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Autore: The queen of darkness    20/02/2013    2 recensioni
Nella perversa mente di un uomo che crede di saper amare, che gusto avrà la sigaretta davanti alla casa che più preferisce al mondo?
Shot dedicata all'autrice Gioia Jeliel, sperando che sia all'altezza :)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La macchina parcheggiò nello stesso identico posto di sempre.
Pazientemente, il guidatore estrasse dal taschino della giacca scamosciata un pacchetto di Malboro intatto, lo aprì lentamente e, presa un’unica sigaretta, lo ripose di nuovo.
Accese godendo di ogni singola azione che stava compiendo, lasciando che l’abitacolo venisse pervaso dal forte odore del tabacco. Prima di aspirare la prima boccata, si prese del tempo.
Lasciò vagare lo sguardo sulle file ordinate degli alberi dalla corteccia bruna, inseguì la corsa a volte sfrenata altre pigra di una busta di plastica sul marciapiede e osservò la forma dei tombini, fin dove gli occhi potevano arrivare.
Non voleva fissare la casa, non ancora; era il dettaglio che scrutava per ultimo, facendo ricostruire ogni singolo infisso dalla propria memoria, per poi confrontarlo con la realtà a caccia di differenze o cambiamenti, per registrarli e immagazzinarli nuovamente.
Ma non cambiava mai nulla. La stessa casa bianca, per certi versi uguale alle altre, con un fazzoletto curato a fare da giardino e qualche fiore colorato alle finestre velate da tendine di pizzo, ma pochi, per non turbare l’osservatore con un’eccessiva allegria.
Nella vita ci vuole la giusta misura di tutte le cose, si disse, e solo in quei momenti riusciva a cogliere l’intensa verità di quelle parole.
Se ci fosse stata qualche rosa in più, l’armonia sarebbe stata compromessa, la macchia di rosso troppo intensa, il manto verde avrebbe perso il proprio senso e le assi della casa si sarebbero sbilanciate, sembrando denti rotti nella bocca marcia di un rissoso alcolizzato.
Così, invece, uno sparuto gruppetto appena, era perfetto. Equilibrato e pulito.
Poggiò prima sul labbro inferiore il cilindro riempito di tabacco, assaggiando la carta tiepida, per poi fermarlo con quello superiore, e reggerlo con l’indice e basta. Aggiunse il pollice per equilibrare la presa, e tirò un’unica boccata nostalgica, lasciando che il fumo lo colmasse, in ogni singolo vuoto.
Ad occhi socchiusi, liberò la scia grigia, che fluì dalle sue narici frementi e si avviluppò contro il profilo del parabrezza, come se ne stesse analizzando ogni minima curva.
L’odore acre lo avvolgeva, lasciando la propria traccia odorosa sul lembo della camicia, che spuntava dal colletto; non fece nulla per coprirla, anzi, lo trattò come effetto voluto. Per tutto il giorno non avrebbe potuto godersi una sigaretta, che almeno qualcosa ne rimanesse sui suoi vestiti, per renderne più sopportabile la mancanza.
Distrattamente, fece cadere le scintille grigie sul sedile lì vicino, dove aveva adibito un posto speciale per il proprio posacenere. Non aveva mai nessun passeggero che potesse disturbarne la routine, mettendo le mani sul cuoio lucido o sconvolgendo l’inclinazione del posto toccando strani tasti o tirando leve a caso.
Eccola: file regolare di legno bianco, le finestre regolari dal vetro privo d’impronte, il tetto spiovente e nero come la notte, il camino che lasciava scappare solo una leggera scia di fumo, come quella che ora stava evadendo dalle sue labbra.
Avrebbe voluto ingabbiare per sempre quella traccia di vita, farla propria, imprigionarla nei polmoni e non lasciarla uscire mai più. Era sicuro che, se fosse fluita nelle sue narici, si sarebbe finalmente sentito libero: libero dalla dipendenza da volgari sigarette, libero dalle strane e assurde regole sociali, libero dagli sguardi delle persone.
Era la gente il suo problema principale, lo era sempre stato. Si avvolgevano nei propri cappotti e osservavano tutto con furtive occhiate da sopra il bavero, facendo saettare i loro occhi porcini in qualsiasi direzione, per non perdersi nessun dettaglio della loro miserevole vita.
Brulicavano come insetti nelle loro esistenze insinificanti e vuote, credendo di possedere sé stessi ma vendendosi continuamente al miglior offerente, lasciandosi marcire nella banalità e nel piattume di una quotidianità che rasentava lo squallore più profondo che si possa mai concepire.
Piccole, arroganti, marcescenti personcine, nemmeno in grado di badare a sé stesse ma che si imponevano continuamente l’uno sull’altro ma, dal momento che non superavano mai la stessa altezza, nessun baluardo riusciva a brillare nel cielo.
Un moto di disgusto gli oppresse le viscere: dovette trovare ristoro nella regolare armonia dell’abitazione, sempre uguale e immutabile, unico punto saldo di un mondo che si stava sgretolando.
Lasciò che la sigaretta scivolasse via dalla sua bocca, sciogliendosi in cenere. Guardò il singolare moto di tutti quei piccoli pezzettini che si stavano spargento sul cruscotto, colorandolo con coriandoli grigi e ancora tiepidi. Era indubbiamente quello il modo migliore per gustare un po’ di sana nicotina.
Indugiò ancora una volta sulla casa, con il cancelletto nero che si stagliava chiaramente davanti a tutta la struttura ordinata.
Quel cancello che non avrebbe mai oltrepassato, era molto speciale per lui; Gonnellina Bianca ne aveva uno simile.
Anche se casa sua era rosa, fin troppo brillante, e dal tetto privo di alcune tegole, manteneva un certo fascino. Una sfrontatezza sbarazzina, giovane e allegra.
Usciva ogni mattina con il proprio zaino in spalla, verde smeraldo e, per quante volte le avessero detto che non si poteva, lei indossava la sua Gonnellina Bianca, con cui sculettava placidamente, come se non ci fosse nulla di più importante al mondo. Ne aveva un paio identiche, mentre una era ricamata; raramente indossava i jeans logori, e gliel’avevi visti solo un paio di volte.
Indubbiamente era una ragazza che aveva il suo fascino, con un profumo inebriante, le treccine bionde che ondeggiavano sulle spale magre. Anche la camminata parlava di una storia vissuta, come la sua casa, colorata, allegra e spensierata.
Un giorno, Gonnellina Bianca si era attardata sul vialetto del suo quartiere deserto, parlando con un uomo che aveva appena finito d fumare una sigaretta con estrema calma, e non era mia più entrata nel cancelletto nero e lucido, l’unica parte stabile di tutta l’abitazione.
L’avevano cercata per mesi, ricordava, prima di ritrovarla.
 
