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Autore: Falling_for_you    23/02/2013    4 recensioni
"La prima volta che lo vidi avevo sette anni ed ero troppo distante per poterne scrutare le linee, saggiare i sapori e distinguere le sfumature dei colori.
Pensai che era impossibile che quello fosse un bambino perché, mi dissi, i bambini sono colorati e non sono mai soli.
La seconda volta che lo vidi scoprii che aveva dodici anni, che non amava le lasagne e che odiava l'odore di cucina.
Scoprii quanto fosse bello osservarlo parlare a stento, corrugare le labbra ad ogni forchettata e arricciare il naso quando mia madre si apprestava ad aprire il forno.
La terza volta che lo vidi aveva diciannove anni e il viso sfregiato e pensai che al mondo non sarebbe esistito niente di più bello."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ai Leonardo

che sognano una vita in cui la loro

sia soltanto la frivola invenzione di una che non sa.



IL PARADISO DEGLI ORCHI


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Ninna nanna dice l’orco
col coltello nella mano
mentre guarda tetro e sporco
questo bimbo sul divano.

Dormi dormi fa lo gnomo,
mentre vomita verdastro.
Il suo sangue di non uomo
graffia il petto del figliastro.

Sogni d’oro fa la strega
che il tuo incubo prepara
e non sente chi la prega
che la notte non sia amara.

Dormi, adesso, figlioletto,
che Cthulhu è lì nell’ombra
e verrà in questo letto,
se la mente non è sgombra.


C'era una volta una bambina e, probabilmente, da qualche parte c'è ancora; era una vispa e irrequieta monellaccia che si divertiva a scorrazzare sorridente per tutto il tempo, era una bella bricconcella a briglia completamente sciolta a dire la verità, e non trascorreva giorno in cui le maestre, seppur pazienti e amorevoli, non fossero costrette a relegarla per ben cinque minuti dietro la lavagna a causa delle sue continue marachelle che tanto la divertivano; proprio si ostinava a voler colorare con le tempere tutto ciò che le balenava sotto gli occhi ma, sicuramente, l'oggetto indiscusso dei suoi più reconditi desideri erano i capelli di un'altra sua compare. Martina mi pare si chiamasse, una marmocchia della sua stessa pasta, forse un po' più docile, che, già all'età di sei anni, se la godeva a rigirarsi e rigirarsi tra le dita i suoi lunghi capelli biondo cenere nel vano tentativo di acconciarli in una treccia.

Lei, la mocciosa numero uno, se ogni volta riusciva ad ingraziarsi il padre approfittando della sua bontà, sorridendogli con una bocca mezza sdentata e trascinandolo, alla sera, in mezzo alle sue cianfrusaglie di improvvisata pittrice, certamente non riusciva ad abbindolare quel sergente di sua madre, Marisa Viscardi, segretamente innamorata dell'unico figlio maschio che il cielo le avesse donato e per cui avrebbe potuto scegliere un nome meno strano, la quale, per ogni volta che, come diceva lei, quella peste gironzolava per le vie del paese come una “zingara”, per ogni vestito sporco e strappato e per qualsiasi guaio combinato, come quando aveva preso in ostaggio Ernesto, il cane, allora cucciolo, della vicina di casa, allora disperata, credendolo suo indispensabile collaboratore nell'ardua impresa di proteggere l'intero vicinato dall'uomo nero, dai fantasmi, dalle streghe e dagli orchi, la esiliava in punizione nella sua camera senza cena né cartoni animati, almeno finché non riusciva a combinare qualche danno anche lì dentro.

Sarebbe stata infinitamente lunga la lista di aggettivi di disapprovazione che sarebbero stati opportuni per lei, ma l'unico che, probabilmente, le era stato affibbiato un'unica volta era quello di essere una frignona.

Da quando si era lasciata alle spalle la onnipresente compagnia di Camillo, meglio conosciuto come 'Millo, il suo ciuccio, aveva pianto soltanto in un'occasione, quando quell'incosciente di suo fratello Italo era tornato a casa con un occhio nero e un labbro spaccato; non aveva piagnucolato neanche quella volta in cui sua madre, donna di ghiaccio, aveva obbligato suo padre, sant'uomo dalle mille risorse, a non rivolgerle la parola e alcuna attenzione per due interi giorni, non era di certo colpa sua se aveva dovuto tagliare una ciocca bella consistente di capelli a Martina, la mocciosa numero due. Lei non voleva farseli dipingere!


Tuttavia quella sera Bianca piangeva, convulsamente, incontrollatamente, e tremava sotto il davanzale della finestra della sua cameretta, così, con le braccia strette strette attorno alle corte gambe rannicchiate, la fronte appoggiata alle ginocchia e gli occhi bagnati ridotti a due fessure per non guardare, per non sentire. Si dondolava istericamente singhiozzando avanti e indietro, su e giù, a destra e a sinistra, e pregava tentando, fabbrile, di trovare quella pace che le grida sibilanti alle orecchie le impedivano di raggiungere; veramente non credeva che prima o poi lui sarebbe arrivato anche lì, ad un passo da lei, al ragazzo della finestra di fronte, quello triste, quello già troppo grande, non lo pensava realmente perché sua madre glielo aveva assicurato: l'orco se ne era andato da quella casa. Piangeva Bianca facendosi piccola piccola, tappandosi le orecchie, mordendo le labbra con tutta la forza che aveva in corpo, piangeva e pregava, pregava di poterlo rivedere domani, di saperlo al sicuro. Non bastarono le braccia di Italo a calmarla, né quelle di suo padre a rassicurarla, continuò a singhiozzare finché le urla non cessarono e l'orco non scomparve. Finalmente.


