delle casse, anche quelle arrugginite,
disseminate qua e là,
sul pavimento dissestato e coperto di polvere. Dietro di loro
c’era il piccolo
portico che aveva visto mentre scendeva dal treno, un portico in legno
marcio e
malandato, con le assi rotte e dall’aspetto pericolante. Il
treno era fermo sui
binari, sull’unico binario, anche quello con
l’aspetto di un luogo in cui
nessuno aveva camminato per decenni.
Un
singhiozzo gli ricordò che non
erano soli. La ragazza rossa si stava asciugando il viso, mentre
l’uomo, Bill,
le dava piccole pacche sulla schiena, cercando di calmarla.
“Come ti chiami?”,
le chiese il
Dottore, la voce calma e lo sguardo comprensivo. Lei lo
guardò. Aveva le guance
e il naso arrossati dal pianto, e lui pensò che i suoi occhi
fossero
incredibilmente grandi e luminosi.
“Joey”, rispose
lei, scrutandolo,
studiandolo. Il Dottore poteva vedere la sua mente lavorare, attraverso
quegli
occhi così vivi, come finestre spalancate. “Joey
Byron”.
“Io sono Rose
Tyler”, fece Rose,
con un sorriso cortese.
“E
lei, signore?”, domandò Bill, facendo un cenno al
Dottore, che stava esplorando
i dintorni con lo sguardo, gli ingranaggi della sua mente giravano in
modo
frenetico.
“Come? Ah, io sono il
Dottore”,
replicò, distrattamente. Si era chinato su un mucchio di
casse e barattoli,
analizzando col cacciavite tutt’intorno. “Vuoto!
Casse vuote! Vuote e
sigillate, chi mai avrebbe bisogno di sigillare casse vuote?”.
Il
signor Murray guardò Rose,
allarmato. “Si sente bene?”, le chiese, indicando
il Dottore.
Rose
annuì, affrettandosi a
raggiungere quest’ultimo. “Oh, sì, non
si preoccupi. Sta analizzando”, spiegò.
“Se comincia a parlare del clima del Paraguay, annuite e
ignoratelo”.
“Nuovo Paraguay”, la corresse
il Dottore,
senza neanche voltarsi. ”Vedi, Rose?
Quaggiù non passa niente da almeno,
oh, settant’anni, sempre ammesso che qualcuno sia mai passato
di qui. Lo strato
di polvere, la datazione al carbonio di questi oggetti, tutto conferma
quello
che dico. Sembra quasi che questi contenitori siano qui
perché, beh, perché era
giusto che fossero qui. Come se qualcuno li avesse posizionati qui,
casualmente, come… come una scenografia”.
Si
alzò, riponendo il cacciavite.
“E quell’orologio? Non funziona da decenni! Anzi,
dubito anche che abbia mai
funzionato! Vedete il quadrante?”.
Si
voltò verso gli altri. “È
montato alla rovescia”.
Il
gruppetto tacque, affrettandosi
a verificare se il quadrante fosse effettivamente montato alla
rovescia. Il
Dottore si era accorto di un utensile, gettato in mezzo alle casse. Una
chiave
inglese, usurata, vecchia, arrugginita. Anche se lì intorno
non sembrava
esserci niente che potesse avere bisogno di una chiave inglese.
“Ma… ma io non
capisco!”, fece
Joey. Il suo tono di voce era piuttosto basso, come quello di una
persona che
vive nel timore di farsi sentire. “Dove siamo?
Perché il treno si è fermato, ed
è diventato buio all’improvviso? E poi, il dottore
come?”.
Il
Dottore balzò in piedi, a pochi
passi da lei. “Solo il Dottore”, fece, guardandola.
“Ma questa è una domanda
interessante, Joey Byron: perché è calato il buio
all’improvviso?”.
“Siamo finiti in una specie
di
spaccatura spazio-temporale?”, azzardò Rose,
guadagnandosi occhiate incredule e
scettiche da Joey e Bill. Il Dottore le rivolse un sorriso compiaciuto.
“Esatto, Rose!”,
esclamò. “Una
splendida, scintillante fessura sul binario Londra-Cardiff. Un lembo
lacerato
del tessuto spazio-temporale. Ma non è solo questo. Questo
spiega il buio
improvviso. Stiamo perdendo il punto. E il punto è: dove si
è lacerato? Dove
siamo?”.
