JOHN
“Dottor
Watson?”
Alzai immediatamente il capo e guardai l’infermiera
che era entrata nel mio studio.
“C’è la signorina Morstan proprio qui
fuori.”
Feci un mezzo sorriso sorpreso e continuai a
guardare la donna, che attendeva una risposta.
“Ehm, certo,
falla
entrare!” dissi infine “Ovviamente se non ci sono
più pazienti in sala
d’attesa.” aggiunsi. Troppo
tardi però,
perché Mary era già entrata.
“Ciao, tesoro!”
esordì lei, con allegria.
“Ciao!” le risposi subito, notando la busta
che aveva in mano, da cui fuoriusciva un odorino interessante.
“Ti ho portato il pranzo.” continuò,
dandomi
un bacio sulla guancia.
“Mary,
lo sai che per motivi igienici non mi è permesso mangiare
qui.”
Il suo sorriso si spense e la sua espressione
divenne triste, così pensai subito a qualcosa per poter
rimediare.
“Il mio turno è quasi finito però. Se
Susy mi conferma
che non c’è nessuno in sala
d’attesa posso uscire un po’ prima per mangiare
insieme a te. Potremmo andare al parco dietro
l’angolo.”
Mary sorrise di nuovo.
Che cosa mi aveva
colpito di lei la prima
volta che l’avevo vista? Probabilmente i suoi occhi chiari,
che quel giorno
erano in perfetta sintonia con il vestito verde acqua che indossava.
Era una
donna molto solare, di qualche anno più giovane di me. Era
solita vestirsi alla
moda ed amava parlare tanto. Conoscevo una piccola parte della storia
della sua
famiglia, che lei stessa mi aveva raccontato quando ci eravamo
incontrati la
prima volta, a Scotland Yard, alla fine dell’anno appena
passato. Suo padre le aveva
lasciato un’eredità misteriosa, e nessun detective
fino ad allora era riuscito
a capire da dove provenisse.
“Finalmente le temperature stanno aumentando.
L’estate sta arrivando.” Commentò lei,
la testa poggiata sulla mia spalla. Ci
eravamo seduti su una panchina e io stavo ancora terminando il panino
che mi
aveva portato.
“Già.” risposi semplicemente, ingoiando
il
boccone. Parlare del tempo meteorologico non era il mio forte.
“Sai a cosa pensavo?” continuò lei,
noncurante “Che ne dici di venire a cena da me,
stasera?”
Cucinare era decisamente una sua qualità, e
io non avrei potuto chiedere di meglio, soprattutto dopo una giornata
di
intenso lavoro, che avrei terminato alle otto e mezzo.
“E’ un’ottima idea!” risposi
entusiasta.
Lei mi strinse un braccio.
“Arriverò per le nove.”
*
Finalmente il turno
era finito e non vedevo
l’ora di poter tornare a casa per una doccia ed andare poi da
Mary per la cena.
Chiusi l’agenda e la rimisi in borsa. Presi i
vari strumenti usati quel giorno e li riposi nel cassetto della
scrivania. Mi
tolsi il camice e lo andai ad appendere all’interno
dell’armadietto.
Infine, presi giacca e borsa e uscii.
Avevo appena messo piede fuori
dall’ambulatorio quando il mio cellulare squillò.
Prima pensai si trattasse di
Mary, o al massimo di Harry, invece mi sorpresi di leggere sul display
il nome
di Gregory Lestrade.
Mi schiarii la voce.
“Pronto?”
“John, sono Lestrade. Spero di non
disturbarti. Ho assolutamente bisogno del tuo aiuto.”
Inizialmente non seppi cosa rispondere. Non
sentivo il commissario di Scotland Yard da diversi mesi.
“Che cosa succede?”
Dall’altra parte, sentii l’uomo sospirare.
“Ho bisogno che tu visiti un corpo. Oggi due
medici sono in malattia e Anderson è assegnato ad un altro
caso.”
Cominciai a riflettere tra me e me in cerca
di una risposta.
