Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Shian Tieus    05/09/2007    4 recensioni
Il Grand Tour, per un nobiluomo inglese, può avere esiti inaspettati
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Domani è venerdì. Domani si mangia pesce.

 

Giovedì 14 aprile 1826

 

Non molti, durante il Grand Tour, si recano anche pochi chilometri poco a sud di Roma. Dopo aver visto le bellezze della città eterna, con le sue gloriose rovine ed i suoi monumenti immortali, ritengono che il loro viaggio possa oramai dirsi concluso, pensando che i fasti della città papale siano il massimo esprimibile da mano umana. Tuttavia, più che le roboanti chiese, antiche e moderne, in cui i preti esercitano ancora il loro secolare potere (con ogni accezione che l’aggettivo possa implicare), ciò che più mi ha affascinato in questa città sono state le imponenti rovine di un Impero che ancora, dopo millenni, continua a far sentire il suo peso. Insaziabile, la mia sete di antichità mi ha spinto per giorni, anzi mesi, alla ricerca di ogni arco eretto da Adriano, di ogni pietra miliare posta da Tito, accompagnato dalla mia guida, Reginald McFarland, un pittore scozzese dalla bocca storta e dall’accento marcato, che da anni vive e studia nella città.

Ogni nuova statua risvegliava in me il desiderio di scoprire perché fosse stata eretta, ogni via nascondeva dentro i suoi lastricati la storia dei gloriosi uomini dell’era volgare, in ogni artista di strada riconoscevo Batillo, nelle messe domenicali, i misteri di Cerere. Più vedevo, più la mia curiosità cresceva. “Ah! Come doveva essere questa città, ai tempi della gloria passata, quando ancora i papisti non la prostituivano!”, questo era il mio pensiero ricorrente; il desiderio di vedere Roma viva e splendente di marmi.

Per questo decisi di proseguire verso le incredibili bellezze, a quanto mi era stato detto, di Pompei ed Ercolano, bellezze che il Vesuvio, come ci racconta Plinio, ha al contempo distrutto e preservato, devastato e preparato alla rinascita.

Da York e dai miei amici londinesi molte lettere vennero per dissuadermi da questo proposito. Il regno dei Borboni era assai meno controllato di quanto i fasti della residenza reale (che rivaleggia, si dice, persino con Versailles) possano far intuire: specie nelle campagne i briganti fanno da padroni e, sicuramente, nella loro ottica, il corpo di un giovane barone di York è perfetto per essere ritrovato senza vita sul ciglio di una strada, spogliato di tutti i suoi averi. Tuttavia, a Napoli ho parecchi corrispondenti, grazie a Lord Simpelton, pace all’anima sua, che per anni ha vissuto a Capri per motivi di salute, prima che i suoi polmoni malati lo portassero verso un posto migliore. Parecchi corrispondenti che non hanno mancato di inviare lettere di raccomandazione ovunque mi recassi, per agevolarmi il viaggio, nonché di indicarmi le vie più sicure da percorrere e i centri da evitare.

E ciò funzionò meravigliosamente durante il viaggio di andata e nella permanenza stessa: i numerosi luoghi indicatomi per albergare erano sempre puliti, dignitosi ed eleganti. Rimasi a Napoli per un mese, e la permanenza mi fu più che gradita. Apprezzai oltre ogni misura le incredibili bellezze (che tuttora consiglio a chiunque abbia soldi e tempo da spendere in tale viaggio) che languono, sospese nel tempo, a Pompei. Le rovinate spoglie dell’antico impero sono quanto di più splendido l’umanità abbia lasciato in questo mondo. I viaggiatori parlano dell’Egitto e delle monumentali Piramidi, dei geroglifici di cui solo ora si cominciano a svelare i misteri, o di lontani ed antichi regni a oriente, che secoli fa suscitarono stupore e meraviglia in un mercante veneziano, dicendo che superino in maestosità qualsiasi cosa che Roma, il mediterraneo o l’Europa intera abbiano mai prodotto.