I mostri non esistono.

I fantasmi, i lupi mannari, le streghe

sono fesserie inventate per mettere paura

ai creduloni come te.

Devi avere paura degli uomini,

non dei mostri.



Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, che si sfalda in tante parti, migliaia, milioni, miliardi di frammenti, schegge, briciole e brandelli, piccoli, medi, grandi, appuntiti e squadrati, tutti taglienti, tutti affilati, tutti neri come quelli in cui viene ridotta la tua carne, quella della pianta del piede quando vi passa sopra, vi si innestano, ingannevoli e furbi, vi si conficcano, lì, dove le mani non arrivano per proteggere, lì, dove penetrano sempre più in profondità lacerando e infettando le tue membra.

Si disgrega, si smembra, si sfascia, si squama, il vetro, si rompe, semplicemente, come una bottiglia piena scagliata sulla superficie spigolosa di un mobile, come una verga di legno, come le ossa delle mani e delle gambe, come le costole, si rompe come solo qualcosa che non è mai iniziato sa fare, come tutto ciò che non è mai esistito, come l'amore di un padre per un figlio, ed è martire inanimato di un'innaturale faida familiare, eroico incipit di una sequela infinita di cui è impossibile riconoscere il disegno, l'intendimento e la meta, punto di non ritorno di una successione eterna di atterriti e rabbiosi respiri strozzati, i tuoi, i suoi, i vostri, unico usurpatore di un mostruoso silenzio. Non si avvertono sudice voci, oscene grida o lamenti bestiali, perché non ce n'è bisogno, perché non servono, perché sono più che sufficienti le mani, i pugni, le braccia, i piedi, le gambe, gli occhi e la bocca a far male, perché la ferocia delle botte ha già fatto la sua parte inghiottendo gli aliti dei gemiti più violenti e dolorosi. Non ce n'è bisogno, non servono.



Due. Due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, così, senza che tu ne abbia coscienza, dalla bocca, velocemente si innalzano nell'aria senza che tu possa impedirlo perché è troppo opprimente la morsa che stringe lo stomaco; si disperdono con la stessa facilità con cui sono saliti su per la gola, si dissolvono, ciascuno per ogni movimento esterno un po' più incoraggiante e più assurdamente rassicurante, per una porta, la sua porta, il cui rumore della serratura riconosceresti tra mille come un animale fedele al proprio padrone, che viene sbattuta violentemente, segno indelebile di una resa, della fine di una guerra senza vincitori né vinti, per lo scalpiccio dei piedi di tuo fratello che corrono frettolosi, ritraendo l'ansia, l'angoscia, l'agitazione, il tormento, la preoccupazione, il patimento che li anima, giù per le scale, sempre più impazienti, sempre più smaniosi, sempre più in fretta, giù, fino alla porta, percorrendo una discesa che sembra essere troppo lunga e ripida; rischia di cadere ma corre, corre come solo un fratello sa fare.


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre.


Tre. Tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac: paura, sollievo e alterigia.

La paura è la prima ad arrivare perché vuoi scenderle tutte, quelle scale, e finalmente ne hai trovato il coraggio; non ti immobilizzi al terzo gradino, non ti nascondi tra le ombre della notte in mezzo al corridoio, non trattieni il fiato e i singhiozzi che si arrampicano sulle pareti della gola, non li spii, come la peggiore delle ficcanaso da lì, ma corri anche tu, veloce come tuo fratello, forse pure di più, vai fino in fondo e hai paura perché non lo sai cosa ti aspetterà, non lo sai quanto sangue raggrumato ci sarà sui suoi vestiti, quanto ne scorrerà addosso a lui, sulla sua pelle, sulla sua faccia, sulle sue mani, non lo sai, non lo hai mai visto l'orrore di una cicatrice che viene riaperta.

Il sollievo arriva dopo, quando attraversi la porta spalancata ed esci in giardino, sei scalza e sei in pigiama ma non ti importa; arriva quando li vedi abbracciarsi, stringersi, volersi, cercarsi e trovarsi, lì, in mezzo alla strada, buia, illuminata dal pallido chiarore intermittente di qualche lampione mezzo fulminato, al freddo, sotto la pioggia. Si avvinghiano, due uomini, disperati, e vorresti farti piccola piccola perché la tua è una sporca intrusione, una delle tante, l'ennesima, vorresti essere un pipistrello, si, proprio quello, un pipistrello, che gira di notte, che svolazza sopra le loro teste inconsapevoli, che ha gli ultrasuoni e che può sentire quello che si sussurrano, le parole sconclusionate che scorrono, in un fiume di incoscienza, da una bocca all'altra. Vorresti e sei invidiosa perché a te non è concesso legarti a lui in quel modo, allora rientri e li aspetti.

L'alterigia colpisce per ultima, non appena lui varca la soglia di casa tua e incontri il suo sguardo; è sempre lo stesso, non si smentisce mai, è il solo che sa rivolgerti e lo capisci subito che ancora si ostina a non volerti lì, accanto a lui, la buona creanza di nasconderlo non ce l'ha, al contrario, disprezza apertamente, con le parole, come solo lui è in grado di fare con te, come solo lui è i grado di ferirti.

