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Autore: Unicorno Peloso    21/02/2013    13 recensioni
Storia interattiva scritta a quattro mani da gattapelosa Niallsunicorn.
Essendo stata rimossa dall'amministrazione la prima stesura, abbiamo dovuto ri-pubblicare la storia.
Passate pure a leggere i nuovi capitoli dei quarantottesimi hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a favore del vostro tributo preferito!
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Pronti a morire.


Noah non avrebbe dimenticato tanto facilmente il suo primo colpo di cannone. Sapere che qualcuno era morto per mano sua. Sapere che poteva davvero arrivare a tanto, sapere di essere veramente in grado di uccidere.
Noah non avrebbe mai dimenticato il suo primo colpo di cannone, e neppure Shaileen, che ne aveva già viste tante che la metà era troppa.
Cassya. La sua amica Cassya, la ragazza cui aveva giurato solidarietà eterna prima dell’inizio dei giochi, morta alla Cornucopia il primo giorno. E ora Sara, a cui doveva la vita, che l’aveva salvata da Cassian, con cui si era confidata, la sua amica Sara. Morta nel colpo di un cannone, sepolta dall’acqua degli strateghi e orribilmente sbranata da uno squalo ibrido.
Non si era neppure soffermata ad osservare il volto del suo assassino. Non aveva la minima idea di chi avesse ordito un simile piano: se solo avesse conosciuto il colpevole, per la prima volta dall’inizio dei giochi, avrebbe desiderato averlo sottomano per poter uccidere.
E si spaventò davvero per la mostruosità di questo pensiero, suo padre aveva sempre cercato di insegnarle che mai, per nessuna ragione al mondo, bisognava voler ammazzare qualcuno. Era sempre stata una sua convinzione: entrare nell’Arena e combattere fino alla morte, senza cedere mai, e senza mai privare l’avversario della propria vita.
In quel momento, ancora bagnata per l’ondata d’acqua che la travolse, rinunciò a tutti i buoni propositi e pregò per la morte dell’assassino della sua migliore amica.
Poi pianse. Pianse per lo schifo. Pianse per Sara. Pianse davvero tanto.
Si lasciò scivolare sugli ultimi gradini della scala, lontana dal cadavere mutilato di Sara. Appoggiò la testa contro la parete, le mani sugli occhi, e gridò: gridò quanto schifo faceva Capitol City, quanto quei giochi inumani fossero da barbari, quanto meritassero la morte tutti coloro che permettevano un tale scempio. Probabilmente gli Strateghi non permisero mai che quelle parole venissero mandate in onda, ma tutti, da casa, non poterono che pensare le stesse identiche cose.
Lasciare che una ragazza venisse tranquillamente mutilata da uno squalo è bestiale. E bestiale è soprattutto chi ne gode.

D’altra parte, se tutti da casa piangevano quel colpo di cannone, lo stesso non si poteva dire per i concorrenti ancora in gara. Un colpo di cannone equivaleva a un passo in più verso la propria famiglia.
Tra tutti, però, Elaine non aveva proprio voglia di festeggiare. Era rimasta così provata dal festino da desiderare solo che i giochi finissero presto. Si era trovata un angolino sicuro nel secondo livello, tra le rovine di un alimentare, per lasciarsi scivolare a terra, contro le pareti spoglie.
La ferita procuratele da Miranda non faceva neanche più male. Forse la rassegnazione aveva banalmente offuscato il dolore.
La cosa davvero assurda era che Elaine non stava lì a pensare a Yvonne o a Jude, della cui morte si sentiva responsabile. E nemmeno ad Alwyn o alla sua furia omicida.
Elaine pensava al corpo trafitto di Bryan.
Erano stati compagni di distretto, un tempo, e per quanto non avessero mai avuto modo di interagire molto, quel periodo tra il campo d’addestramento e il viaggio in treno aveva dato loro una certa speranza d’amicizia. E invece Bryan aveva deciso di rifiutare il suo invito all’alleanza per unirsi a Carol. E ora era morto.
Per colpa di Carol lui era morto.
Non riusciva a incolpare nessuno per la caduta di Yvonne o Jude, se non se stessa, ma per Bryan sì. Esisteva un corpo verso cui far convergere tutti i suoi dolori e le sue sofferente.
La rabbia di Elaine aveva finalmente trovato il suo capro espiatorio.