   È stata ritrovata morta Elena Contrini, giovane studentessa scomparsa il 15 marzo scorso da casa sua,     nella prima mattinata. Il corpo, abbandonato in un campo vicino all’abitazione della vittima, è stato ritrovato in avanzato stato di decomposizione e mancante di un indumento.
 
Vittima, Gonnellina Bianca non era mai stata una vittima, neppure se lo avesse voluto. Aveva una pesonalità forte, incisiva, non di certo adatta all’immagine indifesa che le avevano dato.
Con un fazzoletto candido, pulì il volante e tutto lo spazio dove la cenere si era posata, con attenzione,  raggruppando tutto nella ciotola apposita sul sedile affianco.
Nel compiere il movimento, le sue dita inciamparono sull’articolo di giornale, con la foto di Gonnellina Bianca, sorridente, in primo piano, con sotto delle scritte che volevano essere tragiche e compassonevoli. Lei non avrebbe sicuramente apprezzato, no di certo.
Ripose tutto nel casseto infilato davanti al sedile del passeggero, stringendo il cuoio con mani tremanti: Occhi Smeraldini stava uscendo dal cancello, inforcando come al solito la propria bicicletta.
All’improvviso si sentì di nuovo un ragazzino al primo amore, guardando la cascata di ricci biondi che non riuscivano ad essere celati da un cappellino di lana grigia, reso più adorabile dalla presenza di alcuni brillantini.
La sua figura snella stava aggiustando i pedali; gli pareva quasi di sentire i suoi pensieri. “Accidenti, ma perché quest’aggeggio non funziona mai?”.
Certo, perché Occhi Smeraldini non imprecava, nemmeno nelle situazioni più estreme. Le sue sottili labbra rosse non pronunciavano nulla di volgare o sgradevole, anche se talvolta i denti bianchi si aggrappavano alla sua bocca, per tradire un certo nervosismo o la paura di un interrogazione, infondata vista la sua spiccata intelligenza.
Il volto sereno non aveva bisogno di trucchi, essendo grazioso totalmante al naturale, non neccessitando di oscene dosi di cosmetici usati dalle sue compagne, che assomigliavano più che altro a pallidi fantocci.
Le gambe lunghe si stesero, dandole la spinta per partire. La seguì con lo sguardo fino alla fine del viale, poi svoltò e non la vide più. Smise di tremare e di mordersi le labbra, affannosamente.
Improvvisamente l’impronta viscida del tabacco gli sembrò immonda contro la sua trachea, e decise di eliminarla deglutendo con forza; era durato un attimo, ma a lui sembrava una vita intera.
Agguantò la cartella. L’abitacolo si stava facendo soffocante, e lui aveva bisogno di uscire da lì, sbattendo le portiere in un gesto definitivo.
Il gelo lo morse, portandolo alla consapevolezza che non poteva continuare così. Vide uscire sul cortile la madre di Occhi Smeraldini, con un’annaffiatoio per prendersi cura delle rose perfette.
Passandole accanto, si sorrisero cortesemente, come ogni mattina. –Belle rose.
La donna sorrise, assomigliando più che mai alla figlia: -Grazie -. La soddisfazione era evidente; la rosa più bella di tutte, però, era appena partita con la propria bicicletta, per andare a scuola.
Voltandosi e camminando a passo spedito, l’uomo si rese conto che Gonnellina Bianca stava sbiadendo dalla sua memoria: aveva bisogno di un altro ritaglio di giornale.
 
 
-Ma…chi è quello? – chiese la signora Rossi, avvicinandosi con fare pettegolo al cancello della donna, che aveva finito di prendersi cura delle proprie rose.
-Ah, nessuno, nessuno. È il professore di mia figlia, sta andando a lavorare. Gentile, non trova? 
  
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