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Autore: CarolPenny    21/02/2013    3 recensioni
[Capitolo 7- Mycroft.]: “Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio. Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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JOHN

“Dottor Watson?”
Alzai immediatamente il capo e guardai l’infermiera che era entrata nel mio studio.
“C’è la signorina Morstan proprio qui fuori.”
Feci un mezzo sorriso sorpreso e continuai a guardare la donna, che attendeva una risposta.
“Ehm, certo, falla entrare!” dissi infine “Ovviamente se non ci sono più pazienti in sala d’attesa.” aggiunsi. Troppo tardi però, perché Mary era già entrata.
“Ciao, tesoro!” esordì lei, con allegria.
“Ciao!” le risposi subito, notando la busta che aveva in mano, da cui fuoriusciva un odorino interessante.
“Ti ho portato il pranzo.” continuò, dandomi un bacio sulla guancia.
 “Mary, lo sai che per motivi igienici non mi è permesso mangiare qui.”
Il suo sorriso si spense e la sua espressione divenne triste, così pensai subito a qualcosa per poter rimediare.
“Il mio turno è quasi finito però. Se Susy  mi conferma che non c’è nessuno in sala d’attesa posso uscire un po’ prima per mangiare insieme a te. Potremmo andare al parco dietro l’angolo.”
Mary sorrise di nuovo.

 

Che cosa mi aveva colpito di lei la prima volta che l’avevo vista? Probabilmente i suoi occhi chiari, che quel giorno erano in perfetta sintonia con il vestito verde acqua che indossava. Era una donna molto solare, di qualche anno più giovane di me. Era solita vestirsi alla moda ed amava parlare tanto. Conoscevo una piccola parte della storia della sua famiglia, che lei stessa mi aveva raccontato quando ci eravamo incontrati la prima volta, a Scotland Yard, alla fine dell’anno appena passato. Suo padre le aveva lasciato un’eredità misteriosa, e nessun detective fino ad allora era riuscito a capire da dove provenisse.
“Finalmente le temperature stanno aumentando. L’estate sta arrivando.” Commentò lei, la testa poggiata sulla mia spalla. Ci eravamo seduti su una panchina e io stavo ancora terminando il panino che mi aveva portato.
“Già.” risposi semplicemente, ingoiando il boccone. Parlare del tempo meteorologico non era il mio forte.
“Sai a cosa pensavo?” continuò lei, noncurante “Che ne dici di venire a cena da me, stasera?”
Cucinare era decisamente una sua qualità, e io non avrei potuto chiedere di meglio, soprattutto dopo una giornata di intenso lavoro, che avrei terminato alle otto e mezzo.
“E’ un’ottima idea!” risposi entusiasta.
Lei mi strinse un braccio.
“Arriverò per le nove.”
 

*

Finalmente il turno era finito e non vedevo l’ora di poter tornare a casa per una doccia ed andare poi da Mary per la cena.
Chiusi l’agenda e la rimisi in borsa. Presi i vari strumenti usati quel giorno e li riposi nel cassetto della scrivania. Mi tolsi il camice e lo andai ad appendere all’interno dell’armadietto.
Infine, presi giacca e borsa e uscii.
Avevo appena messo piede fuori dall’ambulatorio quando il mio cellulare squillò. Prima pensai si trattasse di Mary, o al massimo di Harry, invece mi sorpresi di leggere sul display il nome di Gregory Lestrade.
Mi schiarii la voce.
“Pronto?”
“John, sono Lestrade. Spero di non disturbarti. Ho assolutamente bisogno del tuo aiuto.”
Inizialmente non seppi cosa rispondere. Non sentivo il commissario di Scotland Yard da diversi mesi.
“Che cosa succede?”
Dall’altra parte, sentii l’uomo sospirare.
“Ho bisogno che tu visiti un corpo. Oggi due medici sono in malattia e Anderson è assegnato ad un altro caso.”
Cominciai a riflettere tra me e me in cerca di una risposta.
Come poteva Scotland Yard essere a corto di medici? E perché dopo tanti mesi Lestrade doveva chiamare proprio me? Tra l’altro, avevo la cena da Mary e non avrei potuto assolutamente tardare.
“Un corpo, dove?”
La mia risposta invece fu decisamente diversa rispetto ai miei ragionamenti.
“Vicino alla Battersea. Puoi venire?”
La mia mente ormai era volata direttamente a quel cadavere e al mistero che si celava dietro di esso. Era il solo modo per scoprire il motivo per cui Lestrade aveva chiamato proprio me. La mia curiosità aveva sempre superato di gran lunga ogni pensiero razionale. Così era stato anche in quel momento.
“Sono al centro di Londra” risposi guardandomi intorno in cerca di un taxi. “Dovrei chiamare…”
“Dimmi esattamente dove sei. Mando qualcuno a prenderti.”
C’era decisamente qualcosa sotto. Terminai la chiamata con Greg e mandai un sms a Mary