Alwyn era tutt’altro che triste. Forse stava cominciando a farsi sempre più folle, ma quel colpo di cannone l’aveva risollevato dal flop del festino. Erano comunque morte tre persone, quel giorno, qualcosa di buono ne era uscito, e che contavano poi le ferite procuratogli da Larev? Sarebbero guarite, prima o poi.
L’unico problema riguardava il fatto che, per gli svariati dolori, non era in grado di andare a caccia. L’orecchio ormai era stato orridamente mutilato, la gamba destra praticamente zoppa e il braccio sinistro solcato da una spaventosa ferita orizzontale. Senza contare gli innumerevoli tagli sparsi vistosamente per il resto del corpo.
Aveva cercato di curarsi con un bendaggio di fortuna, fatto di foglie e piante secche.
Così, mezzo dolorante ma ugualmente esaltato, decise che forse sarebbe stata una buona idea procurarsi un po’ d’acqua. Giusto quel che bastava per non morire disidratato.
Si trovava ancora al primo livello, non essendo riuscito a salire più in alto, neanche troppo lontano dalla cascata. Nonostante la gamba sinistra dovesse essere praticamente trascinata a forza, Alwyn si dimostrò sufficientemente veloce. Doveva ammettere di aver avuto un po’ di paura alla prospettiva di lasciare il suo nascondiglio: dopo il festino tutti i tributi sarebbero sicuramente rimasti nei paraggi.
Invece non aveva trovato nessuno.
Euforico, strisciò fin dietro l’angolo. Udiva consolatorio l’acqua scivolare giù per la cascata. Lasciare definitivamente il proprio nascondiglio voleva dire esporsi al pericolo più di quanto la sua gamba malata volesse concedergli, ma alla sete non c’è paura che tenga.
Sporgendosi un poco verso la fonte, però, scorse qualcosa di ben più prezioso che banale acqua: un possibile quarto colpo di cannone.
Theia Jhonson se ne stava là, accovacciata, abbeverandosi frettolosamente, conscia di non essere sola al primo livello e ben intenzionata a spicciarsi.
Alwyn sorrise crudele, nel fissare la schiena tesa di Theia. Estrasse il coltello. Un solo tiro, uno solo, ed ecco la quarta vittima, sarebbe stato facile. Fortuna vuole che il braccio destro non facesse neanche troppo male, sicuramente sarebbe stata una passeggiata far fuori anche Theia.
Si posizionò al meglio, goffo com’era per i terrificanti dolori, e prese bene la mira. Ma i movimenti lenti e imprecisi fecero urtare accidentalmente un sasso, rumore leggero, forse, ma abbastanza assordante per le orecchie vigili di Theia.
Il coltello volò quando ancora la ragazza non aveva fatto in tempo a scansarsi, ma il colpo si era dimostrato leggermente più impreciso del solito, e Theia limitò i danni con un leggero strattone.
Sentì ugualmente la lama impiantarsi nella coscia. Uno di quei dolori atroci, sofferti, la lama si era fissata in profondità, fin quasi all’osso. Theia gridò. Gridò e si strappò di colpo il coltello, squarciandosi la carne. Avrebbe voluto correre, correre via, il più velocemente possibile. Avrebbe voluto salvarsi, ma non riusciva a muoversi.
E Alwyn stava lì. Malato, dolorante, annientato, ma stava lì, in piedi, più forte di lei. Le si avvicinava, armato di una tavola chiodata strappata via da chissà quale negozio. Si trascinava su una gamba, ancora mezzo sanguinante.
E questo dovrebbe essere più forte di me?
La follia rende grandi, più di quanto la realtà lascerebbe immaginare. E Alwyn era folle, ma ferito. Più ferito di Theia.
Lei fece il possibile per sollevarsi in piedi: semplicemente, era assurdo che quell’ammasso di carne squarciata e sangue colante fosse più potente di lei, che doveva rinunciare a una sola gamba.
Tutti i buoni propositi dovevano però scontrarsi con la dura realtà: non poteva correre, né fare pressione per sollevarsi.  
Poi guardò la mano: stringeva un coltello. Piccolo e insignificante se paragonato alla mazza chiodata, ma sempre letale.
Alwyn le si dirigeva incontro il più velocemente possibile, esaltato: un gattino spaurito, solo, insignificante e incapace di combattere. La preda perfetta. Lei se ne stava lì, accovacciata a terra, davanti la cascata, con il coltello tra le mani e uno sguardo spaurito come se neanche sapesse cosa farsene, dell’arma. Quando le fu abbastanza vicino alzò la mazza in aria e colpì. Theia si scansò velocemente, evitando l’impiantarsi dei chiodi nella carne, ma percependo distintamente il legno frustarle la schiena.
Si mosse di lato, allontanandosi dalla cascata, e ancora una volta ecco il colpo della mazza: questa volta uno dei chiodi le perforò leggermente la schiena, ma il dolore non poteva essere lontanamente paragonato alla gamba squarciata.
— Che fai, fuggi?— gridò Alwyn, sempre più su di giri, tentando un nuovo colpo. Ancora una volta, Theia evitò solo quanto necessario per non morire, strisciando sul pavimento.
— Paura? Fai bene! È giunto il momento per te di morire!
E ancora un colpo, ancora un dolore, ancora un veloce spostamento. Dopo l’ennesimo scansarsi, Theia si ritrovò accovacciata proprio ai piedi di Alwyn, dritto con le spalle alla cascata.
— Pronta a morire?— e fece per colpire ancora, sollevando la mazza, ma Theia fu più veloce. Con un sorriso cattivo, impiantò veloce il coltello sul piede buono di Alwyn. Lui gridò, il dolore gli fece perdere l’equilibrio. Cadde indietro, dentro la cascata, aggrappandosi proprio per il rotto della cuffia al bordo del foro sul pavimento.
Aveva l’acqua che lo sommergeva, ma resisteva eroicamente, cercando di risollevarsi, di non cadere, di non morire.
Theia gli si avvicinò. Gli sfiorò le dita.
— Pronto a morire?— raccolse la mazza chiodata e fece ben attenzione a impiantargli profondamente un chiodo sulle dita. Alwyn scivolò fin sopra la cornucopia, e così morì la quarta vittima.

