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Autore: Pulciosa    07/09/2007    4 recensioni
Volevo solo lasciarlo diventare un ricordo sbiadito.
(Come quando le fotografie si bagnano, si curvano e sono più fragili del solito, tese alla rottura.)
E forse anche Bellatrix è fragile, e tesa alla rottura. (Bellatrix/Sirius)
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Disclaimer: i diritti di Harry Potter & Co. non mi appartengono, non voglio rivendicare niente di tutto ciò, e se li tengano pure J.K. e la Warner Bros, ma in culo perché Universal è meglio. (non per niente gli Universal Studios sono la figata più figa!)

Titolo: Sulle Labbra

Autore: Pulciosa.

Genere: Angst.

Personaggi: Bellatrix Black, Sirius Black. (identico pairing)

Rating: VM14 (scusate ma io amo il vintage e questi colori in stile semaforo mi annoiano)

Note: uno schizzo, un abbozzo. Nient’altro. Non sono più fanatica dell’assurdo labor limae e delle estenuanti fatiche che esso comporta. Avevo semplicemente bisogno di scrivere e di sfogarmi, perciò sono qui.

Avvertenze: Attenzione! La mia scrittura rimane indigesta ai più. 
Spero che si noti la differenza tra la prima e la seconda parte... Ho sempre immaginato il cervellino della cara Bellatrix degenerare in maniera sensibile, dunque ritenevo giusto evidenziarlo nella stesura, più che altro con meno punteggiatura e parole meno auliche. (LOL)

Sulle Labbra

Sorridevo allo specchio. Io non sorrido mai.
Solo se sono sola. Non voglio che gli altri mi vedano.
E’ una cosa troppo intima.
E non ne ho mai veramente motivo.
Non c’è niente di peggio del fare le cose alla leggera.
Nessuno può dire di avermi mai visto sorridere. Neanche piangere, se è per questo.
Continuavo ad umettarmi debolmente le ciglia con il mascara, e ad evidenziare le iridi nere.
Non mi piaccio quando sorrido. Sembro quasi serena.
Non lo sono, non voglio, né volevo mentire a me stessa.
Volevo solo lasciarlo diventare un ricordo sbiadito.

(Come quando le fotografie si bagnano, si curvano e sono più fragili del solito, tese alla rottura.)

Il vetro del finestrino è opaco quanto basta. Quanto basta a migliorare la realtà. Preferisco osservare le cose attraverso un filtro, non è detto che migliorino, ma almeno sono preferibili a come sono davvero. Non che ci presti più attenzione del dovuto, forse no, ma l’atteggiamento c’è. Penso che fissare brughiere sterminate e corsi d’acqua immobili debba essere un semplice schermo, un riparo contro l’invadenza altrui. Io preferisco star da sola con me stessa, penso che ci sia una comunicabilità maggiore rispetto a chiunque.
Ora piove.
Le gocce battono, e non sono fastidiose. Tutto lo scompartimento si inumidisce, e io non posso fare nient’altro che stringermi nel maglione. E fissare queste, che sembrano le lacrime di un essere sovraumano.
Purtroppo, e credo di dirlo con ipocrisia, non riesco ad isolarmi da tutto, e vedo riflesso nel vetro un volto dalle sopracciglia arcuate.
Pochi accenni di un’estate sbrigata tra mille faccende, tutto ciò che riesco a cogliere.
Significa che è tutto?
No?
Perché dovrebbe essere diverso?

Nei miei diciassette anni di vita, credo di non aver mai fallito in qualcosa.
Solo perché ho troppa paura per poter intraprendere qualcosa. Automaticamente mi escludo dalla possibilità dello sbaglio.
Insieme alla soddisfazione della vittoria.
Potrei scegliere ma perché?
C’è un’utilità, un fine nascosto che non riesco ad intravedere.
E anche questo è chiarificatore.

Il suo respiro è leggerissimo, innocente. Sfiora appena la mia gola, caldo fiato animale.
Mi sembra di vivere in una bolla di sapone.
In un lampo.
Cingo il suo collo femmineo con le braccia, sollevandomi appena sulle punte prima di accarezzargli la guancia con le labbra. Avevo badato bene a sfiorargli il petto ossuto con il seno.
Ormai chinatosi, e noi completamente avvinghiati, sento la punta bollente della sua lingua carezzarmi il lembo di pelle lasciato scoperto dal bianco della camicia.
Lo lascio fare.
Non lo fermerei mai.

(Volevo tanto che mi baciasse)

Ricadiamo sul divano, con rumore soffocato che mi turba. Non sono abituata ad averlo vicino, mi travolge tutto insieme. Lo osservo mentre da sotto le ciglia mi spia, e non resisto, guardando i suoi capelli vorrei tanto stringerlo a me e rannicchiarmi contro di lui. Ma questa è una lotta.
E io non devo perdere.

(Anima e cuore sono la stessa cosa? Io dico di no.)