“Farò un po’ tardi. Per favore, aspettami.”

 

*

Come avevo previsto, l’incontro con Lestrade fu parecchio strano. Mi accolse con serietà, dandomi però un’ affettuosa pacca sulla spalla.
La nostra non poteva definirsi proprio un’amicizia profonda, neanche dopo quegli anni di indagini seguite insieme, e non lo era di certo diventata neanche dopo il tragico evento di tre anni prima. Si era messo in contatto con me diverse volte dopo quel giorno, ma pian piano sempre più di rado.
Gregory Lestrade aveva passato un periodo d’inferno nel quale la sua posizione all’interno di Scotland Yard era stata messa seriamente a rischio.
Dopotutto, il processo contro Sherlock Holmes era partito proprio da lì.
Testate giornalistiche, reti televisive e siti web non avevano parlato d’altro per mesi. Era stato il motivo per cui avevo deciso di lasciare Baker Street, troncando per un po’ ogni tipo di rapporto di amicizia instaurato fino ad allora.
Ma in quel momento fu come se tutto quel tempo in cui non ci eravamo rivolti la parola non fosse mai passato. Eravamo uno di fianco all’altro, separati da uno spazio vuoto che un tempo era stato occupato da un amico comune.
Cercai di non farci caso e iniziai a visitare il corpo che mi aveva indicato.
Notai subito che la vittima indossava vestiti sporchi e di seconda mano, e lo stesso si poteva dire delle scarpe e del cappello. Sembrava un senzatetto a tutti gli effetti.
Dopo un paio di minuti, mi alzai.
“Ehm… sul corpo della vittima sono presenti evidenti segni dovuti a delle percosse. Dei bruttissimi lividi, uno sullo zigomo destro, e altri due al livello del ventre. Poi ci sono tracce di sangue, fuoriuscito da naso e bocca. Tuttavia, non credo affatto sia morto a causa di queste ferite. Sono superficiali. Penso abbia avuto un infarto, probabilmente per la paura, o per il dolore. Ed è morto, su per giù, non più di tre o quattro ore fa.” mi inumidii le labbra con la lingua e terminai. “Ovviamente l’autopsia saprà darvi delle risposte definitive.”
Guardai Lestrade direttamente negli occhi e notai che stava sorridendo sommessamente.
“Grazie, John” disse “Sapevo che saresti stato veloce e affidabile.”
Poi sorrise un po’ di più.
“Ehm, sì, certo. Prego” tossii leggermente, cercando di capire il perché della sua allegria.
“Avete scoperto chi era?” ricominciai riferendomi alla vittima.
Lestrade si fece più serio.
“Non abbiamo trovato documenti. Si tratta di un clochard.”
Sorrisi tra me e me, felice di averci visto giusto dal primo momento.
“La nostra speranza è quella di ricavare qualche altro indizio grazie alle telecamere presenti nella zona” riprese Lestrade, di nuovo sorridente, anche se era evidente che cercasse di nasconderlo.
Mi guardai intorno.
“Non vedo il sergente Donovan” notai.
Greg mi sorrise ancora, si guardò intorno a sua volta e prendendomi per una spalla mi fece allontanare dai suoi colleghi.
“E’ stata mandata ad esaminare un altro caso stasera, insieme ad Anderson” rispose, poi abbassò la voce “E devo ammettere che è un vero sollievo per me.”
Mi stupii leggermente di sentire quelle parole, ma tutto sommato, in cuor mio, ne fui decisamente felice.
Donovan e Anderson. Avevo cercato di rimuovere quei nomi dalla mia vita. Tutto quello che avevano fatto per infangare il nome di Sherlock in quegli anni era bastato a farmi prendere quella decisione e niente mi avrebbe fatto cambiare idea.