“In che modo questo
spiegherebbe
il buio improvviso?”, fece Joey, a mezza voce, mentre Bill si
grattava la
testa, con l’aria di chi, in quella faccenda, non voleva
proprio entrarci.
“Sentite, forse non ci
crederete,
ma queste cose succedono di continuo”, disse Rose, rivolta ai
due. “Non è magia
o roba del genere: è solo, beh, scienza ed
Universo”.
“Rose Tyler, raramente mi
è
capitato di sentire spiegazioni migliori di questa”,
commentò il Dottore,
impegnato a scansionare un paio di grosse forbici spuntate.
“Ma la questione è:
come facciamo ad uscirne? Dovrei tornare sul treno, e trovare il modo
di
invertire il processo. Dalla postazione del macchinista dovrei poter
fare
qualcosa, e se trovo il punto giusto della frattura, non ci
vorrà molto per
tornare indietro… Ma non sarà così
facile. Non può essere così facile”.
“Dottore…”.
“Voglio dire, non
è solo la
frattura, il problema. Su questo treno è accaduto qualcosa
di strano. Non
l’avete avvertito anche voi? Rose, avevi ragione:
c’è qualcosa, lì sopra. E se
era lì sopra, è anche qui fuori”.
“Dottore”.
“E qui fuori! Avete dato
un’occhiata qui fuori? Sembra preso e dipinto direttamente da
un racconto di
Edgar Allan Poe, e uno dei meno avvincenti, quello con il tizio con
l’occhio di
vetro che… Ah, no, scusate, quello l’ho convinto a
non pubblicarlo, grazie al
cielo”.
“Dottore!”.
Finalmente,
il Dottore alzò lo
sguardo verso Rose, e vide che gli stava indicando il treno.
“C’è
qualcosa dall’altra parte”.
“Cosa?”, fece lui,
togliendosi
alla svelta gli occhiali, e alzandosi in piedi.
“Dietro al treno. Lo vedi?
È un
edificio, o qualcosa del genere…”.
“È
vero”, confermò Joey,
timidamente. “L’ho visto anch’io, prima.
Non pensavo che fosse importante…”.
Ed,
effettivamente, dall’altro lato
dei binari, torreggiava un piccolo edificio, fatiscente come il resto
dell’ambientazione.
“Che
cos’è?”, domandò Rose,
guardando perplessa la costruzione. “Non
c’è neanche
un’insegna…”.
“Non
lo so”, ammise
il Dottore. Per qualche ragione,
l’esistenza di quell’edificio non l’aveva
sorpreso; era tutto stranamente
prevedibile, in quel luogo, e, allo stesso tempo, non sapeva cosa
aspettarsi.
Faceva parte della sensazione di cui non riusciva a liberarsi.
“Credete
che dentro possa esserci
qualcuno? Forse possiamo telefonare per chiedere aiuto”,
suggerì Bill.
E
furono proprio quelle parole a
fargli suonare un nuovo campanello d’allarme nella testa: il
telefono. Tutti
possedevano un cellulare, in quel periodo. Perché mai a
nessuno era venuto in
mente di chiamare aiuto, fino a quel momento? Forse un uomo anziano
poteva non
averne uno, era una cosa che doveva tenere in considerazione, ma anche
quando
erano nel corridoio del vagone non aveva visto nessuno utilizzarlo.
“Non
credo. È abbandonato e in
rovina, chi potrebbe esserci?”, mormorò Joey,
tormentandosi nervosamente le
mani. “E poi, qui non c’è nessuno.
Niente di niente. Niente…”.
Ma
certo! Come aveva fatto a non
accorgersene prima?
“Nessuno!”,
esclamò il Dottore,
facendo sobbalzare gli altri. “Joey, hai ragione ancora una
volta: qui non c’è
nessuno. E non vi sembra strano, che qui non ci sia nessuno?”.
Tutti
tacquero, come se non ci
avessero pensato fino a quel momento.
“C’erano
delle persone, sul treno”,
fece Rose, guardando il Dottore, lo sguardo inquieto.
“Pensavo fossero scesi
tutti…”.
“Io…
io sono scesa poco dopo che il
treno si è fermato”, affermò Joey.
“C’erano altri passeggeri, quando ho
incontrato il signor… Bill, e abbiamo iniziato a parlare. Ma
poi c’è stata
quell’ombra, ed è come se me ne
fossi…”.
