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Autore: ClaryMorgenstern    20/02/2013    6 recensioni
Clary la ignorò e guardò meglio la statua. Non potè che concordare con Jace su quell'obbrobrio. Le ispirava un disgusto immenso, come d'altronde i demoni che voleva rappresentare. Le unghie sembravano scintillare di sangue fresco, e gli occhi erano vacui, scolpiti senza pupilla e..
Si mossero.
[Crossover The mortal instruments   /   The infernal devices]
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Author's corner:  Ormai dovreste saperlo: Io non sono una persona affidabile. Non lo sono mai stata, nè penso mai lo sarò.
Sono andata a rileggere l'epilogo per pubblicarlo, e mi sono accorta di avere tante altre idee che non potevano rimanere solo nella mia testa a cui di sicuro manca qualche rotella. Comunque sia, è uscito un capitolo in più. Quiiindi, è questo il vero ultimo capitolo. Giuro che il prossimo sarà l'epilogo.
Godetevi il secondo ultimo capitolo(?) !


Consistency is the last refuge of the unimaginative.
O. Wilde

Capitolo XXVI
Last refuge


Una cosa che Clary aveva imparato, stando nel diciannovesimo secolo, era che ogni scusa fosse buona per organizzare una festa.
Quindi, non si sorprese più di tanto quando scoprì che Charlotte voleva organizzarne una per festeggiare il ritorno a casa e le nuove amicizie.
Però, chissà perché, questa era l'unica a cui Clary aveva voglia di partecipare.
Forse perché sapeva che sarebbe stata l'ultima volta che li avrebbe visti, l'ultima volta che avrebbe riso con loro, l'ultima volta che avrebbe sentito Will e Jace bisticciare come solo due Herondale nella stessa stanza possono fare.
Forse solo perché, vivendo per un mese con le stesse persone, condividendone i respiri e il sangue, per le battaglie combattute insieme, ci si sentiva un po' come in famiglia. O forse solo perché erano Shadowhunters, ed era qualcosa ben al di là dello spazio e del tempo a unirli.
Fattostà, però, che se fosse rimasta un solo secondo di più con Isabelle, Jessamine e Charlotte ad organizzare la festa, si sarebbe sparata in fronte. Quindi, con la scusa di andare a chiedere ad Agatha un thè, prese il cappotto di lana e uscì in strada.
Si strinse nel tessuto caldo. Quella notte aveva nevicato di nuovo, e un manto di neve bianca copriva i ciottoli londinesi. Era mattina presto, quindi era per la maggior parte ancora immacolato. Le orme dei suoi stivaletti furono le uniche a rovinarlo.
Aveva sempre desiderato vederla, Londra. Quante volte aveva sognato di dipingere ad Hyde Park, di passeggiare nella Piccadilly Circus? Certo, i suoi sogni includevano anche una visita agli Harry Potter Studios, però avrebbe dovuto accontentarsi.
Non fece in tempo ad arrivare al cancello, che qualcuno l'aveva raggiunta. Un qualcuno dai capelli biondi mossi dal vento, un cappotto lungo di lana nera e una sciarpa altrettanto scura. Camminò senza dire una parola, e sempre silenzioso la superò ed andò ad aprirle il cancello. Clary sorrise appena, senza dire una parola.
Era sempre lì, quando aveva bisogno di lui.
E Clary non dubitò mai che ci sarebbe sempre stato.
«L'ultima volta che sono stato qui è stato con Valentine» stava dicendo Jace, facendo scivolare una mano per stringerle le dita. l'unica fonte di calore di cui aveva bisogno. «Sarà stato..otto anni fa.» aggiunse.
Mentre camminavano, avevano raggiunto Hyde park sotto la neve. «E cosa avete fatto?» chiese lei.
Jace scosse le spalle. «Abbiamo incontrato gente. Tantissima gente. Demoni, shadowhunters, stregoni. E tra questi visitammo la città.» il suo sguardo era lontano. «Anche se l'unica cosa che ricordo era che salimmo sul London eye. Valentine aveva paura dell'altezza, era l'unica cosa al mondo che lo spaventasse.»
Clary rafforzò la stretta alla sua mano. Jace si voltò a guardarla e le accennò un sorriso, cosicché Clary si sentì arrossire.
