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Autore: CarolPenny    12/02/2013    3 recensioni
[Capitolo 7- Mycroft.]: “Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio. Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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INTRODUZIONE E PRECISAZIONI.
- Fan fiction POST-REICHENBACH
- Capitoli scritti in prima persona, ognuno dal punto di vista di un personaggio diverso (ad alcuni ho dedicato più capitoli di altri).
- Un doveroso ringraziamento a Charme e al tempo che dedica sempre alle mie fan fiction.
Buona lettura.

 

 

 Passeggiare era diventato il mio hobby preferito. Preferibilmente di giorno, preferibilmente con il sole.  E quando pioveva, non c’era affatto da disperarsi. Una bella tazza di the era sempre un’ottima soluzione. Vivevo in un nuovo appartamento, decisamente più piccolo di quello di Baker Street, ma abbastanza ampio, e il salotto aveva anche il camino. Ero riuscito ad avere un prezzo speciale, grazie all’aiuto della signora Hudson (santa donna!), conoscente del proprietario e mi ero subito trasferito senza pensarci due volte. L’anziana amica aveva compreso fin dal primo momento il perché. Durante i primi mesi eravamo riusciti a parlarne con tranquillità, ma più il tempo passava, più paradossalmente non c’era più nulla da dire. In realtà, più il tempo passava, più sembrava assurdo pensare all’accaduto.
Nella mia mente era diventata una visione surreale e neanche le visite periodiche al cimitero erano riuscite a farmi cambiare idea.
“Buon pomeriggio, dottor Watson!” mi salutò qualcuno dall’altro lato della strada.
“Salve, signora Pool!” risposi subito, riconoscendo la donna.
Era stata una mia paziente diverse settimane prima.
Alla fine, dopo sei mesi o poco più di semi precarietà ero riuscito ad ottenere il posto fisso in un ambulatorio. Inizialmente, si trattava ancora del ‘ambulatorio di Sarah’ (che nella mia disperazione aveva deciso di darmi una seconda possibilità – ovviamente solo da un punto di vista professionale), ma dopo circa un anno di attività, si era sposata ed era andata a vivere a Liverpool. Così il nuovo proprietario era diventato la sua più stretta collaboratrice ed io a mia volta ero stato nominato vice.
Un salto di qualità non indifferente.
Ma se la mia vita lavorativa stava ormai andando a gonfie vele, non si poteva dire lo stesso del resto.
Nei primi mesi dopo l’accaduto avevo ripreso la mia terapia in modo più frequente, ma dopo quasi un anno avevo deciso di prendermi una pausa anche da quello, perché le sedute erano diventate noiose, asfissianti ed ero praticamente diventato apatico e poco collaborativo. Avevo completamente abbandonato il mio blog, nonostante capitasse, ogni tanto, di visitarlo e mi accorgevo che molte persone continuavano a seguirlo, per via di commenti  di supporto o simili ai miei vecchi articoli.