“Dimenticata?”,
concluse il
Dottore, il tono assorto. Joey annuì, sgranando gli occhi.
“Oh
Dio!”, bisbigliò, mordendosi le
labbra. Sembrava sconvolta, e allo stesso tempo furiosa.
Bill,
invece, sembrava sempre
estremamente calmo. “Non dica sciocchezze. Devono essere qui,
da qualche parte.
Tutte quelle persone non scompaiono nel nulla, così,
all’improvviso! Cosa
vorrebbe dire, che hanno approfittato di un momento di distrazione per
sparire?”.
L’uomo
aveva assunto un tono ragionevole
e dal vago sentore umoristico, ma lo sguardo del Dottore gli spense
l’ombra del
sorriso che gli si stava dipingendo sul volto.
“Non è
proprio così. È complicato, e non ne
sono neanche del tutto sicuro, ma…”. Il Dottore
scosse la testa, passandosi una
mano tra i capelli, con un gesto inquieto e nervoso. Si
guardò intorno,
l’attenzione catalizzata dall’edificio, che li
osservava in silenzio.
“Esistono
dispositivi che si
attivano con la percezione. Di solito, sono settati sul pensiero di un
singolo
individuo, e gli mostrano ciò che vuole vedere. O, in questo
caso, ciò che si
aspetta di vedere. La
folla. Ma se il
dispositivo non è programmato bene, basta una minima
alterazione del pensiero
per farlo disattivare”. Fece una pausa, guardando i tre uno
per uno. “La folla
vi rassicura. È la normalità. Questo filtro
è stato programmato in base a ciò
che la mente di un comune passeggero si aspetta durante un viaggio in
treno, e
durante un imprevisto durante il viaggio in treno. Ma qualcosa si
è inceppato:
abbiamo smesso di pensarci. È come nelle fiabe.
Finché credi nelle fate, loro
restano in vita. Ma non appena smetti di crederci, muoiono. Non solo
muoiono:
non sono mai esistite”.
“Vuoi
dire che gli altri passeggeri
non ci sono mai stati, e che noi abbiamo solo creduto di
vederli?”, chiese
Rose. “Insomma, c’è una macchina, da
qualche parte, che genera delle
illusioni?”.
Ma
il Dottore non sembrava
compiaciuto. Era giunto ad una conclusione plausibile, ma si sentiva
tutt’altro
che soddisfatto.
“Non
una macchina. Può essere
qualunque cosa, anche un piccolissimo oggetto”,
mormorò. Non riusciva più a
staccare gli occhi dall’edificio.
“Ma
non capisco!”, esclamò Joey,
alzando la voce per la prima volta. “Cosa vorrebbe dire? Che
noi siamo stati
attirati qui, in qualche modo? Che tutto il viaggio era finto? E
perché?”.
Rose
le cinse le spalle, cercando
di calmarla. “Vedrai che lo scopriremo”, le
sussurrò. Dopodiché lanciò
un’occhiata al Dottore, un’occhiata in cui lui
lesse domande. Molte domande.
“È
stato quando Joey ha gridato.
Lei e Bill sono stati distratti da qualunque cosa li abbia attaccati, e
tu,
Rose, sei corsa fuori, preoccupata per chiunque avesse gridato. E
io…”.
Tacque.
Beh, non era necessario
raccontarlo, si disse.
“…e
io ti ho seguito. Bene, allora!
Che dite, diamo un’occhiatina?”, riprese, indicando
l’edificio con un cenno
vistoso e un sorriso tanto ampio da essere falso. Joey gli
lanciò un’occhiata
profondamente eloquente.
“Andrà
tutto bene”, si affrettò a
rassicurarla. “Vi prometto che vi porterò al
sicuro”.
Le
parole gli lasciarono la bocca
prima ancora che potesse formularle. Di nuovo. Doveva proprio smetterla
di
promettere a vanvera. La prossima volta avrebbe contato fino a dieci,
prima di
parlare. O fino a trecentotrentatré.
Trecentotrentatré e i sonetti 20 e 126 di
Shakespeare. Trecentrotrentatré, i sonetti 20 e 126 di
Shakespeare, e la
Marsigliese.
“No,
aspetti un attimo”, sentì dire
Bill. “Non può dire una cosa del genere e poi
cambiare discorso! Cosa vuole
dire che non esistevano passeggeri? Che cosa significa tutto questo?