Come poteva Scotland Yard essere a corto di
medici? E perché dopo tanti mesi Lestrade doveva chiamare
proprio me? Tra
l’altro, avevo la cena da Mary e non avrei potuto
assolutamente tardare.
“Un corpo, dove?”
La mia risposta invece fu decisamente diversa
rispetto ai miei ragionamenti.
“Vicino alla Battersea. Puoi venire?”
La mia mente ormai era volata direttamente a
quel cadavere e al mistero che si celava dietro di esso. Era il solo
modo per
scoprire il motivo per cui Lestrade aveva chiamato proprio me. La mia
curiosità
aveva sempre superato di gran lunga ogni pensiero razionale.
Così era stato
anche in quel momento.
“Sono al centro di Londra” risposi
guardandomi intorno in cerca di un taxi. “Dovrei
chiamare…”
“Dimmi esattamente dove sei. Mando qualcuno a
prenderti.”
C’era decisamente qualcosa sotto. Terminai la
chiamata con Greg e mandai un sms a Mary
“Farò
un po’
tardi. Per favore, aspettami.”
*
Come avevo previsto,
l’incontro con Lestrade
fu parecchio strano. Mi accolse con serietà, dandomi
però un’ affettuosa pacca
sulla spalla.
La nostra non poteva definirsi proprio un’amicizia
profonda, neanche dopo quegli anni di indagini seguite insieme, e non
lo era di
certo diventata neanche dopo il tragico evento di tre anni prima. Si
era messo
in contatto con me diverse volte dopo quel giorno, ma pian piano sempre
più di
rado.
Gregory Lestrade aveva passato un periodo
d’inferno nel quale la sua posizione all’interno di
Scotland Yard era stata
messa seriamente a rischio.
Dopotutto, il processo contro Sherlock Holmes
era partito proprio da lì.
Testate giornalistiche, reti televisive e
siti web non avevano parlato d’altro per mesi. Era stato il
motivo per cui
avevo deciso di lasciare Baker Street, troncando per un po’
ogni tipo di
rapporto di amicizia instaurato fino ad allora.
Ma in quel momento fu come se tutto quel
tempo in cui non ci eravamo rivolti la parola non fosse mai passato.
Eravamo
uno di fianco all’altro, separati da uno spazio vuoto che un
tempo era stato occupato
da un amico comune.
Cercai di non farci caso e iniziai a visitare
il corpo che mi aveva indicato.
Notai subito che la vittima indossava vestiti
sporchi e di seconda mano, e lo stesso si poteva dire delle scarpe e
del
cappello. Sembrava un senzatetto a tutti gli effetti.
Dopo un paio di minuti, mi alzai.
“Ehm… sul corpo della vittima sono presenti
evidenti segni dovuti a delle percosse. Dei bruttissimi lividi, uno
sullo
zigomo destro, e altri due al livello del ventre. Poi ci sono tracce di
sangue,
fuoriuscito da naso e bocca. Tuttavia, non credo affatto sia morto a
causa di
queste ferite. Sono superficiali. Penso abbia avuto un infarto,
probabilmente
per la paura, o per il dolore. Ed è morto, su per
giù, non più di tre o quattro
ore fa.” mi inumidii le labbra con la lingua e terminai.
“Ovviamente l’autopsia
saprà darvi delle risposte definitive.”
Guardai Lestrade direttamente negli occhi e notai
che stava sorridendo sommessamente.
“Grazie, John” disse “Sapevo che saresti
stato veloce e affidabile.”
Poi sorrise un po’ di più.
“Ehm, sì, certo. Prego” tossii
leggermente,
cercando di capire il perché della sua allegria.
“Avete scoperto chi era?” ricominciai
riferendomi alla vittima.
Lestrade si fece più serio.
“Non abbiamo trovato documenti. Si tratta di
un clochard.”
Sorrisi tra me e me, felice di averci visto
giusto dal primo momento.
“La nostra speranza è quella di ricavare
qualche altro indizio grazie alle telecamere presenti nella
zona” riprese
Lestrade, di nuovo sorridente, anche se era evidente che cercasse di
nasconderlo.