Non c’è niente di peggio della paura di venire accettati per noia, senza veder ricambiato quel sentimento enorme dove anneghi cercando di trovare conforto. Odio guardarti.
E non posso fare a meno di piangere tutte le mie lacrime nel sapermi usata in questa maniera insopportabile, non voglio più sentire bugie perché non c’è un senso, ti odio. Veramente ti odio per tutto quello che mi hai fatto e per tutto quello che mi farai e soprattutto per tutto quello che ti lascio farmi. Sono talmente debole di fronte a te da piegare il collo ad un tuo cenno, potresti chiedermi tutto, morire, vivere, scappare, umiliarmi, no, forse non lo farei, ma veramente non capisco dove sto sbagliando e perché alla fine dobbiamo ridurci così.

- Credi nel destino?-
- No, direi di no.-
- Brava, neanche io.-

E con questo cosa vorresti dirmi, che sono illusa o forse sai come stanno le cose? Le cose stanno che non te ne frega niente e non te ne è mai fregato e mai te ne fregherà ed io rimarrò qui ad aspettarti tutta la vita soffrendo.

E se fosse tutto uno scherzo? Me lo sono chiesta molte volte, ma fingo di non pensarci troppo. Non ha senso preoccuparsi di futilità del genere quando si ha tutto quello che si possa avere.
Un nome, una storia, una vita, bellezza, denaro, potere.
Ed è quello che io ho. E che nessuno potrà portarmi mai via.

Almeno così credevo. E me la ridevo. Era divertente comunque.

Ricordo la prima volta in cui ti ho visto, timido parente ribelle che osteggiava un’espressione davvero curiosa sul volto dai nobili tratti.
Coetaneo mai sentito così vivamente, mai prima di quella volta in cui i tuoi occhi ridotti a fessura accompagnarono le mie sopracciglia inarcate per un breve tragitto nel giardino della magione.
Il sole stava morendo lentamente, e forse può apparire il racconto di una folle, questo, e ve lo dico proprio col cuoricino in mano, è esattamente il racconto di una folle e nessuno chieda spiegazioni né io renderò ragione.
Il sole moriva, e all’improvviso i tuoi capelli brillarono più del solito e mi resi conto che dovevi essere bello almeno quanto me e questa cosa mi avvicinò a te fino all’impensabile. I giaggioli del giardino mandavano odori dolciastri e il silenzio era rotto solo dal tuo passo irregolare, schianti e grida non si udivano venire dalla magione, era un’isola, un’isola bellissima.
Io volevo essere capricciosa e piacerti e mi fermai un po’ disordinatamente vicino al vecchio castagno cavo che male si addiceva al giardino curato. L’espressione di sfida che vedevo su di te non poteva che alimentare la mia sete di esperienza e decisi in quel momento che saresti stato l’ultima persona a cui avrei detto addio. Allora non sapevo cosa era questo mostruoso sentimento che nasceva dentro di me e che mi avvolgeva tutta brutalmente, alle cose non si pensa che con ritardo.
Desideravo essere il tuo cane in quel  preciso istante, e non un minuto dopo, volevo semplicemente che tu mi amassi di quell’affetto irrazionale ed effimero che si prova verso gli animali, quell’attaccamento così spontaneo e pulito, desideravo quasi morbosamente leccarti il viso e morderti e sbranarti e ucciderti con le mie manine piccole e bianche
Tutto stava andando un po’ veloce per i miei gusti, cuginetto, e il ricordo di una giornata come quella non poteva alimentare che incubi notturni e sogni ad occhi aperti, te l’avevo detto che era pericoloso ma tu non hai mai voluto ascoltarmi.
Pensavo che fosse pericoloso anche quando ti sei allacciato una scarpa, chinandoti e scoprendo un minuscolo lembo di quel tuo collo signorile che ispirava tanta violenza e allora dissi preoccupata in un soffio
- Ci siamo allontanati.-
Hai riso, sbuffando da sotto i tuoi capelli neri che nessuno mai avrà più la gioia di scostare, perché non sarai mai di nessun’altra, sudicio traditore del tuo sangue, potresti semplicemente morire per la seconda volta, davvero.
E allora sei stato svelto, svelto davvero, come mai sei stato in vita tua, e come non sei stato giusto un attimo prima di schiantarti contro quel velo immondo, e mi hai sfiorato il polso, prendendomi per mano.

Cosa credevi, che quei primi, timidi, fulgidi contatti avessero il minimo potenziale erotico, che potessero farmi sobbalzare?
Beh avevi perfettamente ragione, ogni tuo gesto poteva farmi salire la febbre, e l’ansia mi divorava, e l’idea di essere lontana da te, tu in quella stupida torre e io relegata nei sotterranei non poteva che uccidermi piano. Incrociarti nei corridoi e provare semplice fastidio nel vederti circondato da altri mi portava solo all’esasperazione, che bizzarra coincidenza che a causa tua abbia finito per ripiegarmi in me stessa e odiare tutto il genere umano.
Mezzosangue, Purosangue, poteva essere lo stesso, sei stato tu a firmare la mia adesione alla causa di Voldemort, ricordatelo, cuginetto mio.
Forse che quella sera in corridoio, le cose fossero andate in maniera diversa?
Beh a questo punto, non importa davvero, tanto tu sei morto.

E io sto meglio.

  
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