-Che cazzo Italo, ma possibile che questa debba stare sempre in mezzo ai coglioni?!

-Si, se solo sono i tuoi.


Allora è l'alterigia, proprio quella, l'orgoglio, la dignità, la boria, l'arroganza, a risalire come un conato di vomito fin dalla profondità delle viscere scaraventandosi sopra di lui, appiccicandoglisi addosso, come una medusa velenosa, come il vinavil infiammabile, come una colata di miele e, come una pianta grassa che punge, lo fa in modo incontrollato, con prepotenza, insolenza e volgarità dando sfoggio alla tua peggior te, quella che soltanto lui riesce a tirar fuori.


Quattro. Quattro sono le gocce salate che, irrefrenabilmente, scorrono sulla pelle del tuo viso, lo marchiano, lo graffiano, lo solcano, cadono giù dal precipizio delle tue palpebre e fluiscono, giù, sulle guance, giù, fino alla linea della mandibola, giù finché non sono assorbite dal tessuto del pigiama; tuttavia la senti, ormai, la traccia che hanno lasciato sulla carne, brucia e tira ad ogni smorfia della faccia, la senti e allora ti pulisci, ti strofini con forza per cancellarla perché non sei stata capace di controllarti, perché la tensione era tanta, troppa da sopportare, perché hai paura, perché è fradicio, ha il sangue incollato sui capelli e i vestiti strappati, lui, un uomo, il volto irriconoscibile e il corpo che a stento si sorregge e ti nascondi, vai in cucina mentre percepisci i suoi passi rallentati seguirti e tuo fratello è sparito chissà dove, non lo hai ascoltato, non lo hai capito quello che ti ha detto, non ti interessa. Solo ti nascondi, perché non vuoi che lui ti veda, perché non lo deve vedere che è il solo che riesce a farti piangere.



Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque.


Cinque. Cinque sono le dita con le quali ti azzardi a toccarlo, il medio, l'indice e il mignolo e poi l'indice e il mignolo di nuovo, le altre sono impegnate a fare altro, a togliergli la maglietta zuppa, per esempio. Tutte tremanti, assetate, esitanti, troppo fredde e leggere, insicure, avide, delicate, lente, piccole e timorose; lo tocchi, non casualmente ma premeditatamente, lo accarezzi, lo sfiori, aduli e vezzeggi la sua epidermide, quella dei fianchi e delle braccia, li vuoi rimembrare tutti i nei che vi sono impressi, lasci che i polpastrelli la saggino avventatamente e senza alcuna ritrosia sollevando contemporaneamente la stoffa della maglia, lasci che le iridi si dissetino corteggiandolo e ammirandolo senza pudore perché è un'occasione troppo ghiotta che non ricapiterà presto, perché sei egoista, perché lui è lì, vicino, tanto, troppo vicino, seduto, attaccato a te, vicino, anzi no, vicinissimo, e tu sei lì, in piedi, tra le sue gambe divaricate, che lo tocchi, e sei vicina, tanto, troppo vicina, attaccata a lui, che ora è nudo, in parte, nudo e non lo avevi mai avuto così vicino, svestito, spogliato, scoperto, nudo e vicino, nudo davanti ai tuoi occhi, nudo tra le tue mani, nudo e vicino, nudo e disarmato. Nudo.


Sei. Sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sull'occhio sinistro, sul labbro, due sulle costole e due sulle braccia, uno di fianco al gomito e uno poco più su del polso. Sono grandi, rossi e vivi, come i fiotti di sangue che ogni tanto zampillano dal labbro e dal sopracciglio spaccato, vi passi sopra un fazzoletto bagnato, lo pulisci e vi premi il ghiaccio; non sai che fare, non sai dove guardare, tutto di disgusta, non sai da dove cominciare, come muovere le mani, dove le puoi poggiare e dove invece fa più male, sei nel panico, non sai se c'è qualcosa di rotto, non sei in grado di decidere cosa è meglio fare, se devi trascinarlo all'ospedale o se devi aspettare che torni tuo fratello, dove cazzo è andato non te lo ricordi, forse dovresti svegliare tuo padre, anzi no, non puoi salire e lasciarlo da solo, devi controllarlo e pulirlo, ma non ci sono gli asciugamani e lui è molle di acqua e di sangue e tu devi asciugarlo, e gli ematomi sembrano accrescersi, espandersi ad ogni battito di ciglia, sempre di più,sempre di più, sempre di più. Ora ti pare rosso e vivo lui stesso. Disinfetti o asciughi? Gli prepari qualcosa di caldo? Il tè, il tè andrebbe bene, ma dove sono le bustine? E il bricco per l'acqua calda? Dio... non lo ricordi. Forse dovresti chiamare, chiami o non chiami? Usi le garze o i cerotti? E dove sono? In bagno? Perché cazzo hai una casa così grande? Perché cazzo tua madre ha la fissa di nascondere le cose? Dio... dove cazzo sei Italo?


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sette.