Per questo sentì con chiarezza le prime stille di fresco che le toccarono le guancie. Alzò gli occhi al cielo. «Jace, sta nevicando.»
Anche il ragazzo alzò lo sguardo. Rise. «Già»
Il cielo nero era cosparso di pallini bianchi che cadevano con dolcezza. Clary li sentiva sul viso, sulla pelle scoperta delle mani e sui capelli che via via si andavano inumidendo.
Jace le prese anche l'altra mano, e con forza le diede una spinta per farla girare sotto la neve. Clary rise talmente tanto forte che non si sentì più il petto.
Nonostante i loro finissimi sensi da Nephilim, ad un certo punto gli vennero le vertigini e caddero entrambi in terra, ridendo come due folli.
Come due bambini, insieme sotto la neve.
Non riusciva a smettere di ridere. Si tirò sui gomiti e si voltò verso Jace. Il ragazzo aveva lo sguardo vivo come una stella cadente. Non le fece dir nulla, ma la attirò a sé e la baciò con dolcezza e ferocia, come se non ci fosse altro al mondo che quello, per loro. Un semplice, piccolo bacio che riuscì ad annientare tutto il gelo della neve.
Quando si staccarono, Clary rise di nuovo. Quella non era una cosa che si faceva tra bambini.
Il che le fece venire in mente un'altra cosa che faceva, quando era più piccola. Si tirò in piedi e, prendendolo per le mani, trascinò Jace con sé.
Ormai la neve cadeva da un po', e un manto candido e spesso si era depositato sul perfetto prato inglese. Quindi prese Jace per entrambe le mani, lo avvicinò a sé, lo guardo negli occhi con dolcezza, gli sorrise, e lo gettò di nuovo all'indietro, con la schiena verso il basso.
Jace alzò un sopracciglio, al che a Clary venne di nuovo da ridere. «Facciamo gli angeli della neve?»
Ora aveva proprio lo sguardo confuso. «Che cosa
Clary smise di ridere. «Non hai mai fatto gli angeli della neve?»
Jace scosse il capo. Clary fu invasa dalla tenerezza. Si mise al suo fianco, abbastanza distante, e si sedette sulla neve. «Fai come me.» Si sdraiò del tutto e aprì le braccia e le gambe. Jace la imitò con un'espressione concentrata sul viso. «Rilassati, soldato Ryan.»  disse. «E' un gioco.»
Allora mosse in alto e in basso le braccia, e a destra e sinistra le gambe, ridendo un sacco. Appena ebbe finito, si rialzò in piedi e aiutò Jace ad alzarsi, ammirando la loro opera.
Due angeli stilizzati spiccavano sulla neve. Erano talmente vicini, sembravano quasi tenersi per mano. Jace la trasse a sé per quella stessa mano, e la baciò.
 
Nella sua testa vagheggiava un'immagine simile a quella che vedeva adesso. Le proprie gambe, penzoloni da un albero non troppo alto sopra un manto di neve appena caduta.
Simon guardava in basso.  Non aveva freddo, e non ricordava di averne mai avuto. Non sapeva che cosa si provasse, ad avere freddo.
Tic tic.
Quello era il suono che aveva imparato ad associare a lei. Lei che non indossava mai nulla che non ticchettasse sul pavimento. Lei, così bella dalla prima volta che aveva posato gli occhi su di lei.
Isabelle Lightwood uscì nell'aria fresca di quella mattina. Indossava un lungo cappotto di lana grigia e, come Simon aveva sentito, degli stivali con tacchi sottili.
Il vento le scuoteva i capelli come delle fronde nere su un oceano color latte. Chissà come, ma Simon sapeva che stava cercando lui.
Perciò sorrise e disse: «Quassù»
La ragazza alzò lo sguardo. Aveva gli occhi neri, molto più scuri di quelli chiari del fratello. Credeva che gli occhi neri di solito fossero associati ad anime altrettanto nere, ma Izzy non era così.
Poteva sembrare un'anima nera, ma in realtà era rossa. Rossa  come il sangue che le era affluito alle guancie, e Simon sapeva che non era per il freddo.
Si aggrappò all'albero, e salì anche lei. Simon si scostò per farle spazio.
Adesso lo sentiva il calore. Solo con lei al fianco. Era come se una fiamma le si fosse appena seduta accanto e, quando gli sorrise, pensò che al mondo le fiamme più grandi fossero niente, in confronto a quell'unico sorriso.