Mi guardai intorno.
“Non vedo il sergente Donovan” notai.
Greg mi sorrise ancora, si guardò intorno a
sua volta e prendendomi per una spalla mi fece allontanare dai suoi
colleghi.
“E’ stata mandata ad esaminare un altro caso
stasera, insieme ad Anderson” rispose, poi abbassò
la voce “E devo ammettere
che è un vero sollievo per me.”
Mi stupii leggermente di sentire quelle parole,
ma tutto sommato, in cuor mio, ne fui decisamente felice.
Donovan e Anderson. Avevo cercato di
rimuovere quei nomi dalla mia vita. Tutto quello che avevano fatto per
infangare il nome di Sherlock in quegli anni era bastato a farmi
prendere
quella decisione e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
“Beh, dunque questo è il vero motivo per cui
sono qui? Hai approfittato del fatto che loro non ci fossero?”
Lestrade rise silenziosamente.
“Vorrei tanto che fosse così e magari
assumerti a tempio pieno, John, ma non è il vero motivo per
cui ti ho chiamato.
Ci sarebbe ancora una cosa che vorrei tu facessi per
me…”
Dunque i miei sospetti si erano rivelati
fondati. Mi indicò di nuovo il corpo.
“Speravo tu potessi dirmi qualche altra cosa
riguardo l’uomo morto.”
Guardai Greg senza capire.
“Quello che ti ho detto poco fa è tutto
quello che sono riuscito a ricavare, non posso…”
Lui mi interruppe.
“Non intendo da un punto di vista medico”
precisò “Forse lo conosci”
Ci avvicinammo di nuovo al corpo e guardai attentamente
il viso della vittima. Rimasi a fissarlo per molti secondi, poi scossi
la
testa. Non mi diceva assolutamente nulla.
“Mi dispiace, non so chi sia. Perché mai
pensi che dovrei conoscerlo?”
“Beh…” rispose subito lui “Era
uno dei
senzatetto amici di Sherlock.”
Aprii la bocca ma poi la richiusi subito,
senza sapere bene cosa rispondere.
“Speravo potessi dirmi come si chiamava, se
questa è la zona in cui viveva, perché mai
qualcuno avrebbe dovuto aggredirlo
in questo modo…”
Lo interruppi.
“Greg, aspetta un attimo. Ho capito bene? Mi
stai chiedendo se conosco quell’uomo solo perché
era uno dei tanti senzatetto
in contatto con Sherlock?” dissi quel nome senza pensarci,
anche se non lo
pronunciavo da tanto tempo. “Io non sono un detective, anzi,
io non sono lui. Sì, lo
aiutavo, sì, mi
piaceva dovermi mettere alla prova, anche
se inevitabilmente non sarei mai riuscito a raggiungere neanche un
quarto dei
risultati che la sua mente elaborava in un minuto.”
Mi fermai un attimo per riprendere fiato,
guardando Lestrade scuotere la testa. Improvvisamente mi sentii
stranamente
irritato.
“Questo è il tuo lavoro, non il mio. Ed io
non sarò mai come lui. Non potrei mai arrivare a
sostituirlo.” terminai
amaramente.
Avevo cercato di smettere. Avevo cercato disperatamente
di non pensare a quello
che Sherlock avrebbe detto o fatto di fronte ad una qualsiasi
situazione, ma i
suoi commenti sarcastici, sbrigativi e dannatamente
esatti, erano rimasti indelebili nella mia mente.
Il sorriso di Lestrade si spense improvvisamente.
“Ho capito” disse “E hai ragione. Tu non
sei
Sherlock. Ma se mi fido di te è soltanto per merito
suo.”
“Ti ringrazio per la fiducia, ma non credo
che Scotland Yard voglia avere il migliore amico dell’impostore Sherlock Holmes tra i
piedi.”
Greg sorrise di nuovo. Lo stesso sorriso di
quando ero arrivato.
“Le cose cambieranno, John”
Non capii l’allusione e lui se ne accorse
notando la mia espressione confusa.