Fratture…
fratture temporali? Si rende conto di quello che dice?”.
Il
Dottore tacque. Sentì lo sguardo
di tutti e tre addosso, ma evitò di guardarli, fingendosi
estremamente
interessato ad un cumulo di assi di legno marcio, analizzandole come se
detenessero la verità assoluta.
“Non
lo so”, risposte, a mezza
voce, come se stesse ammettendo una colpa. “È
quello che intendo scoprire”. E
tornò a guardare l’entrata della costruzione.
“Voglio dire, ho terminato i
motivi per non entrarci. E anche i sinonimi di
‘edificio’. Mi piacerebbe almeno
scoprire di cosa si tratta, non siete d’accordo? Non siete
neanche un po’
curiosi?”.
Fugacemente,
vide Joey mordersi le
labbra, nervosamente, ma stava guardando verso la struttura. E,
nonostante
fosse spaventata a morte, il Dottore riconobbe quello sguardo:
sì, era curiosa.
Voleva sapere. Voleva esplorare. In quel momento, decise che avrebbe
potuto
piacergli, Joey Byron.
“Ma
sarà sicuro? Non dovremmo, che
so, dividerci?”, fece Rose, lanciandogli
un’occhiata eloquente. ”Qualcuno
resta, qualcuno entra?”. Lui fece una smorfia.
“Dividerci?
Non guardi i film
dell’orrore, Rose Tyler? Non sai che le cose terribili
cominciano ad accadere
proprio quando ci si divide? Voglio dire, non posso credere che tu stia
proponendo di dividerci! Dividerci! Pessima, pessima idea! Ci vuoi
tutti morti,
Rose? Violentemente uccisi dallo Sterminatore del Texas? È
questo che vuoi?
Quando troveranno il tuo corpo senza vita, giacente tra le rotaie, si
chiederanno cosa sia accaduto, e qualcuno dirà:
‘Oh, è la ragazza che ha
proposto di dividersi!’, e nessuno proverà pena
per te! E quando…”.
“Ho capito, Dottore”, lo
zittì, sibilando tra i denti. “Quando
troveranno il tuo corpo senza
vita, si
chiederanno cosa sia successo,
e qualcuno dirà: ‘Oh, è stata la
ragazza che aveva proposto di dividersi’, e
sta’ sicuro che nessuno proverà pena per
te”.
“Come?”,
chiese il Dottore, che si
stava già incamminando verso il binario opposto.
“Lascia
stare”, replicò lei,
scuotendo la testa. Sentì qualcuno afferrarle il braccio.
“Per
me va bene. Voglio venire… non
voglio aspettare fuori”. Era Joey, la voce sottile, ma in
qualche modo
determinata. Rose annuì.
“Oh,
se devo essere sincero, mi
sembra tutto un’assurdità.
Un’incredibile assurdità”,
commentò Bill, senza
accennare a muoversi. Il Dottore alzò finalmente gli occhi,
guardando quelle
persone come se fosse la prima volta. Quelle persone a cui aveva
tacitamente
detto di fidarsi di lui. Quelle persone che avrebbe potuto rigirarsi su
un
dito, oh, lo sapeva bene! Quelle persone che meritavano risposte. Ma
lui non
poteva dargliele. E quanto detestava, non avere risposte da dare.
Incontrò
gli occhi miti di Bill.
“Che scelta abbiamo, Bill?”, disse, cercando di
adottare un tono rassicurante,
ma non era sicuro di esserci riuscito. “Devi fidarti di
me”, aggiunse, la voce
quasi un sussurro, ma era certo che l’avesse sentito.
Bill
fece per replicare, ma fu
interrotto da un grido. Breve, strozzato, intenso. Proveniva dal lato
opposto
delle rotaie.
Rose
si voltò di scatto verso di
lui, gli occhi sbarrati, le labbra serrate. Lui rispose con un cenno
del capo.
E, senza bisogno di aggiungere altro, entrambi si misero a correre
verso la
fonte dell’urlo.
Mentre
correva, il Dottore sperò
che Joey e Bill avessero avuto l’accortezza di seguirli.
Forse aveva esagerato,
con Rose, prima, ma sapeva di avere ragione: dividersi sarebbe stata
davvero
una pessima, pessima idea.