“Perché sono tutti così interessati alla mia vita?” mi ritrovavo a pensare il più delle volte, con molto fastidio. Dopo un po’, anche quelli però cessarono.
In ogni caso, era stato proprio il lavoro a salvarmi. Erano gli unici momenti in cui riuscivo ad esprimermi al meglio, ed ero soddisfatto di ciò che facevo. Proprio all’ambulatorio avevo conosciuto un paio di persone con cui ero uscito, ma nessuna di queste relazioni era durata a lungo. Non più di qualche settimana ciascuna. Ero proprio svuotato, e non riuscivo a comprendere il perché. Al momento però, stavo uscendo con una nuova ragazza, e le cose sembravano andare decisamente meglio. La storia stava durando da quasi tre mesi e lei sembrava essere molto comprensiva con me, lasciando che io avessi i miei spazi.
Ed era durante quelle ore che mi dedicavo a lunghe passeggiate per il centro di Londra. Il più delle volte mi ritrovavo ad osservare le persone e cercavo di capire di cosa stessero parlando, o cosa facessero nella vita, o magari quanti anni avessero. Mi rimproveravo il più delle volte. Questo era quello che faceva sempre lui.
Ma non me ne accorgevo. Era diventata un’abitudine inconscia.
Improvvisamente la mia attenzione si rivolse verso la donna che avevo davanti, a cui si era rotta una busta della spesa, da cui erano cadute diverse arance e delle mele.
“Accidenti!” esclamò lei, con tono lamentoso.
Mi mossi velocemente per aiutarla.
“Aspetti, le do una mano.” dissi subito.
Lei sbuffò, ma poi mi ringraziò, raccogliendo nel frattempo tre arance e cercando di inserirle nella busta che aveva nell’altra mano.
“Si figuri. Questi nuovi materiali sono economici ma il più delle volte non molto … ” mi fermai improvvisamente guardando più attentamente il volto della donna e lei fece lo stesso con me.
Ci fu un attimo di silenzio.
“John?”
“Clara?!” esclamai incredulo.
“Oh,  mio dio, da quanto tempo!”
Mi diede un leggero abbraccio, ma il gesto fece nuovamente cadere le arance a terra.
“Povera me! Sono una pasticciona!” disse facendo una piccola risata.
Io ero ancora senza parole.
Clara, la ex moglie di Harry. Erano anni che non la vedevo.
L’aiutai a mettere le ultime cose all’interno dell’altra busta,  ormai traboccante.
“Meno male che abito proprio qui.” continuò a dire, indicando due porte più in là di dove ci trovavamo.
“Già, meno male.” mi ritrovai a rispondere.
Ci muovemmo verso la sua abitazione.
“Sembri dimagrito. Non sei mica tornato in servizio?” mi chiese, prendendo dalla borsa una chiave e aprendo la porta.
“Oh no, assolutamente no. Ma sto svolgendo comunque un lavoro.”
Lei sorrise ed entrò, posando le buste a terra: le arance caddero di nuovo.
“Prego, entra pure, John. Preparo del the, così parliamo un po’.  Mi fa piacere vederti, dopotutto.”
Sì, nonostante ciò che era successo con mia sorella, anche io ero contento di vederla.  Clara mi era sempre stata simpatica.
“Va bene. Accetto volentieri il the.”
Clara sorrise e mi fece spazio.
Mi guardai un po’ intorno e notai subito l’ampiezza dell’appartamento. Entrammo in cucina, dove lei appoggiò le buste della spesa sul lavandino e mise subito dell’acqua a riscaldare.
“Siediti” fece verso di me e mi accomodai sulla prima sedia che trovai.
“Hai una bella casa.” le dissi in modo spontaneo.
“Grazie” rispose lei con un mezzo sorriso. “Dopo la separazione,  vivere nella casa che avevamo preso insieme non è stato più così entusiasmante e stimolante, così sono venuta qui…”
Ok, pessima domanda. Avevo iniziato nel modo sbagliato, probabilmente.
Lei però non parve essere imbarazzata e continuò la conversazione.
“Allora” si sedette di fronte a me “Dove stai lavorando?”
Le raccontai dell’ambulatorio e lei mi disse che stava ancora lavorando nella stessa azienda di design dove era stata assunta nel periodo in cui si era sposata con Harry.
“Seguivo il tuo blog” disse poi, prendendo due tazze e servendo il the. “Ma non ci scrivi da un pezzo.”
Inizialmente rimasi sorpreso, poi ci pensai meglio. Chi è che non seguiva il mio blog?
“Beh, sai… in realtà era solo un mezzo alternativo per proseguire la terapia di recupero a cui ero sottoposto. Sono due anni che ho rinunciato.”
Abbassò lo sguardo. “Mi dispiace, forse non avrei dovuto chiedertelo. Dopo tutto quel periodo di sciacallaggio e speculazione fatti sul tuo amico Sherlock Holmes…”

Mio dio… da quanto tempo non sentivo pronunciare il suo nome da qualcuno?
“Se ti può consolare, non ci ho mai creduto.” Clara ricominciò a parlare guardandomi con più decisione.
“Una mia collega vi contattò tempo fa. Mi disse che il signor Holmes era bravissimo.”