Il quarto colpo di cannone sconvolse un po’ tutti. La giornata stava ormai volgendo al termine, chi ancora era in gara stava preparandosi per la notte.
Carol non aveva voglia di preparare proprio niente. Sola al secondo piano in un negozietto, faceva quanto possibile per evitare di scoppiare in urla dense di odio e rabbia.
Si detestava. Si detestava per esserci cascata ancora. Già è pazzo di per sé legarsi a qualcuno, farlo in un’Arena, poi, è semplice follia. Frustata prese una cassa a calci e si lasciò scivolare contro il bancone.
— Muori, muori, muori— continuava a ripetere, rabbiosa, in un sussurro soffocato. Chi dovesse morire, non lo capiva nemmeno lei. Forse Luke, o forse qualcuno di più importante, a Capito City. Forse chiunque avesse avuto l’idea di cominciare gli Hunger Games, perché qualcuno c’era stato, sicuro, e aveva fatto fuori Tom e Bryan.
— Perché? Perché?
— Perché cosa?— fece una voce.
Carol si bloccò di colpo, guardandosi attorno.
— Chi ha parlato?
— Sono Miranda. Distretto 2. Tu?
Carol si alzò di colpo, impaurita. — Dove sei?— chiese, fintamente calma.

— Non te lo dico. Tu dove sei?
— Non lo sai?

— No. La tua voce viene da un punto indefinito.
Carol aguzzò l’udito. Sì, la voce di Miranda non sembrava provenire da nessuna parte. Gli Strateghi avevano combinato qualcosa con l’acustica.
— Carol. Io sono Carol.
— Quella del Distretto 10?
— Te lo ricordi?
— Sì. Cosa stavi dicendo, prima?
— Niente, mi lamentavo soltanto.

— Chi è che deve morire?
Carol stette zitta, pensierosa. Tutti dovevano morire. Tutti quanti.
— Nessuno, mi stavo solo lamentando. Perché mi parli? Non vieni dal Distretto 2? Dovresti darmi la caccia e uccidersi.
— Oggi no, magari domani. Oggi è un giorno diverso.
— Cos’ha di diverso?
E toccò a Miranda tacere due secondi, a riflettere. — È diverso e basta. Sono stanca, stanchissima, non vedo l’ora che tutto finisca. Tu mi darai la caccia e mi ucciderai?
— No, oggi no.

