Questa ff è leggermente insolita, e
diciamo che l’idea mi è venuta abbastanza difficilmente.
Il personaggio potrà sembrare un po’
strano, ma mi ero stufata dei soliti personaggi di cui si parlava nelle ff.
Ed ora… buona lettura…
Cara Pomona,
ti sorprenderai a leggere questa
lettera, soprattutto scritta da uno come me, uno che non si è mai fatto notare
troppo, ma che si è fatto detestare troppo.
Lo so, sono stato sempre un po’ troppo
cattivo con i tuoi adorati ragazzi, ma, come sono certo che avrai capito, il
mio cuore non si è mai dato pace.
Si, lo so, loro non hanno colpa, non
hanno voluto questo destino per me; ma come fare, sapendo che sono inferiore a
tutti quanti.
Secondo i criteri del Ministero, non
faccio parte nemmeno del mondo magico; non sono nulla, semplicemente niente.
Vorrei tanto vedere il tuo sorriso
ancora una volta, vorrei tanto sentire quelle parole di conforto che mi
sussurravi, mentre eri in preda con le tue piante stranissime.
Vorrei ancora averti qui con me, anche
se, in realtà, non ti ho mai avuta.
No, il nostro amore non è mai stato
normale, e non lo poteva essere: tu una professoressa, stimata, sempre gentile
con tutti gli alunni di Hogwarts; io, solamente lo spazzino di quell’enorme
castello, disprezzato e sempre evitato da tutti i ragazzi, a cui la facevo
pagare cara, la loro insolenza.
Insolenza per sottolineare quello che
non sono e che non potrò mai essere; il mio sogno nel cassetto, si è infranto
nel momento in cui sono nato, qualcosa è andato storto.
Ho subito deluso i miei genitori,
tutti quelli che mi stavano intorno.
“Allora, piccolo maghetto! Ha già
fatto le prime piccole magie?” dicevano contenti ai miei genitori.
E loro, da bravi genitori: “Si,
certo…”; loro si vergognavano di me, come ero nato, e di come sarei cresciuto.
Non erano orgogliosi di me, e, quando
un bimbo non ha l’orgoglio dei propri genitori, è un bimbo incompleto, e questo
lo so per esperienza.
L’infanzia che ho vissuto, l’ho
passata tra le derisioni dei miei compagni e di quelli che mi ostinavo a
chiamare amici.
Come ho potuto illudermi di continuare
la mia vita in modo normale, senza soffrire, senza sentirmi debole?
Povero me, quando tutti andavano ad
Hogwarts, e io rimanevo a casa, con i miei genitori, che tentavano in tutti i
modi di nascondermi dagli altri maghi e streghe, di farmi sembrare “normale”,
come dicevano sempre loro.
Mi volevano bene, ma il loro amore per
me era diverso, c’era una pecca in tutto ciò… e quel ciò ero io.
“Mamma, ma perché Teddy Robinson se ne
è andato, e torna a giugno? Non posso andare anch’io nella sua stessa scuola?”
mi ricordo ancora, come se fosse adesso, che le feci questa domanda quando
avevo undici anni, cioè l’età per andare alla scuola di magia e stregoneria.
“Non lo so…”rispondeva sempre lei, con
aria molto vaga.
Ed ora, pensa Pomona, dopo
quarant’anni, mi ritrovo dove avrei sempre voluto essere, qui, al famosissimo
castello.
Ma ormai non fa la differenza, ormai
non posso tornare indietro e potermi migliorare.
Mi ricordo anche che, quando avevo
diciassette anni, il mio migliore amico John mi si avvicinò, tenendo la
bacchetta in mano (non credo di averti mai raccontato questo avvenimento, ma
credo che ora ne abbia proprio bisogno).
“La vedi questa, Gazza? Dimmi, la
vedi?”disse, puntandomi in faccia la sua bacchetta, e schiacciandomela contro
il naso “ecco, questa è la sottile linea di differenza, che ci distingue. Il
mago, dal magonò. Ed io vado fiero di questa bacchetta”.
E detto questo, fece un leggero
movimento, e mi ritrovai sopra l’albero che ci stava facendo ombra.
Rimasi lì per un’intera giornata,
scalpitando e urlando, ma nessuno mi sentiva.
Ma non potevo scendere? Mi chiederesti
tu; no, non potevo, soffrivo terribilmente di vertigini, e non riuscivo nemmeno
a guardare in basso.
Urlavo, urlavo con tutta la mia voce,
con tutta l’anima; mi disperavo, ma continuavo a ripetermi ‘vedrai che in un
modo scendi… forse, prova a fare una magia’, ma mi illudevo solamente.
Così, quando le forze mi
abbandonarono, svenni, e rimasi su quel ramo, braccia a penzoloni.
Non mi ricordo come, ma dopo quella
che mi era sembrata un’eternità, aprì gli occhi, e mi ritrovai nella mia
camera, la camera in cui avevo passato tutte quelle notti chiuso a piangere sul
mio dannato essere.
Rimasi nel letto per una settimana,
nonostante tutte le cure magiche a cui mi avevano sottoposto.
Quando finalmente mi riuscì ad alzare
in piedi, mio padre mi chiese: “Come stai?”, la prima volta che si preoccupava
per me.
‘Sto male, padre, sto molto male.
Saranno anche guarite le ossa, ma il mio cuore è ferito, e continua ancora a
sanguinare con insistenza, e ancora, sempre di più. Ho anche esaurito le
lacrime, e se provassi a piangere, piangerei sangue. Sangue sporco, sangue
impuro, sangue non magico’.
Ma dissi semplicemente, che si, stavo
bene, con tutta la menzogna che avevo in me.
Mi vergogno per aver raccontato una
cosa del genere proprio a te, Pomona, ma il pensiero di tenermelo dentro fino
alla morte, mi sarebbe costato troppo; troppe emozioni ho tenuto dentro, e
adesso è arrivato il momento di liberarmene.
Come mi libererò del mio corpo, quando
avrò finito di intingere la piuma nell’inchiostro.
Senza te, io non vivo, se quella si
poteva chiamare vita: sempre deriso, sempre insultato.
Tutti credevano che io non volessi
bene a questa scuola, e alle persone che essa ospitava.
Ma non è così: infondo, ho sempre
amato Hogwarts, come ho sempre amato te.
Quando, quella notte, ti ho visto
perdere la vita, tra le mani di uno sconosciuto, il mio cuore, ferito e
lanciato dal tempo, si è infranto, in modo irreversibile.
Come saprai, il cuore è indispensabile
per vivere, e senza quello, nemmeno io vivo.
Nemmeno io, l’uomo più senza cuore
di tutta Hogwarts.
È così che ti saluto.
È così che lascio un ricordo su questi
muri.
Sembrerà un po’ infantile, ma dovevo
farlo.
L’ho inciso per te.
Per te.
Per te vivevo.
Per te ora muoio.
Spero che quando la mia anima salirà
in cielo, tu mi verrai incontro, e mi sorriderai, come hai sempre fatto, come
la prima volta che ci siamo visti.
Ed ora mi ritrovo qui, a leggere alla
luce fioca di queste torce, la stessa frase, che si ripete dentro di me come
una preghiera, che non ha mai fine.
Respiro, quello che non potrò più
fare.
Leggo.
Ti amo, Pomona.
Per sempre tuo,
Gazza