“Beh, dunque questo è il vero motivo per cui sono qui? Hai approfittato del fatto che loro non ci fossero?”
Lestrade rise silenziosamente.
“Vorrei tanto che fosse così e magari assumerti a tempio pieno, John, ma non è il vero motivo per cui ti ho chiamato. Ci sarebbe ancora una cosa che vorrei tu facessi per me…”
Dunque i miei sospetti si erano rivelati fondati. Mi indicò di nuovo il corpo.
“Speravo tu potessi dirmi qualche altra cosa riguardo l’uomo morto.”
Guardai Greg senza capire.
“Quello che ti ho detto poco fa è tutto quello che sono riuscito a ricavare, non posso…”
Lui mi interruppe.
“Non intendo da un punto di vista medico” precisò “Forse lo conosci”
Ci avvicinammo di nuovo al corpo e guardai attentamente il viso della vittima. Rimasi a fissarlo per molti secondi, poi scossi la testa. Non mi diceva assolutamente nulla.
“Mi dispiace, non so chi sia. Perché mai pensi che dovrei conoscerlo?”
“Beh…” rispose subito lui “Era uno dei senzatetto amici di Sherlock.”
Aprii la bocca ma poi la richiusi subito, senza sapere bene cosa rispondere.
“Speravo potessi dirmi come si chiamava, se questa è la zona in cui viveva, perché mai qualcuno avrebbe dovuto aggredirlo in questo modo…”
Lo interruppi.
“Greg, aspetta un attimo. Ho capito bene? Mi stai chiedendo se conosco quell’uomo solo perché era uno dei tanti senzatetto in contatto con Sherlock?” dissi quel nome senza pensarci, anche se non lo pronunciavo da tanto tempo. “Io non sono un detective, anzi, io non sono lui. Sì, lo aiutavo, sì,  mi piaceva dovermi mettere alla prova, anche se inevitabilmente non sarei mai riuscito a raggiungere neanche un quarto dei risultati che la sua mente elaborava in un minuto.”
Mi fermai un attimo per riprendere fiato, guardando Lestrade scuotere la testa. Improvvisamente mi sentii stranamente irritato.
“Questo è il tuo lavoro, non il mio. Ed io non sarò mai come lui. Non potrei mai arrivare a sostituirlo.” terminai amaramente.
Avevo cercato di smettere. Avevo cercato disperatamente di non pensare a quello che Sherlock avrebbe detto o fatto di fronte ad una qualsiasi situazione, ma i suoi commenti sarcastici, sbrigativi e dannatamente esatti, erano rimasti indelebili nella mia mente.
Il sorriso di Lestrade si spense improvvisamente.
“Ho capito” disse “E hai ragione. Tu non sei Sherlock. Ma se mi fido di te è soltanto per merito suo.”
“Ti ringrazio per la fiducia, ma non credo che Scotland Yard voglia avere il migliore amico dell’impostore Sherlock Holmes tra i piedi.”
Greg sorrise di nuovo. Lo stesso sorriso di quando ero arrivato.
“Le cose cambieranno, John”
Non capii l’allusione e lui se ne accorse notando la mia espressione confusa.
“Non pensiamoci ora.” disse sbrigativamente  “Grazie per il tuo aiuto. Trasferiremo il corpo al Barts. Dovrai firmare alcune carte per la visita di stasera. Ti aspetto domani mattina, per le otto e mezzo.”
Annuii.
“Buona serata.”
Mi congedò con un sorriso. L’ennesimo di quella serata, di cui proprio non riuscivo a capire il senso. In realtà, avevo sperato di incontrare Lestrade per avere delle risposte, per comprendere il motivo reale del nostro incontro, ma allontanandomi, l’unica cosa di cui mi resi conto fu che invece mi stavo portando dietro più domande di prima.