Sette. Sette sono le volte in cui lui ti parla, ripete sempre la stessa frase che echeggia come una nenia nel tuo cervello:

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

-Sta' calma, sto bene

La dice e la ridice, la ripete di continuo, lo ribadisce e lo riconferma, ti rimbecillisce, ti rintrona e rimbambisce, ti soffoca mentre le mani tremano e i timpani sibilano, la dice e la ridice, mentre ti guarda, mentre ti ferma e blocca i tuoi movimenti, mentre ti scrolla per una spalla, mentre ti pizzica su un fianco, mentre ti afferra un polso, mentre ti stringe le dita tra le sue, mentre se le porta al volto e si lascia toccare da te. Allora, forse, ti svegli.


Otto. Otto sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, si incastrano e si assemblano in un legame che, per ciascuna delle otto volte, ti fa battere il cuore più velocemente, ti fa arrossire ed imbarazzare. Ah! Tu che ti imbarazzi, tu, di lui, tu che ti vergogni, di lui, tu che lo hai spiato e lo spii con audacia, tu che lo ami, tu che lo guardi, sempre, tu che lo hai toccato prima, che lo hai vezzeggiato e adorato, tu che lo tocchi ora, che lo pulisci, lo asciughi e lo curi. Tu, ah!, tu che esiti e sei impacciata dopo tutto ciò che gli hai detto, dopo che hai pianto, tu che ti imbarazzi di lui che ti guarda, lì, così, nudo e vicino, tanto, troppo nudo e vicino, vicinissimo e nudo, e lo tocchi, lo saggi, lo assapori come mai potrai più fare, perché lo desideri, perché sei avara e prepotente, perché sei assetata di lui, perché lo vuoi, tutto, lo ami e vuoi fare l'amore con lui, anche lì, sul tavolo della cucina, addosso al frigorifero o per terra, sul pavimento. Lo vuoi, tutto, e basta, ovunque e comunque. E sei egoista.


Nove. Nove sono i baci che desideri dargli, dove vuole lui, sugli occhi, sulla cicatrice, tra i capelli, sulle guance, sulle orecchie, sulle narici, sulle mani, sul collo e sulle labbra. Non sono dieci perché il decimo deve meritarselo, deve guadagnarselo, è il premio che gli vorresti concedergli domani mattina se deciderà di rimanere ed è il buongiorno che vorresti regalargli ad ogni nuovo inizio di giornata, quando ancora siete abbracciati dentro al letto, sotto le coperte; non sono neanche quindici o di più ma solo nove, perché, pensi, che, gli altri, deve essere lui a volerli, a cercarli, a rubarteli. Ah! Non ne trovi il coraggio, però, di baciarlo, così, tu vergognosa, lui che ti guarda, così, nudo e vicino, vicinissimo, e allora nove sono i baci che si tramutano in parole, nelle battute che tu scambi con lui. Sono solo sussurri.


-Come stai?

-Sono stato peggio e sono stato meglio. Vedi di darti una mossa, non voglio fare giorno qui dentro

-Hai intenzione di tornare di là?

-Non sono cazzi che ti devono interessare

-Magari potresti rimanere qui, potrest...

-Non ci penso nemmeno

-Non puoi tornare da lui e fuori si gela

-Perché cazzo non la finisci di interessarti della mia vita?! Mi hai rotto i coglioni

-Rimani qui. Dormi con Italo, te ne vai quando vuoi e non sei costretto a vedermi domani mattina. Solo, rimani qui.


Uno. Uno è il raggelante frastuono di un vetro che viene rotto, due sono i sospiri liberatori che sfuggono al tuo controllo, tre sono le emozioni che attraversano il tuo corpo in un tic-tac, quattro sono le gocce salate che scorrono sulla pelle del tuo viso, cinque sono le dita con cui ti azzardi a toccarlo, sei sono gli ematomi sparsi che conti sul suo corpo, sette sono le volte in cui lui ti parla, otto sono le volte in cui i vostri sguardi si incontrano, nove sono i baci che desideri dargli, dieci.


Dieci sono le pulsazioni smarrite dal cuore nel vederlo salire le scale seguendo, in silenzio, i passi di tuo fratello.



E' salato e acerbo il sapore che gli inasprisce e inumidisce le labbra lessandole, vi passa la lingua lentamente asciugando le gocce che vi affiorano ad ogni suo impercettibile e misurato movimento, stando, però, ben attento a non lambirne la parte superiore, quella imperfetta, lacerata e incisa, quella sfregiata, perché è ancora ustionata la pelle lì e perché sa che sicuramente troverebbe una consistenza meno scivolosa, più densa e rugginosa, meno pulita e cristallina ad aspettarlo, è consapevole che se vi trascinasse la lingua sopra, si impregnerebbe sicuramente di rosso e che quel sapore, poi, rimarrebbe incastrato proprio lì, tra l'esofago e lo stomaco, soggiogato a un andirivieni perpetuo e vischioso; su e giù, su e giù, su e giù, ma comunque non riuscirebbe a smuoverlo da quel preciso punto.


E' una superficie piana e infinitamente estesa quella a cui rivolge lo sguardo, così illimitatamente vasta e dilatata da farlo sentire un moscerino inerme di fronte ad essa, ingabbiato tra i fili di una ragnatela insidiosa; gli sembra di star rimirando le sfumature dei pigmenti delle sue iridi, non c'è la limpidezza o la quiete di un cielo azzurro e terso, né il tepore diffuso di un sole sfolgorante nel pieno del giorno, al contrario, sono cinerine nuvole di pioggia e burrasca, cariche di una turbinosa promessa, quelle che si plasmano e si dimenano davanti alla sua impassibile e impotente figura in un'accozzaglia sgraziata e sconquassata di colori tristi, annebbiati e ghiacciati.