“Non pensiamoci ora.” disse
sbrigativamente “Grazie
per il tuo
aiuto. Trasferiremo il corpo al Barts. Dovrai firmare alcune carte per
la
visita di stasera. Ti aspetto domani mattina, per le otto e
mezzo.”
Annuii.
“Buona serata.”
Mi congedò con un sorriso. L’ennesimo di
quella serata, di cui proprio non riuscivo a capire il senso. In
realtà, avevo
sperato di incontrare Lestrade per avere delle risposte, per
comprendere il
motivo reale del nostro incontro, ma allontanandomi, l’unica
cosa di cui mi
resi conto fu che invece mi stavo portando dietro più
domande di prima.
Quando il taxista
mise in moto, dopo avergli
dato il mio indirizzo, notai l’ora segnalata dalla
televisione accesa. Erano
quasi le undici.
Imprecai sottovoce.
Mary. La
cena. Ed io ero in ritardo.
Recuperai il cellulare dalla tasca, che scoprii
essere scarico.
Ovviamente
sempre nei momenti meno opportuni.
Chiesi al
taxista di fare una deviazione, ma
quando arrivai sotto casa di Mary nessuna luce era accesa, quindi
probabilmente
era già andata a dormire. Così, proseguii verso
il mio appartamento.
La prima cosa che feci appena entrai, fu mettere
il cellulare sotto carica e quando finalmente lo accesi mi arrivarono
cinque
sms e due chiamate che avevo perso. Tutti da parte di Mary, ovviamente.
“Stai
arrivando? La cena è quasi pronta.”
Era il primo sms, delle 21:07.
“Spero
che non sia successo nulla di grave.
Avrei voluto passare questa sera con te, visto che
è un giorno
importante. Fatti sentire appena puoi.”
Era invece l’ultimo messaggio, delle 22:33.
A quanto pare, non era arrabbiata. Questo mi
fece sentire un po’ più sollevato, ma allo stesso
tempo sentivo comunque di
essermi comportato male. Per di più, di quale giorno
importante stava parlando?
Mi ero per caso dimenticato il suo
compleanno? No, cadeva in Novembre, ne ero quasi sicuro. Cercai di fare
un paio
di calcoli mentali e arrivai alla conclusione che probabilmente in quel
giorno
festeggiavano tre mesi insieme.
Strano. Già così tanti? Più che altro,
non mi
ero reso conto di come il tempo fosse passato così
rapidamente. Dopotutto,
quando ripensavo al mio
trasferimento in quell’appartamento, sembrava sempre che ci
fossi entrato il
giorno prima, o al massimo due.
Nonostante gli anni, non ero mai riuscito a chiamare casa quelle piccole stanze.
Mi feci una doccia veloce, mi preparai un
panino e poi andai a letto.
Avrei trovato il modo di farmi perdonare da
Mary, magari invitandola a cena fuori. Alla fine del mese, quando mi
sarebbe
stata data la paga dall’ambulatorio, avrei potuto anche
permettermi un buon
ristorante. Sì, avrei fatto decisamente così.
Mi addormentai quasi subito, dopotutto, la
serata era stata inaspettatamente faticosa e più lunga del
previsto.
Entrai in un sonno disturbato, e sognai dei
rumori fastidiosi, prima di aprire gli occhi e scoprire che in effetti
il mio
cellulare stava squillando.
Mi ci vollero parecchi secondi per rendermene
conto e risposi con una sorta di grugnito.
Dall’altra parte, si sentì respirare
faticosamente e poi la voce di una donna.
“John?”
Ripresi un po’ di conoscenza, riconoscendo
subito mia sorella.
“Harry? Sei tu? Cosa succede?”
Accesi la lampada del comodino e guardai
l’orologio. Erano l’una e mezza del mattino.
Harry fece una piccola risata.
“John” un’altra risata “Devi
venire qui”
Mi misi a sedere.
“Qui dove? Non sei a casa?”
Dall’altra parte sentii altre voci. Voci
maschili.
Harry rise ancora.
“Qui. Non lo so dove sono.”
Era ubriaca. Ancora una volta.