 

Quando il taxista mise in moto, dopo avergli dato il mio indirizzo, notai l’ora segnalata dalla televisione accesa. Erano quasi le undici.
Imprecai sottovoce.

Mary. La cena. Ed io ero in ritardo.
Recuperai il cellulare dalla tasca, che scoprii essere scarico.

Ovviamente sempre nei momenti meno opportuni.
Chiesi al taxista di fare una deviazione, ma quando arrivai sotto casa di Mary nessuna luce era accesa, quindi probabilmente era già andata a dormire. Così, proseguii verso il mio appartamento.
La prima cosa che feci appena entrai, fu mettere il cellulare sotto carica e quando finalmente lo accesi mi arrivarono cinque sms e due chiamate che avevo perso. Tutti da parte di Mary, ovviamente.
Stai arrivando? La cena è quasi pronta.”
Era il primo sms, delle 21:07.
Spero che non sia successo nulla di grave.  Avrei voluto passare questa sera con te, visto che è un giorno importante. Fatti sentire appena puoi.”
Era invece l’ultimo messaggio, delle 22:33.
A quanto pare, non era arrabbiata. Questo mi fece sentire un po’ più sollevato, ma allo stesso tempo sentivo comunque di essermi comportato male. Per di più, di quale giorno importante stava parlando?
Mi ero per caso dimenticato il suo compleanno? No, cadeva in Novembre, ne ero quasi sicuro. Cercai di fare un paio di calcoli mentali e arrivai alla conclusione che probabilmente in quel giorno festeggiavano tre mesi insieme.
Strano. Già così tanti? Più che altro, non mi ero reso conto di come il tempo fosse passato così rapidamente.  Dopotutto, quando ripensavo al mio trasferimento in quell’appartamento, sembrava sempre che ci fossi entrato il giorno prima, o al massimo due.  Nonostante gli anni, non ero mai riuscito a chiamare casa quelle piccole stanze.
Mi feci una doccia veloce, mi preparai un panino e poi andai a letto.
Avrei trovato il modo di farmi perdonare da Mary, magari invitandola a cena fuori. Alla fine del mese, quando mi sarebbe stata data la paga dall’ambulatorio, avrei potuto anche permettermi un buon ristorante. Sì, avrei fatto decisamente così.
Mi addormentai quasi subito, dopotutto, la serata era stata inaspettatamente faticosa e più lunga del previsto.
Entrai in un sonno disturbato, e sognai dei rumori fastidiosi, prima di aprire gli occhi e scoprire che in effetti il mio cellulare stava squillando.
Mi ci vollero parecchi secondi per rendermene conto e risposi con una sorta di grugnito.
Dall’altra parte, si sentì respirare faticosamente e poi la voce di una donna.
“John?”
Ripresi un po’ di conoscenza, riconoscendo subito mia sorella.
“Harry? Sei tu? Cosa succede?”
Accesi la lampada del comodino e guardai l’orologio. Erano l’una e mezza del mattino.
Harry fece una piccola risata.
“John” un’altra risata “Devi venire qui”
Mi misi a sedere.
“Qui dove? Non sei a casa?”
Dall’altra parte sentii altre voci. Voci maschili.
Harry rise ancora.
“Qui. Non lo so dove sono.”
Era ubriaca. Ancora una volta.
Sospirai gravemente e le risposi, cercando di non alterarmi.
“Guardarti intorno e fammi una descrizione del luogo.”
Iniziai a vestirmi, prendendo le prime cose trovate sulla poltrona vicino al letto.
“Sei da sola?” chiesi ancora, perché sentivo nuovamente, anche se non chiaramente, delle voci.
Harry non rispose e sentii un paio di rumori strani. Poi un uomo mi parlò.
“Il signor John Watson?”
Deglutii
“Sì, sono io.”
“Sono l’agente King. Harriet Watson è sua sorella?”
Mi venne un colpo.
“Sì. E’ mia sorella.”
“E’ in stato di fermo, perché coinvolta in una rissa.”
Mi passai una mano sul volto.