La sente accarezzargli e avvolgergli il corpo, fluire sulla pelle rabbrividendola e ammorbidendola, percepisce la carne dissetarsi e modellarsi seguendo ligia una movenza ritmata e ondulatoria, l'avverte, l'acqua, viscida e mendace, accoglierlo e disegnare la sua sagoma come un'impronta su di essa, le stille salate scorrono su di lui ferendolo senza alcuna accortezza, lì, dove ci sono escoriazioni e lividi che bruciano, lì dove le botte hanno fatto più male e i segni sono entrati sottopelle, fin nelle viscere.

E' al mare, Leonardo, galleggia lasciandosi trasportare e guidare verso rotte che qualcun altro ha deciso per lui, si abbandona, sfinito, a chi pare avercele le redini della vita, non gli interessa dove attraccherà, su quale spiaggia, su quale isola arriverà, si concede di rimanere così, le braccia e le gambe divaricate a quattro di spada, le membra fresche e leggere fluttuano trascinate dalla forza della natura, gli occhi rivolti verso lo smisuratamente infinito e la mente impegnata a rimuginare che sarebbe potuto essere proprio quello, il cielo, il suo limite se solo non fosse stato lui, Leonardo.

Attende, Leonardo, aspetta che arrivi il momento in cui il tutto, così dolorosamente ingiusto, si ripeterà senza pietà come in un disco incantato, l'attimo in cui i suoi muscoli si tenderanno smarrendo il placido lassismo che li aveva cullati fino ad allora, l'istante in cui sentirà il fragore di un avanzare intercalato, gli schizzi d'acqua graffiare il suo petto e il suo volto, il calore di un altro corpo, di quello suo, avvinghiarlo in un addio disperato.


Non deve farlo per molto, però, basta l'infinitesimale spazio che si inframezza tra un secondo e l'altro, tra un battito di ciglia e la successiva corsa veloce sulle sue guance di quelle gocce marine piantate proprio lì, in bilico sulle sue palpebre; la percepisce già smuovere l'acqua attraverso movimenti calcolati e attenti, nel suo cranio rimbomba lo scroscio delle sue bracciate cadenzate al passo delle sue gambe zampettanti, gli è sufficiente il solo istante necessario a inspirare quanta più aria possibile e a controllare che il numero, registrato fino ad allora, di gabbiani sorvolati sopra la sua testa sia sempre il medesimo per avvertire le sue esili braccia aggrapparsi al suo collo.

Anche questa volta sono sedici, non uno di più non uno di meno.

A dire la verità l'unico che sembra cambiare e trasformarsi, l'unico che pare subire e soffrire il corso del tempo e sfuggire a quella ingannevole ed immaginaria condizione di perenne staticità è lui, Leonardo. Non è più un dodicenne con un cappello grigio con un ridicolo pon pon sopra e una camicia a scacchi neri e bianchi o un diciannovenne barcollante per la strada con un bottiglia di rum pronta per essere iniziata tra le mani, è un uomo ormai, i lineamenti non sono più infantili e acerbi ma decisi e marcati, un filo di barba ricopre il suo volto, è più alto adesso, una rada virile peluria gli cosparge il petto e i muscoli, energici e vitali, definiscono ogni avvallamento della sua intera figura; tuttavia i suoi occhi sono ancora sempre offuscati, smarriti e cinerei, quella “I” senza ghirigori e fronzoli da femminuccia marchia la sua pelle imperturbabilmente e la brutalità di una cicatrice deturpa la bellezza del suo volto.

Lei rimane sempre la stessa, invece, così minuta e piccola, così leggera e delicata tanto da rendere il suo tocco, il suo corpo inavvertibile e invisibile, come sono i suoi denti, irriverenti e giocosi, che si incastrano sulla sua pelle per stampargli un morso proprio sotto la nuca, vicino all'orecchio, come è la sua bocca che, dolce e affettuosa, con il timore di aver fatto troppo male, vi lascia poi un tenero bacio.

Non sa che lui è abituato a ben peggio, non può saperlo, lei.


Inspira Leonardo,di nuovo, lascia che l'aria, salmastra ed arsa, gli inebri le narici, che si cali lungo le pareti di ciascuna delle sue cellule, giù per la trachea, fino infondo, che alleggerisca le fibre muscolari acquietandole e penetri nei polmoni resuscitandoli, inspira prima di tentare di ricordare in quale sporco buco lo tiene nascosto il coraggio, come si riesca a farlo risalire e quale sia il modo corretto per usarlo e voltarsi, stringerla, ogni volta sempre con un po' più di forza e smania, con addosso, incollato, subdolo e appiccicoso, il timore di veder scomparire troppo presto il sorriso dal suo viso, e iniziare quell'allegro gioco, precario bagliore in un incubo ingannevole e crudele, fatto di inseguimenti sollazzati, grida svagate, risa gaie e di faceti e malandrini schizzi d'acqua salati rimbalzanti da corpo a corpo, da pelle a pelle, da bocca a bocca.