Non so se i racconti di questi lontani viaggiatori che mesi, anni o secoli or sono giunsero così lontano siano veritieri, per ora, mi limito ad affermare che le bellezze di questa città sepolte sono state quanto di più magnifico questi occhi abbiano mai osservato.

Non mi dilungherò in ciò che ho visto: il tempo stringe, e presto potrei essere impossibilitato a scrivere, e le bellezze di Pompei saranno visibili, in ogni modo, anche alle generazioni future. Sono purtroppo ancora lungi dal terminare la narrazione delle circostanze che mi hanno portato (o meglio, pressoché obbligato) a scrivere queste pagine, pertanto, mi spiace, ma dovrò glissare su molte parti del mio viaggio. Vi basti sapere che il soggiorno nelle terre borboniche fu piacevole oltre ogni aspettativa.

Lo stesso, purtroppo, non si può dire del viaggio di ritorno, che pur cominciò bene. Il primo giorno di viaggio si svolse sotto il sole battente tipico della penisola, al quale, oramai mi sono pressoché abituato: pernottai in una locanda, piuttosto grande, sulla strada principale. Pagai il dovuto e mi fu data una stanza pulita, certo non regale, ma comunque sicuramente migliore di molte altre nello stabile. Il riposo fu quieto e rinvigorente, conciliato dal pensiero che l’indomani sicuramente avrei dormito in un letto più comodo.

Il giorno seguente il viaggio proseguì bene, seppure lentamente (la rete stradale in queste terre è a dir poco vergognosa) e così mi presentai solo dopo le otto di sera, e a digiuno, alla magione nobiliare cui Don Bernardo Serrati, un nobiluomo napoletano conosciuto durante il mio soggiorno, della cui buona fede, tuttavia, non mi sento di dubitare, mi aveva raccomandato.

Il palazzo non era enorme: una trentina di stanze disposte su due piani, ma l’architettura era piacevole: era uno dei pochi palazzi ben tenuti che trovai in queste regioni e si ergeva piacevolmente su una collinetta coperta dalla macchia.

Quando bussai alla porta mi aprì una servetta minuta dai lisci capelli castani e il naso grande, vestita in maniera non eccelsa, ma comunque dignitosa. Non doveva avere più di quindici o sedici anni. Doveva essere di estrazione popolare: il suo italiano era stentato, e sporcato da un forte accento, e il mio, imparato sulle tragedie di Alfieri, di certo non era in grado di sostenere una conversazione con una ragazza del genere, pur essendo stato temprato dal mio soggiorno in Italia.

Le chiesi se quella era la residenza dei Baroni Dentedileone, pur essendone già sicuro: avevo già riconosciuto il simbolo araldico: uno scudo quadripartito bianco e rosso, con sopra disegnati, in senso orario, un leone rampante, un teschio umano, una raffigurazione di San Michele e quattro bande blu, sotto lo scudo, la citazione oraziana “mors et fugacem persequitur virum”. Tutti simboli che rimandavano al passato guerriero della casata.

Dovetti ripetere la domanda tre o quattro volte per farmi capire, e alla fine mi fu data risposta affermativa. Provai poi a spiegare che Don Bernardo Serrati aveva mandato una lettera di raccomandazione nei miei confronti chiedendo che mi fosse data ospitalità per la notte. Nonostante i miei sforzi, tuttavia, la ragazzina non parve capire, così, infine, decise di portarmi dal padrone di casa, dopo essersi fatta dare il mio nome.

Attraversai le stanze, ben illuminate, della dimora fino a giungere a un piccolo studiolo nel quale il Barone, su una poltrona rossa, leggeva alla luce di una lampada ad olio appoggiata su un tavolinetto. Dapprima parve disturbato nel vedersi interrotto, ma quando la serva gli spiegò la situazione e, in particolare, gli disse il mio nome, il suo volto si fece cordiale.

Fui piacevolmente sorpreso nello scoprire che parlava l’inglese: un inglese molto scolastico e storpiato da un pessimo accento, ma, tutto sommato corretto, imparato, a quanto diceva, dalle opere di “Guglielmo Scuotilancia” –misi non poco tempo per capire a che autore si stesse riferendo- e ritengo che lui dovesse pensare lo stesso del mio italiano.