Una rissa?
Prima che l’agente potesse continuare, risposi.
“Vengo a prenderla immediatamente. Dove devo venire?”
 

 
Un tempo l’avevo tenuta per mano, il suo primo giorno di scuola. Si era stretta a me, impaurita e con gli occhi lucidi di chi non voleva lasciare la propria famiglia per andare in un luogo sconosciuto.
Ora cercavo di sostenerla, con un braccio stretto attorno ai fianchi e il suo intorno alle mie spalle. Aveva gli occhi semiaperti e sofferenti, la fronte madida di sudore.
“Harry! Harry! Cerca di restare in piedi. Siamo quasi arrivati!”
Le dissi dopo l’ennesimo cedimento delle sue gambe.
Una volta a casa, la stesi subito sul letto e andai a recuperare la valigetta con le medicine.
Secondo gli agenti della polizia, Harry aveva vomitato fin troppo prima del suo arrivo, quindi, l’unica cosa di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento sarebbe stato soltanto farsi una lunga dormita.
Quando le arrivai accanto, mi accorsi che stava piangendo.
“John. Sto male.” Singhiozzò rumorosamente “Ho la testa che scoppia… e lo stomaco in fiamme…”
Le strinsi una spalla.
“Non preoccuparti, Harry. Ci sono io. Rimarrò qui accanto a te fino a quando non ti sentirai meglio.”
Lei continuò a piangere e a lamentarsi, e nei due minuti successivi cercai di farle prendere un sonnifero. Almeno avrebbe dormito, e non avrebbe pensato al dolore.
Così, dopo circa venti minuti, finalmente smise di piangere e chiuse gli occhi.
Sospirai e la coprii con le lenzuola.
Quella era un’altra parte della mia vita con cui era difficile convivere e che mi faceva stare male da morire. Ogni volta combattevo contro me stesso, contro la mia stessa rabbia e il desiderio di colpire mia sorella e di farle capire con la violenza che stava mandando all’aria la sua vita.
Ma puntualmente mi tornava in mente il suo viso sorridente da bambina. La mia sorellina Harriet.
Mi asciugai le lacrime e mi sedetti sulla poltrona accanto al letto.
Le presi una mano e la strinsi.
Badare ad Harry, in realtà, mi aveva salvato. Mi aveva ricordato che avevo ancora delle responsabilità, che potevo essere ancora capace di aiutare qualcuno. Che lo scopo della mia vita era sempre stato aiutare gli altri.

Ma chi avrebbe aiutato me?
Pensavo di aver trovato quella persona e non ero riuscito a fare niente quando mi era stata portata via. Non avrei permesso che anche Harry mi avesse lasciato per sempre.
Le scostai qualche ciocca di cappelli dal viso e la osservai mentre dormiva, serena.
Le strinsi ancora di più la mano. Nonostante tutto, nonostante quello che le era successo quella sera, di cui non conoscevo ancora le cause, ero felice che fosse lì con me.
Perché non ero solo.

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Spero che nessuno di voi sia troppo prevenuto/a nei confronti di Mary. Vi chiedo di non farlo. Grazie a tutti per le letture e per i commenti.

   
 
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