Eccezionale. Unico.
“Gli bastò solo un pomeriggio per capire chi avesse fatto sparire quella somma di denaro.”
Terminai il mio the e la osservai mentre sparecchiava e metteva la spesa in frigorifero.
Non era cambiata affatto dall’ultima volta che l’avevo vista, anni prima. I capelli color caramello (come amava definirli mia sorella) che le arrivavano giusto sopra le spalle, gli occhi nocciola, il corpo esile, le labbra sottili arricciate spesso in un sorriso leggero.
“Come sta Harry?”
Mi ero aspettato quella domanda e notai che il tono della conversazione era diventato più grave.
“Sta meglio.” risposi semplicemente e sperai scioccamente che le bastasse.
“Alla fine ha accettato di andare in cura?”
“Ci ha provato e sta meglio” ripetei di nuovo.
Finalmente sorrise, ma questo mi fece star male.
Le stavo mentendo spudoratamente, senza che se ne accorgesse, solo perché non volevo che sapesse che mia sorella non aveva mai smesso di bere, aggravando sempre di più il suo stato di salute. Un giorno, forse, avrebbe dovuto ringraziare il cielo per averle dato un fratello medico.

 

“Ma certo! Harry e Clara. Lo avevo rimosso.” mi aveva detto Sherlock il giorno seguente la nostra avventura con il taxista e la signora in rosa.
Rimosso?

“Harry Watson, l’assistente del professor De Angelis, docente di Diritto ed Economia (sicuramente molto più competente nella prima disciplina). E’ all’università  che probabilmente si sono conosciute lei e Clara. La proposta di matrimonio che tua sorella le ha fatto non è stata di certo durante un momento intimo. C’erano almeno duemiladuecento persone intorno a loro.”
Ero rimasto a fissarlo per diversi secondi.
Ok, la proposta di matrimonio è stato un evento pubblico. Quel giorno a Trafalgar Square si stavano radunando per un Gay Pride e la notizia finì su alcuni giornali, ma… l’assistente del professor De Angelis, e l’incontro con Clara?”
Lui mi aveva rivolto quello sguardo pieno di superiorità che era solito mostrare e mi aveva risposto con determinazione.
Conoscere tutti gli ambienti universitari di Londra ha i suoi vantaggi. L’incontro con Clara è stata una deduzione casuale.”

“Dovresti giocare alla lotteria le tue deduzioni casuali” gli avevo risposto, facendolo sorridere.
“E comunque” aveva poi proseguito “Clara avrebbe dovuto pensarci un po’ meglio prima di accettare una proposta così impegnativa. Ci sono sondaggi che indicano , anche se in piccole percentuali, che l’alcolismo può essere un vizio maturato prima dell’eventuale drammatico episodio che è solitamente causa di azioni autocommiserative… e credo che sia proprio il caso di Harry.”
Aveva girato lo schermo del suo computer verso di me, mostrandomi la foto famosa in cui Harry, inginocchiata, aveva chiesto a Clara di sposarla e mi aveva indicando prima l’anello che le stava porgendo e poi la bottiglia di birra stretta nell’altra mano.

Quell’amaro ricordo si interruppe nel momento in cui Clara accese il lampadario, visto che ormai si stava facendo buio. Capii che era arrivata l’ora di togliere il disturbo.
Mi alzai.
“Grazie per il the, Clara. E grazie per la conversazione.”
“Grazie per le arance.” rispose lei riferendosi al piccolo incidente di prima. “Spero di rivederti. Sei sempre stato gentile con me, John.”
Mi accompagnò alla porta.
La salutai alzando la mano e poi raggiunsi il marciapiede.
La serata era limpida e fresca, tipico del mese di Maggio, e prima di incamminarmi presi un bel respiro.
Visto che ormai si era fatto buio, ed ero a piedi, decisi di abbreviare il percorso fino al mio appartamento tagliando per un’altra strada. Mi resi conto troppo tardi che, seppur più breve, quel tragitto alternativo mi avrebbe portato anche a Baker Street.
Fermarmi davanti al 221b non era stata la mia iniziale intenzione. Ma mi ero sempre lasciato guidare dai miei passi ed ora ero lì.
Alzai lo sguardo verso il primo piano. Era tutto buio, era tutto immobile.  Se solo avessi avuto un’immaginazione più sviluppata, probabilmente avrei visto quelle tende spostarsi, o qualche ombra muoversi proprio lì dietro, ma non c’era più nessuno, ormai.
Era una casa vuota.

   
 
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