Non deve attendere molto neanche per osservarla, impotente e paralizzato, bloccato in una triste realtà psichedelica, svanire, con la medesima rapidità con cui se l'era ritrovata alle spalle; è sufficiente uno spruzzo più violento lì dove ancora brucia e la smorfia di dolore che gli sfigura il volto, basta strizzare gli occhi fino a immaginare solo il buio e mordere le labbra fino a reprimere rossi conati rugginosi conficcandoli sulla lingua, per vederla annaspare, agognare ossigeno con disperazione, brancolare nel vuoto, aggrapparsi alla sua pelle viscida e scivolosa e slittare giù, risucchiata e inghiottita in un lugubre vertiginoso abisso salato.


Tutto ciò che gli è concesso è l'eco straziato della voce di una bambina che tuona impassibile nel cranio e il disegno di un perfido ghigno su una bocca, sulla sua bocca.


Spalanca gli occhi esagitato, Leonardo, ridestandosi, improvvisamente libero dalla prigionia corrosiva del suo inconscio; il respiro si spezza in gola rimanendovi impossibilitato, si perde senza riuscire a rimembrare le giuste traiettorie che potrebbero condurlo giù per la trachea salvandolo, e i timpani, insorditi da feroci urla spasmodiche sbrananti una bocca d'agnello, gli restituiscono il sibilo efferato di un fischio malato.

Ansima in cerca d'ossigeno sufficiente per non soffocare, per non affogare insieme a lei, inspira ed espira concentrandosi sul lieve movimento delle proprie narici e si limita ad ascoltare il fievole sussurro dei suoi sospiri tentando di sopravvivere almeno lui, di rimanere a galla, cercando di ricordare come, ogni volta, sia capace di alleggerirsi dal peso delle immagini brutali e mostruose di un infido incubo.

Non grida allucinato, non balza dal letto angosciato e spaventato, né si dimena con tutta la forza che possiede, si controlla, invece, mantiene lo sguardo incollato al soffitto pietrificando ogni arto, serrando la mascella e cercando di sgrassare i tessuti della sua lingua dalla dolorosa impudenza dal sapore riarso e aspro del sangue di una vita esanime; non si muove perché non può farlo, perché, non appena varcata la soglia di quella stanza, si era premurato di prestare attenzione, di registrare e incidere nelle interiora delle sue pupille ogni singola inezia che lo avrebbe rinsavito rammentandogli di non potere.


Ce le ha conficcate nelle iridi senza nemmeno aver necessità di volgersi a rimirarle, le percepisce gravargli addosso sommergendolo, l'approssimazione e l'imprecisione con cui quelle solitarie due immagini e quel poster, identici ai suoi ma più sgualciti e consunti dal tempo, sono stati appesi alla parete di fronte al letto, sono troppi i centimetri di differenza che pesano su di un lato rispetto all'altro, sono troppo storti e troppo poco ordinati; come non gli è sfuggita neppure la consistenza piallata e calda del pavimento in parquet, scivola ancora sotto ai suoi piedi nudi, né quella fredda e dura della superficie lucida, intarsiata e pregiata di quell'armadio di un marrone eccessivamente scuro, ce l'ha impressa sui palmi delle mani.

Non li ha ignorati i baffi neri e obliqui che sporcano e rigano il candore dell'intonaco bianco in basso, vicino al comodino di destra, né ha dimenticato di indossare una maglietta giallo canarino e un paio di pantaloni di una tuta non suoi, non gli è concesso fingere di non vedere, perché non vi è neanche il più impalpabile sentore della puzza di alcool ma, al contrario, l'aria è intrisa dell'aroma di pulito, di lavanda e vaniglia, gli basta abbassare la faccia e annusarsi, odorare quelle lenzuola verde smeraldo per percepirlo.


Non si muove, Leonardo, perché non può, perché non è solo, quella non è la sua stanza e non è a casa sua, non è nel suo letto, lì con lui c'è quel ragazzetto dal nome strano che dorme prono, il volto affondato nel cuscino e una mano sotto di esso, non si muove perché oramai è avvezzo a inghiottirle, le grida, che risalgono dalle viscere delle sue membra, e a contrarre le fibre muscolari finché gli spasmi non lo lasceranno libero: l'abitudine e il tempo lo hanno modellato a loro piacimento.


Rilascia il labbro che tratteneva convulsamente tra i denti prima di decidere di aver bisogno di acqua, fresca, per togliersi dalla bocca i lasciti tossici e nauseanti del sapore del sangue, di quello suo, e allora si anima e decide di alzarsi. Lo fa con circospezione, però, scosta di poco e lentamente il piumone azzurro in piuma d'oca, lascia che un solo piede scivoli giù da quel materasso troppo stretto per due persone prima di strisciare sulla sua ruvida superficie e sollevare il busto senza fretta, è attento e guardingo perché vuole evitare che Italo si svegli e perché è consapevole che, se solo fosse un po' più brusco e brutale nei gesti, le vertigini e gli spasimi di dolore gli guasterebbero il cranio e allora, si, rischierebbe di urlare.