— Perché?
— Perché sono molto più stanca di te. Oggi ho perso tutto ciò che avevo e non penso di poterlo più riavere indietro.
— Che cosa?
— La persona che amavo, semplice.

Miranda sospirò sconsolata e si portò una mano al volto. — Questi Hunger Games sono inumani. Oggi ho definitivamente perduto gli unici due amici che io abbia avuto qua dentro. Non sarà come vedersi strappar via la persona amata, ma mi sento improvvisamente sola…non vedo l’ora di tornare a casa.
— Sembri piuttosto sicura di riuscirci.— sussurrò Carol, rimettendosi seduta. Teneva lo sguardo vigile, nel timore di sentirsi avvicinare l’avversaria.
— Sono sicura di potercela fare. Riuscirci, invece, è tutt’altra storia. Ma infondo siamo arrivate fin qui, no?
— Non vuol dire niente. Anche la bambina di dodici anni è ancora viva.

— Eleuthera? Non parlarmi di lei, per favore. Se sono sola è soprattutto colpa sua. — il silenzio di Carol indusse Miranda a proseguire. — Non so come abbia fatto, ma si è alleata con il mio amico.
— Vuoi ucciderla?
— Voglio tornare a casa, e questo è quanto. Anche Gaison deve morire, anche tu, tutti. E odio da morire tutto ciò.

Carol annuì, tra sé e sé. Odiava gli Hunger Games, odiava tutto il male che comportavano.  
— Eppure mi sento così sola…
— È un modo carino per chiedermi di allearmi con te?
— Neanche per sogno— rispose subito— Appena sarà l’alba ti ucciderò. Le alleanze portano solo dolore.

Carol sospirò, socchiudendo gli occhi e trattenendosi dall’impulso di piangere. Prima che potesse aggiungere altro, però, prese a risuonare l’inno e i monitor dell’intero centro commerciale s’illuminarono.
Sfilarono i volti di quattro tributi: a cominciare da Larev, un colpo al cuore di Miranda, per poi passare a Bryan, e il singhiozzo strozzato di Carol. Alwyn, accompagnato dal sorriso nascosto di Elaine, e Sara, nella disperazione di Shaileen.
Quando tornò il silenzio, né Carol né Miranda presero a parlare. Carol s’alzò, raccogliendo quel po’ che ancora possedeva, e si allontanò verso l’uscita. Non sarebbe voluta rimanere nei pressi di Miranda, al sorgere del sole.
Nell’allontanarsi, però, l’occhio cadde oltre una vetrina, e vi scorse la chioma rossiccia del tributo. Rimase ferma lì a fissare la bella nemica, pensierosa, quando questa si voltò.
I loro occhi s’incatenarono in uno sguardo triste, privo di rabbia o paura. Entrambe armate, entrambe pronte alla guerra, rinunciarono a qualsiasi rivalità, per quella notte. Accompagnata da un cenno di saluto, Carol s’allontanò definitivamente.





Gattapelosa:

Due mesi. Lo so, lo so, lo so, sono passati due mesi, chiedo perdono! Ho avuto moltissimi problemi, sono caduta in depressione, a malapena mi alzavo dal letto, scrivere era assolutamente impossibile! E avevo anche quasi finito di scrivere il capitolo, a dire il vero.

Ora siamo tornate, per chi ancora c'è, e mi dispiace moltissimo per la prolungata assenza, spero che non succeda più!

Alwyn è morto. La storia qui si inceppa un po', direte voi, perché a parte questo non succede nulla di scioccante, ma abbiamo programmato un po' di cosette future, e presto riprenderà al meglio. Si spera.

Mi dispiace molto, davvero, scusate!




Niallsunicorn:

Mi scuso anche io, seppur questo capitolo non toccasse a me. 
in ogni caso a me piace molto, e spero vivamente che continuerete  seguirci nonostante la pausa.
SIAMO VIVE, DIFFONDETE LA VOCE. (?)
basta.
Spero di riuscire a scrivere in fretta il prossimo capitolo, buonasera a tutti!

Ps. il titolo non ha senso, lo so. Infatti l'ho scelto io adesso, perchè gattapelosa non mi aveva lasciato istruzioni a riguardo.
grosso errore gatta, grosso errore.
   
 
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