Sospirai gravemente e le risposi, cercando di
non alterarmi.
“Guardarti intorno e fammi una descrizione
del luogo.”
Iniziai a vestirmi, prendendo le prime cose
trovate sulla poltrona vicino al letto.
“Sei da sola?” chiesi ancora, perché
sentivo
nuovamente, anche se non chiaramente, delle voci.
Harry non rispose e sentii un paio di rumori
strani. Poi un uomo mi parlò.
“Il signor John Watson?”
Deglutii
“Sì, sono io.”
“Sono l’agente King. Harriet Watson è
sua
sorella?”
Mi venne un colpo.
“Sì. E’ mia sorella.”
“E’ in stato di fermo, perché coinvolta
in
una rissa.”
Mi passai una mano sul volto.
Una rissa?
Prima che l’agente potesse continuare,
risposi.
“Vengo a prenderla immediatamente. Dove devo
venire?”
Un tempo l’avevo tenuta per mano, il suo
primo giorno di scuola. Si era stretta a me, impaurita e con gli occhi
lucidi
di chi non voleva lasciare la propria famiglia per andare in un luogo
sconosciuto.
Ora cercavo di sostenerla, con un braccio
stretto attorno ai fianchi e il suo intorno alle mie spalle. Aveva gli occhi
semiaperti e sofferenti, la fronte
madida di sudore.
“Harry! Harry! Cerca di restare in piedi.
Siamo quasi arrivati!”
Le dissi dopo l’ennesimo cedimento delle sue
gambe.
Una volta a casa, la stesi subito sul letto e
andai a recuperare la valigetta con le medicine.
Secondo gli agenti della polizia, Harry aveva
vomitato fin troppo prima del suo arrivo, quindi, l’unica
cosa di cui avrebbe
avuto bisogno in quel momento sarebbe stato soltanto farsi una lunga
dormita.
Quando le arrivai accanto, mi accorsi che
stava piangendo.
“John. Sto male.” Singhiozzò
rumorosamente
“Ho la testa che scoppia… e lo stomaco in
fiamme…”
Le strinsi una spalla.
“Non preoccuparti, Harry. Ci sono io. Rimarrò
qui accanto a te fino a quando non ti sentirai meglio.”
Lei continuò a piangere e a lamentarsi, e nei
due minuti successivi cercai di farle prendere un sonnifero. Almeno
avrebbe
dormito, e non avrebbe pensato al dolore.
Così, dopo circa venti minuti, finalmente
smise di piangere e chiuse gli occhi.
Sospirai e la coprii con le lenzuola.
Quella era un’altra parte della mia vita con
cui era difficile convivere e che mi faceva stare male da morire. Ogni
volta
combattevo contro me stesso, contro la mia stessa rabbia e il desiderio
di
colpire mia sorella e di farle capire con la violenza che stava
mandando
all’aria la sua vita.
Ma puntualmente mi tornava in mente il suo
viso sorridente da bambina. La mia sorellina Harriet.
Mi asciugai le lacrime e mi sedetti sulla
poltrona accanto al letto.
Le presi una mano e la strinsi.
Badare ad Harry, in realtà, mi aveva salvato.
Mi aveva ricordato che avevo ancora delle responsabilità,
che potevo essere
ancora capace di aiutare qualcuno. Che lo scopo della mia vita era
sempre stato
aiutare gli altri.
Ma chi
avrebbe aiutato me?
Pensavo di
aver trovato quella persona e non
ero riuscito a fare niente quando mi era stata portata via. Non avrei
permesso
che anche Harry mi avesse lasciato per sempre.
Le scostai qualche ciocca di cappelli dal
viso e la osservai mentre dormiva, serena.
Le strinsi ancora di più la mano. Nonostante
tutto, nonostante quello che le era successo quella sera, di cui non
conoscevo
ancora le cause, ero felice che fosse lì con me.
Perché non ero solo.
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Spero
che nessuno di voi sia troppo prevenuto/a nei confronti di Mary. Vi
chiedo di non farlo. Grazie a tutti per le letture e per i commenti.