Rimanemmo nello studiolo a fare le dovute presentazioni per circa una mezz’ora, incominciando anche una parvenza di discussione letteraria sul Goethe di “viaggio in Italia”, opera che mi aveva definitivamente convinto a compiere il Grand Tour, quando la servetta riapparve, annunciandoci che la cena era servita.

Fu nella sala da pranzo che conobbi il resto della famiglia. E vale ora la pena di soffermarsi nel descriverla. Il Barone Emilio Dentedileone era un uomo sulla quarantina estremamente robusto, che superava di misura il metro e ottanta (rara peculiarità in queste terre), con grossi baffi neri e una calvizie ormai imperante, orecchie ed occhi piccoli, carnagione scura. La moglie Abelarda era di poco più bassa, ma decisamente più magra, e di un pallore quasi cadaverico, difficile da credere in queste regioni meridionali, aveva occhi chiari rovinati da un leggero strabismo e mento pressoché inesistente. La loro figlia minore, di dieci o al massimo dodici anni, Fortunata, ricordava decisamente la madre: magra, molto pallida e dai ricci biondi: una bella bambina, con l’unico difetto di avere i denti orrendamente storti. Non ebbi il piacere di conoscere il figlio maggiore Costanzo, che al momento si trovava a Napoli, per motivi che non capii.

La cena fu piuttosto lunga e si protrasse piacevolmente: riuscivo a parlare più o meno fluidamente in italiano con i baroni, anche se avevo più difficoltà con la piccola Fortunata, che in più di un’occasione, di fronte alla mia pronuncia stentata, accennò a una risata.

Ci furono servite due portate: una focaccia abbondantemente condita e uno spezzatino al sugo di pomodoro di carne estremamente magra, che, in un primo momento, vuoi il condimento estremamente speziato, non riuscii ad identificare.

-Questo spezzatino- chiesi –è per caso manzo?-

La padrona di casa mi rispose negativamente, allora riprovai

-Maiale?- azzardai, anche se mi sembrava decisamente troppo magra. La baronessa non rispose, si limitò a sorridere e aggiunse –l’ultimo dei nostri allevamenti-

Dissi che non ci sarebbe stato bisogno di sacrificare l’ultimo animale degli allevamenti per me, specie ancora così magro, ma mi venne risposto che era già stato macellato per pranzo, e che purtroppo le bestie di quel allevamento tendevano a rifiutare il cibo, quindi non c’era modo di farle ingrassare. Una tale atteggiamento da parte dei suini mi parve piuttosto strano, ma evitai commenti.

La cena venne innaffiata con un buon vino rosso, e, subito dopo il termine, chiesi di potermi ritirare nella mia stanza, stanco per il viaggio e stordito dall'alcol.

La stanza che mi venne data era ben ammobiliata (mi ero abituato a questo genere di agi. Mobilia e vestiario italiano, pur tremendamente costosi, sono di ottimo gusto), con delle pregiate tele paesaggistiche sul lato destro, rispetto al letto. L’unico inconveniente, era il fatto che fosse esposta ad est: mi scordai di tirare le tende, e così, al mattino, mi svegliai piuttosto presto e scesi al pianterreno a dare un’occhiata alla biblioteca, purtroppo non fornitissima, del barone.

Scoprii che il barone Emilio era un tipo mattiniero: lo trovai già in piedi che leggeva, mi diede il buongiorno e si fece spiegare perché fossi già in piedi.

Dopo aver sentito le spiegazioni si scusò e mi garantì che, qualora ce ne fosse stata l’occasione, mi avrebbe fatto dormire in un’altra stanza. Sarei dovuto ripartire giusto fra qualche ora, e quindi non diedi peso alle sue parole, ma ora come ora posso dire che ha mantenuto il suo proposito.

Mi chiese quindi, se, dato che avevo tempo, avessi voglia di visitare i suoi possedimenti. Risposi di sì.