A fatica è in piedi, si accascia un solo istante addosso alla parete a lato del letto, sente le costole frantumarsi gracchiando ad ogni esalazione di ossigeno, le gambe intirizzirsi passo dopo passo e la faccia esplodere a ciascuna delle pulsazioni che gli squassano le labbra e l'occhio sinistro. Tuttavia, appena attraversata la soglia di quella stanza, accelera camminando veloce dritto davanti a sé, al buio, punta le iridi su quella porta infondo al corridoio ignorando le fitte che gli attraversano il corpo, non si guarda intorno né decelera perché, se solo provasse a farlo, se soltanto esitasse, non la troverebbe più la forza per andare avanti, ma si fermerebbe, pietrificato dalla morsa di un malsano e nocivo desiderio, si disorienterebbe, confonderebbe le direzioni e alla fine sbaglierebbe scegliendo quella più ovvia e sicura, quella che, forse, anela tra tutte, quella dell'unica porta aperta in un corridoio dalle pareti chiuse, un chiaro invito ad entrare per chiunque lo attraversi e più probabilmente elargito solo per lui.


Torna a respirare solo dopo aver appoggiato la mano sul pomello della porta, di quella giusta, illudendosi di avercela fatta, di aver raggiunto la meta desiderata e di essere scampato al peggio, ma è sufficiente avvertire il fruscio ammaliante e destabilizzante delle coperte che sfregano le une sulle altre a distrarlo e costringerlo a voltarsi per metà con il busto, basta lo scalpiccio delle sue gambe al di sotto delle lenzuola per fargli abbandonare totalmente il contatto con la maniglia di quella porta e incantarlo obbligandolo a tornare indietro e a chiedersi se lei stia dormendo, se il suo sia un sogno o un incubo o se, invece, abbia percepito il suo tormento e sia sveglia, se lo abbia visto passare e se lo stia aspettando perché, infondo, lei lo sapeva fin dall'inzio che lui sarebbe arrivato. Presto o tardi.


Allora è un attimo ritrovarlo, lui, Leonardo, impalato sulla soglia di quella porta lasciata spalancata appositamente. Non entra, però, consapevole di pretendere troppo da se stesso, di star camminando sul filo del rasoio e di non essere mai stato bravo nei giochi di equilibrio, non entra perché entrare vorrebbe dire non uscirne più, vorrebbe dire dannarsi e perdersi mentre lui, invece, vorrebbe solo trovare la chiave buona, quella modellata così sapientemente da chiuderla definitivamente, quella porta, e lasciarlo vivere.

Neppure la guarda, non ce lo ha il coraggio di osservare e marchiare a fuoco sulla sue pupille la sua immagine distesa sul letto, il modo in cui il suo corpo è rannicchiato e avvolto dalle coperte, il modo in cui i suoi capelli, così troppo mossi, si spargono sulle federe del cuscino. Si abbandona contro lo stipite concedendosi di rimirare la stanza, quella che si è costantemente rifiutato di guardare per anni dalla sua, di finestra; vede la tenda di seta rossa che sembra nascondere il candore dei bagliori notturni ma che, di giorno, pare incapace di nascondergli la sua figura, un'ombra invadente che tenta inutilmente di celarsi dietro a un pezzo di stoffa, si fissa su quelle quattro pareti colorate domandandosi quale assurda pazzia l'abbia animata a dipingerle, da sola, di quelle aberranti tonalità, porge attenzione alle foto che, disposte completamente a caso e senza alcun ordine, le riempiono, di lei e di quell'altra ragazzina così diversa da lei e così troppo disponibile tanto da stupirlo che trovino il modo per rimanere insieme in uno stesso posto per più di un minuto; stringe i denti, stizzito, chiedendosi il perché non abbia mai tentato di sbattersela, quell'altra, convincendosi che i suoi giochetti di sicuro non li avrebbe rifiutati, che sarebbe stato divertente e che è ancora in tempo, prima che un'imprecazione affiori spontanea tra i suoi denti e la sua mascella si serri automaticamente mentre nella testa balena l'unica risposta sincera che, per una volta, ha il coraggio di darsi.


Osserva, Leonardo, i fogli sparsi sulla scrivania, i cumuli di libri e cartacce, i vestiti sgualciti sulla sedia, le pile di cd erette ai piedi del letto, finché non è il sussurro del suo nome -Leonardo- esalato, così, dalle sue labbra, scivolato sulla sua lingua, diffuso nell'aria dalla sua voce, a costringerlo ad affogare nelle sue iridi, a guardarla, finalmente, sveglia, distesa nel suo letto, le gambe strette vicino al petto e i capelli, troppo poco lisci, sparsi sul cuscino.


Crolla a terra, Leonardo, sfinito e spossato, e si odia per essere un debole e odia lei, che lo ha costretto a rimanere. Resta paralizzato con la schiena e il capo contro la porta, finché non è lei a scendere dal letto e raggiungerlo, finché non è lei a sedersi accanto a lui e sfiorare la sua spalla con la testa, finché non è lei a intrecciare le loro mani.

Allora si odia perché desidera sentirla tutta, perché non gli basta e vorrebbe stringerla con più forza, e odia lei, che si ostina a non lasciarlo andare e a stringerlo ancora.