La
stazione era piccola, quindi
fare il giro del treno e raggiungere la meta fu piuttosto semplice. Il
Dottore
non poté fare a meno di pensare che, alla fine, aveva avuto
quello che voleva:
si stavano avvicinando all’entrata della misteriosa
costruzione.
“COLIN!
COLIN!”.
Colin.
Aveva
detto Colin.
Colin…
“Dottore!
È quel ragazzino!”, sentì
gridare Rose, e poi tutto perse colore. Di nuovo.
“No,
no, no, no, no, no!”, mormorò,
rifiutando di fermarsi. Ma era come se le sue gambe fossero diventate
incredibilmente pesanti. Vide Rose dissolversi davanti ai suoi occhi,
come
vernice colante, la bocca spalancata per urlare, ma nessun suono ne
usciva.
Avrebbe voluto chiamarla, afferrarla, ma era troppo lontano. Troppo
tardi, e
troppo lontano.
Il
binario era scomparso. Rose era
scomparsa. Bill e Joey erano scomparsi, anche se non poteva vederli, ma
lo
sapeva. Sapeva di essere solo. Completamente solo…
Voglio
andare a casa.
Era
sicuro di non sentire davvero
quelle parole. Nessuno stava parlando. Era come… come se gli
oscillassero
davanti. Come se qualcuno le avesse scritte nell’aria,
gettato una manciata di
lettere a galleggiare nell’atmosfera, e lo avessero trovato.
Sto
male.
Sentì
la gola serrarsi di nuovo, ma
stavolta non c’erano dita invisibili a stringerla. Quelle
parole erano dense di
disperazione. Di rassegnazione. Di dolore. Vedeva il dolore. Sentiva il
dolore.
Il dolore gli si era attorcigliato intorno alle dita, agli occhi, alla
lingua. Qualcuno stava gridando e
piangendo…
“…colpa
tua! È TUTTA COLPA TUA!”.
Spalancò
gli occhi –quando li aveva
chiusi?-, e Rose stava tirando un ragazzino per un braccio. Colin.
Già, Colin.
E sua madre, sua madre stava cercando di afferrarlo, senza curarsi dei
calci e
dei pugni che il figlio stava sferrando all’aria, che
rischiavano di colpirla.
“È
colpa tua se siamo qui! Sei tu
che sei voluta andare a Cardiff! PERCHÉ DOBBIAMO ANDARE A
CARDIFF?”. Il volto
di Colin era paonazzo, contratto dalle urla, secco di lacrime.
“Calmati,
Colin, adesso calmati!”,
stava dicendo Rose. Stava cercando di aiutare la situazione, ma si
distingueva
chiaramente dal suo tono di voce che iniziava a innervosirsi.
“Lascialo
a sua madre, Rose”. Era
questo che avrebbe voluto dire il Dottore. Era perfino sicuro di averlo
detto,
chiaramente. Ma si accorse dopo parecchi minuti che non gli era uscito
alcun
suono dalla gola. Era rimasto lì, fermo, immobile, la bocca
serrata e gli occhi
spalancati. E nessuno sembrava essersene accorto.
“Su,
su!”, sentì dire Bill, che
aveva raggiunto la piattaforma. “Ora basta capricci. Ascolta
tua madre, da
bravo. Non è colpa sua. Di qualcuno, certamente. Ma non
della tua mamma”.
Bill
parlava con la gentilezza di
un nonno, e l’autorità di un padre. Anche se
Colin, al momento, sembrò
ignorarlo e non reagire, smise pian piano di scalciare, e le sue urla
si
trasformarono in singhiozzi sommessi e rabbiosi. Sua madre
riuscì a cingerlo
con le braccia, strappandolo alla presa di Rose, e abbracciandolo,
cullandolo,
sussurrandogli parole incomprensibili dalla posizione del Dottore.
“Va…
va tutto bene?”. Era Joey.
Anche lei li aveva raggiunti, ma gli si era fermata accanto, e adesso
lo stava
scrutando, incerta, preoccupata.
Il
Dottore annuì, deglutendo.
“Certo”, rispose, e fu profondamente sollevato
nell’udire il suono della
propria voce.
“Beh,
Joey Byron, a quanto pare non
siamo proprio gli unici rimasti”, commentò,
dandole un colpetto sulla spalla,
prima di raggiungere gli altri in poche falcate.