«Dov'è Gabriel?» gli chiese.
Simon scosse le spalle. «Chissà. L'ho seminato a Soho.»
Lei rise. Simon non lo ricordava, ma sapeva che non lo faceva spesso. Venne da ridere anche a lui.
«Io mi ricordavo di te.»  le disse.
Lei smise di ridere, e lo guardò serio. Le donava proprio quel cipiglio concentrato. «Forse mi mancano i dati, ma quando mi hanno portato qui, io sapevo chi eri.»
Anche lei guardò giù, verso quel manto candido di neve appena caduta. Forse vedeva anche lei, come lui, quell'immagine. Simon ricordava quel calore al suo fianco.
«Credo che tu sia l'unica persona ad avermi mai conosciuto, Simon.» Appoggiò la testa sulla sua spalla, infondendole un po' di quel calore.
C'erano volte, in cui una persona sapeva esattamente ciò che doveva fare, quando doveva farlo. Ciò non toglieva che ne era terrorizzato.
Prese coraggio, e si scostò da lei. Quando Isabelle si voltò verso di lui con aria, Simon la baciò con impeto.
E, lo sentiva, era come se lo avesse fatto un milione di volte, e se lo avesse fatto un altro milione ancora non sarebbe bastato.
 
Alec si strinse nel cappotto.
Due minuti. Due minuti e me ne vado.
Perché non riusciva a dirgli di no? Perché ogni volta che lui chiamava, Alec arrivava come un povero disperato?
Perché sono curioso di sapere che vuole, ovvio.
Svoltò l'angolo, davanti a St. Katherine's way. Aveva ricominciato a nevicare, e l'entrata per il Tower Bridge era coperta di neve candida. Gli ricordò l'ultima volta che era stato a Londra, dopo la guerra contro Valentine. Insieme a Magnus. Era Febbraio, e lui stava morendo di freddo, nonostante la runa Thermis. Magnus, invece, era tranquillo con un semplice cappotto. Quando gli aveva chiesto perché non stesse morendo di freddo, l'uomo aveva sorriso e l'aveva attratto a sé, dicendogli che gli bastava guardarlo, per andare in fiamme. Al che anche Alec aveva sentito molto, molto calore.
Al diavolo. È perché lo amo.
E lo avrebbe amato sempre. In ogni secolo, sotto ogni forma, in ogni maledettissimo caso. Lo amava.
Ed era per quello, e solo per quello, che quella mattina si trovava al Tower Bridge. Perché Magnus gli aveva lasciato un biglietto, chiedendogli di vedersi in quella fredda mattina di Gennaio.
Alec arrivò a circa metà del ponte, e si affacciò a guardare giù l'acqua torbida. Era di un grigio intenso, come mercurio liquido. Scorreva con lentezza, come miele da un vaso.
«London Bridge is falling down, my fair lady.» fece una voce cantilenante alle sue spalle.
Alec sorrise. Non ebbe nemmeno il bisogno di voltarsi. «Siamo sul Tower Bridge. E io non sono una fair lady
Magnus scosse le spalle, con un sorriso. «Dettagli, signor Lightwood.»
Il ragazzo si voltò verso Magnus. Indossava un cappotto di lana nera, stranamente semplice, abbottonato fino alla gola. I capelli erano semplicemente tirati all'indietro, e Alec si scoprì curioso di andare a controllare se ci fossero dei glitter lì in mezzo. «Direi che a questo punto puoi anche chiamarmi Alec.»
Magnus sorrise. «Lo so. Ma adoro il modo in cui arrossisci quando ti chiamo così.»
Alec arrossì ancora di più. Si voltò di nuovo verso il Tamigi, che scorreva placido al contrario del sangue nelle vene di Alec, che correva all'impazzata. «Perché volevi vedermi?»
Anche Magnus si appoggiò con i gomiti alla balaustra. Era così vicino che riuscì a sentirne il calore sulla pelle. «Non ho bisogno di un motivo per voler incontrare un bel ragazzo, Alec.»
Le parole uscirono dalla sua bocca prima che Alec riuscisse a fermarle. «Dovresti, invece, vista la tua relazione con Madame Belcourt» sputò, con acidità.