Non riesce a quantificarlo il tempo trascorso lì, stravaccato a terra, accanto a lei, addosso a lei, sente soltanto la luce, seppur fioca e debole, che gli solletica il volto, ha i muscoli intorpiditi, la schiena indolenzita e la spalla destra, quella dove c'era lei, ancora addormentata; le costole fanno più male di prima e la faccia ha ripreso a bruciare. Tuttavia non si alza né si muove o solleva le palpebre, perché, di nuovo, è un vigliacco che fatica a trovare il coraggio di guardarla, di essere lì con lei in tutto e per tutto, perché ora lei è lì, sveglia, inginocchiata davanti a lui, e percepisce i suoi occhi su di sé, il suo calore, la sua pelle, le sue mani, i suoi polpastrelli e le sue dita scorrere e fluire sul viso, fra i capelli in cui si incastrano, talvolta, tirando un po' troppo, sulla fronte e sopra gli occhi di cui tracciano, delicate e timorose, forse, di premere con troppa pressione, i contorni quasi volessero disegnarli sulla propria epidermide, l'avverte accarezzargli il naso, gli zigomi, la mascella, le labbra, il collo, finché non sono le sue, di labbra, a sostituire le mani, finché non sono i suoi baci a ripercorre i segni lasciati dai suoi stessi polpastrelli e a plasmare i tracciati della sua cicatrice, fino a raggiungere la sua bocca, finché non sono le sue labbra, esitanti e tremanti, ad avvolgerne dolcemente uno suo, e si odia, Leonardo, per desiderare, bramare, anelare di più, per essere bloccato e immobile, per non essere in grado di togliersela di dosso, per non volerlo, si odia e odia lei che non si smuove da lì, che lo ha ingabbiato, che in un attimo lo assapora timorosa con la lingua, la odia perché non c'è più il sapore rugginoso del sangue, di quello suo, a martoriargli le papille gustative,la odia, ancora, perché lei lo sa che non lo dimenticherà, che è riuscita a marchiare anche quella parte di lui, che si è infiltrata anche lì dentro, che lo ha penetrato, la odia e allora la scansa. Finalmente.



And now that you've found it- its gone
and now that you feel it- you don't
You've gone off the rails

So don't get any big ideas,
They're not going to happen
You'll go to hell for what your dirty mind is thinking.



Uno. Uno è l'unico passo che mi basta fare oltre la soglia della porta per avvertire la puzza di alcool nausearmi e stomacarmi.

Due. Due sono i suoi occhi, che mi scrutano, mi guardano da lontano e non c'è niente dentro quello sguardo, né rabbia, né rancore, né odio: il nulla li domina.

Tre. Tre sono le bottiglie rotte, una addosso al camino, una sullo spigolo del tavolo, una sullo stipite della porta, quella vicino alla quale ci sono io.

Quattro. Quattro sono le mie mani e le mie gambe, insieme, quelle che uso accovacciato a terra, io, un uomo, accasciato, che si fa picchiare come un ragazzino indifeso, io, un uomo, che si fa picchiare.

Cinque. Cinque sono le sue mani, le sue braccia, le sue gambe e i suoi piedi, cinque sono le verghe di legno, quelle che sento sulle costole, sul viso e sulle gambe.

Sei. Sei sono le grida di dolore che inghiotto, che ingoio e rimando giù.

Sette. Sette sono le falcate che mi ci vogliono per uscire di casa se non mi voglio far ammazzare.

Otto. Otto sono i secondi che devo attendere prima che la porta di fronte si spalanchi e la figura di Italo corra a stringermi.

Nove. Nove sono i singhiozzi di parole e pensieri che reprimo ad ogni lembo della sua pelle che sfiora e avvinghia la mia.

Vorrei chiederti se questo è l'amore, Italo, ma non ne trovo il coraggio.

Dieci. Dieci sono i respiri che mi mancano nel vedere quattro lacrime rigare il suo volto.



Shrek: per tua informazione, gli orchi hanno dentro più cose di quanto tu creda
Ciuchino: per esempio?

Shrek: per esempio? va bene, ehm...gli orchi sono come le cipolle
Ciuchino: Puzzano?
Shrek: Si...no!
Ciuchino: ah, ti fanno piangere
Shrek: nooo
Ciuchino: le lasci al sole, diventano marroni e poi spuntano i peletti bianchi!
Shrek: nooo! strati! Le cipolle. Hanno gli strati. Gli orchi hanno gli strati. Capito? Tutti e due abbiamo gli strati!

Just one second, please...

Salve, salvino belle donne!

Sono tornata ( e voi direte: ce l'hai fatta!) e credo di averlo fatto con il botto con questo capitolo. Non lo so, questa storia è già complicata di per sé, non è facile da leggere e complicare di più le cose con argomenti come quelli che ho trattato nel capitolo non è certo mia intenzione, anche perché non sono proprio il mio forte. Tuttavia, ai fini della storia, della vita di Leonardo, mi sembrava doveroso. E' stato difficile da scrivere, ho avuto davvero poco tempo e quando ce l'avevo le parole non sembravano mai quelle giuste, non so se sono riuscita a comunicare qualcosa, ad affrontare l'argomento nella giusta maniera e con la sensibilità che richiede, probabilmente s fossi stata davvero una brava scrittrice, una con i cosi detti, avrei scritto l'intero capitolo secondo il pov di Leonardo, per questo sono pronta a qualsiasi critica e suggerimento.

Come al solito ringrazio chi legge, chi recensisce, chi ha messo questa storia tra le preferite, seguite e ricordate.

Adios Amigos ( scusate, ma era doveroso: credo che questo sia il primo commento serio che lascio!)!!

Fal

  
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