Chiamò la serva della sera prima (che, per quello che ho capito, era l’unica che parlasse un po’ di italiano) e le ordinò di farmi vedere le terre.

La ragazza mi accompagnò fuori e mi portò in un luogo, sulla collina, da cui si godeva di un buon panorama. Non capii tutto ciò che mi spiegava, ma riuscii perlomeno a seguire il senso delle sue frasi: da lì mi indicò i campi di grano e granoturco e gli orti dei pomodori, poi discendemmo la collina fino al limitare di un bosco, che mi disse essere la riserva di caccia del barone, nella quale, però, non ci addentrammo. Mi portò in seguito a vedere i magazzini e le cantine scavate nella roccia in un punto piuttosto isolato sulle pendici del colle, in cui venivano raccolte le spezie e conservati i vini e la carne. Infine, mi portò agli allevamenti, che erano giusto lì vicino. Vidi il recinto dei polli, la stalla delle mucche e delle capre e quella dei cavalli, in cui il barone teneva un paio di splendidi purosangue. Mi fu data occasione di vedere anche la muta di cani da caccia. Venni condotto anche a vedere il recinto dei maiali, in cui una decina di porci piuttosto in carne si rotolavano nel fango. Sul momento, avendo rimosso la conversazione avvenuta a cena, non notai nulla di strano. Fu quando la ragazza mi disse che mi avrebbe portato a vedere il recinto degli animali che mi avevano servito a cena che mi resi conto che, probabilmente, avevo confuso i maiali con qualche altro strano tipo di bestia.

Il “recinto” non poteva dirsi tale: era una specie di cantina scavata nella roccia dentro la quale si accedeva attraverso una scalinata stretta e ripida, chiusa, all’entrata, da una pesante grata in ferro. “quale animale è in grado di percorrere scale di questo tipo?” mi chiesi, stupito, e mi sporsi all’interno per vedere meglio: notai qualche struttura in legno, sul fondo, ma era piuttosto buio, e non riuscii a discernere con chiarezza. In quel momento la serva mi diede una spinta dietro la schiena: le scale erano ripide, umide e scivolose, e anche se la serva era piccola e gracile, riuscì con facilità a farmi perdere il già precario equilibrio, quindi rovinai sul fondo della cantina procurandomi parecchi lividi.

Prima di rendermi conto di ciò che stava succedendo, sentii il cigolio della grata che si richiudeva e il rumore di una chiave nella serratura.

Mi voltai inferocito verso la serva, che mi guardava spaurita attraverso la grata, quella cominciò in fretta a parlare.

-Il signore scusi! Il signore scusi! Le bestie mai ci entrano da sole! I padroni vogliono che io ce le spingo!  C’è la lampada sul tavolo. E olio e carta e penna e inchiostro. I padroni vogliono che tu scrivi qualcosa: dicono che piace leggere queste cose alla padroncina Fortunata prima di dormire. Poi c’è il letto con la paglia.-

Mentre diceva queste cose, mi rendevo piano piano conto di essere finito prigioniero di una allegra famiglia di folli cannibali: mi guardai intorno, ed era tutto come la servetta lo aveva descritto: potevo perlomeno scrivere le mie ultime memorie.

Ed e ciò che sto facendo, mio lettore, e farò meglio a sbrigarmi: il sole è già tramontato e risorto per due volte, i giorni e le notti che avevo a disposizione stanno per finire, e tutto ciò che mi resta è far si che la “padroncina” Fortunata abbia una lettura serale completa e piacevole.

Qui ti saluto, mio lettore, che tu sia un lettore accidentale o un Dentedileone (nel qual caso ti auguro sentitamente di rimanerti sullo stomaco), poiché i baroni mi aspettano per pranzo, trascrivendo le ultime parole che ho sentito dalla mia carceriera, la piccola servetta.

-Scriva, scriva… Il signore è fortunato, il signore ha molto tempo per scrivere. Domani è venerdì. Domani si mangia pesce-

 

Marchese Michael James Eric Bluberry

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Shian Tieus