Magnus si girò, un sorriso a scoprire i denti perfettamente bianchi. «Sento della gelosia, o sbaglio?»
Anche Alec si girò. «No. Quella era nella tua voce nel pronunciare il nome di Jessamine.»
«Non vedo perché dovrei essere geloso di una persona che non scuoterà mai niente in te.»
Alec strinse i denti. «Cosa ti fa pensare che sia tu a scuotere qualcosa in me?» Lui non poteva sapere che scuoteva tutto dentro di lui. La sua anima, il suo cuore, la sua carne, le sue ossa. Ogni cosa era mossa da Magnus, dentro di lui. Magnus era in lui, in un modo molto più profondo di quanto si possa mai immaginare.
Si sentì tirare per un braccio, e conosceva troppo bene quella stretta anche solo per voler scostarsi. Magnus lo strinse tra le braccia, e Alec si sentì a casa.
Ma solo quando lo baciò, si sentì in paradiso.
Le sua mani corsero al colletto di Magnus, stringendolo con forza per attrarlo a sé. Le mani dello stregone percorsero tutte le sue braccia per andare a depositarsi sui suoi fianchi. Dio, quanto gli erano mancate quelle mani, e quelle labbra, e tutto in lui. Lo scintillio verde dei suoi occhi mentre di baciavano, la pelle morbida dell'incavo del collo, il petto duro contro il proprio. Non era per niente come baciare una ragazza. Era un milione di volte meglio.
Però, forse, era meglio solo perché stava baciando Magnus. Perché con lui ogni cosa era un milione di volte meglio.
Quando si separarono in un disperato bisogno d'ossigeno, lo stregone sorrise sulle sue labbra. «Mi sembra un'ottima motivazione.»
Rabbia e umiliazione arrossirono le guancie di Alec. Dannazione pensò. l'aveva fregato ancora.
Si scostò con una spinta dallo stregone. Tutto quello che provava -rabbia, frustrazione, amarezza e una gelosia così potente da scuotere l'inferno- alla fine trovò la strada per uscire dalle sue labbra, tutto in un'unica massa informe di veleno corrosivo.
«No, Magnus. Non è gelosia quella che senti. Io sono la gelosia. Mi sta divorando le ossa e mandando la testa al diavolo.» prese grossi respiri. «Noi due stiamo insieme. Nel mio tempo, anzi oserei dire nel nostro tempo, tu mi ami. Mi ami in un modo così intenso che non capirò mai il perché. Diciamoci la verità: Io non sono Camille Belcourt. Non sono bellissimo, non ho valanghe di servitori adoranti né tanto potere da scuotere le società.» Nè sono una donna lo tenne per sé. «Non vedo perché, un giorno, dovresti preferire me a lei. Ma adesso lo so! Tu mi avevi già conosciuto, quando io ho conosciuto te! Ecco perché non mi hai mai mollato, da che ci siamo conosciuti.»
Aveva il fiatone, Alec. Era stanco, mortalmente esausto. Guardava Magnus, che a sua volta lo guardava. Aveva lo sguardo acceso, quasi divertito.
Quando poi gli sorrise, Alec represse la voglia di dargli uno schiaffo in pieno viso. Allora sì che sarebbe sembrato una donnicciola.
Tentò di prendergli la mano, ma Alec si scostò.
Non demorse.
Alec sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Per questo cedette. Come Magnus sapeva che lui avrebbe sempre fatto.
«Ascoltami, Alexander.» disse. Dietro di lui il sole cominciava a sorgere, rischiarando il cielo con l'aurora. «Te lo dico qui, non so che diavolo di giorno sia oggi, e te lo ripeterò per ogni giorno della mia dannata vita: Da quando ti ho visto, non riesco a togliermi dalla testa l'idea dei tuoi occhi azzurri. E non so il perché: Di occhi azzurri ne ho visti a centinaia, nella mia vita. Ma sono i tuoi quelli che mi tengono sveglio la notte a pensare se sono chiusi o aperti. Cosa stanno sognando, Chi guardano?»
Allora chiuse i suoi, e ad Alec quasi mancò il respiro. «Aspetterò, Alexander.» disse, riaprendoli. «Aspetterò anche tutta la vita. Ma non è questo il nostro momento.»
Alec non disse nulla, ma allungò la mano e strinse le dita con le sue.
  
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