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Autore: Dante_Chan    23/02/2013    1 recensioni
Questa storia parla di due ragazzini. Di un metallaro allevatore di ratti (o un allevatore di ratti metallaro?) che si innamora irrimediabilmente di un truzzo un po' particolare. La trama...beh, in realtà la scopro scrivendo, ma in generale il primo incontra il secondo, rimane colpito e tenta di ritrovarlo. Seghe mentali comprese nel prezzo :3
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di iniziare, mi sento in dovere di fare qualche premessa:
1) La canzone omonima non c’entra nulla con questa storia xD ho usato questo titolo per il suo significato: tradotto letteralmente con “amore sotto al tiglio”, vorrebbe dire “amore a prima vista” o “amore non corrisposto”. Tutti e tre i significati c’entrano con questa storia, per cui mi sembrava che questo titolo calzasse a pennello [attenzione, io NON conosco il rumeno, è tutto frutto di Wikipedia xD quindi se ciò non è vero, beh…non posso saperlo]. Ancora, richiamando inevitabilmente la canzone, riesce a dare una certa atmosfera truzzica, e pure questo si adatta al racconto.
2) I personaggi principali vengono dalla storia di una mia amica, una divertentissima accozzaglia di nonsense e crossover dei crossover. I due protagonisti sono Dante e Virgilio, che DERIVANO dai D&V della Divina Commedia, ma che si sono trasformati in TUTT’ALTRO; il primo è metallaro e il secondo truzzo (Nonciclopedia docet) e degli originali è rimasto solo il nome. In questo racconto, quindi, non pensate a loro xD sono due normalissimi adolescenti, e stop. Poi, sempre in questa storia della mia amica, Trunks (sì, proprio quello di Dragon Ball) è un amico di Dante, quindi ho deciso di sfruttare questo personaggio anche nella mia storia; ma anche lui è completamente snaturato, col Trunks dell’anime non ha nulla a che fare! Per cui immaginatevelo come vi pare, ma sappiate che non fa la parte del sayan xD
Avrei potuto semplicemente cambiare i nomi e scrivere una premessa in meno, ma non mi sembrava giusto =w=
3) Io non ho mai, MAI messo piede in una discoteca, quindi ho solo una vaga idea di come questi ambienti possano funzionare. Non ho mai avuto vicinanza con la cultura né tamarra né metallara, le ho sempre viste da fuori. Quindi in realtà scrivo di un argomento che non conosco affatto! XD E con toni decisamente coloriti, credo. Non penso che nella realtà la rivalità sia così accentuata, per cui prendetelo come un mondo decisamente romanzato per i fini della storia e basta XD

Scusate il papiro di presentazione, ma mi sembrava il caso di precisare.

Oh! Un’ultima cosa: ho scritto in un italiano abbastanza informale. È una scelta stilistica, quindi è voluto :3 buona (spero) lettura!




Il suo respiro era accelerato per l’eccitazione e la paura, il suo cuore batteva a mille. Si era trovato in quella stanza estranea, anonima, proprio assieme a lui. Il ragazzo gli era sopra e gli stava accarezzando il corpo nudo; gli mormorò qualcosa per tranquillizzarlo, doveva essersi accorto della sua agitazione. Chiuse gli occhi e girò la testa quando la sua mano calda arrivò a sfiorarlo nella zona più sensibile; sentiva il formicolio del sangue che si fondeva col tocco gentile di quel giovane sconosciuto. L’aveva visto solo una volta, non era giusto quello che stava succedendo…e cos’avrebbero pensato i suoi amici…?
Gli afferrò la mano per fermarlo, ma il ragazzo lo scostò adagio e lo sormontò completamente. «Ssssst...non avere paura…» sussurrò; dolcemente, ma con una punta di malizia.
Aveva gli occhi di un profondo color nocciola; lo vedeva bene, aveva il volto a pochi centimetri dal suo. Mentre si perdeva in quello sguardo, sentì che il ragazzo spingeva per entrare in lui.
«Aspe-» annaspò, irrigidendosi e chiudendo un poco le gambe; strinse i denti per tentare di sopportare la fastidiosa intrusione, mentre ancora una volta l’altro gli sussurrava qualcosa di non ben definito. Una lacrima gli solcò una guancia, non per il dolore, ma più per la forte emozione che stava provando; la goccia percorse la sua faccia andando a scivolare fin dentro l’orecchio. Si svegliò di soprassalto a causa di quest’ultimo, reale fastidio mentre, ancora addormentato, stava portando una mano al viso per asciugarsi.
Si ritrovò nel buio nero di camera sua, le tapparelle chiuse al massimo per evitare che la luce aranciata dei lampioni filtrasse attraverso la tenda. Il suo cuore ancora batteva forte. Sentiva la sua erezione pulsare ferocemente, e pure un certo bruciore al di dietro, quasi come se il sogno fosse stato reale. Si tamponò l’orecchio bagnato col lenzuolo, dandosi dell’idiota. “Ok, ok. Calmati. Era solo un sogno.”. Sospirò. “Certo che se arrivi a fare sogni del genere sei messo male, eh…”. È vero, aveva passato gran parte del suo tempo pensando a quel tipo, da sveglio. Ma arrivare a sognarlo così, no! Oltrepassava ogni decenza! L’aveva visto una sola volta per tre secondi e gli faceva questo effetto?!
Ripensò intensamente al sogno: era stato così reale…aveva potuto sentire il suo peso, il suo calore, aveva potuto toccarlo…essere toccato...ma la sua voce era veramente quella…? E gli occhi ce li aveva davvero di quel colore…? Ricadde con la mente nella scena, e la sua mano scivolò automaticamente dentro ai boxer, andando ad eccitare ulteriormente l’organo già sveglio, con una pratica che aveva scoperto non molto tempo prima. In poco meno di due minuti venne con uno sbuffo liberatorio, seguito subito dopo da uno smadonnamento: non aveva nulla per pulirsi. Era proprio cretino.
Corse in bagno e si asciugò con della carta, dandosi più volte dell’idiota e dello sfigato. Sospirò nuovamente: si vergognava moltissimo, del sogno e di quello che era venuto dopo. «Dante, sei un porco.» si disse guardandosi allo specchio, per poi distogliere lo sguardo, il viso rosso come un peperone.
Guardò l’orologio attaccato al muro: erano le 6. Aveva il tempo di sciacquare via l’imbarazzo con una doccia fresca prima di prepararsi per andare a scuola. Si denudò completamente e aprì l’acqua; fece pipì mentre aspettava che la doccia raggiungesse la temperatura giusta –ci metteva sempre un paio di minuti alla mattina–, dopodiché entrò nella cabina.
Dante non capiva cosa l’avesse colpito di quel ragazzo. Era stato un fulmine a ciel sereno, non gli era mai successo prima di allora. Di vista non aveva nulla di particolare, anzi: un truzzetto disprezzabile come tutti gli altri. No, l’aveva colpito la sua audacia. O la sua faccia tosta: in realtà non sapeva bene come chiamarla.
Era uscito con i suoi amici, tre sere prima. O meglio, con gli amici del suo migliore amico, Trunks. Quelli grandi. La maggior parte di loro era maggiorenne, lui l’avevano accettato un po’ come la mascotte del gruppo. Pareva si divertissero a mostrarlo in giro come una specie di trofeo: “un piccoletto che ha già capito tutto della vita”, così lo presentavano di solito. Ma cerchiamo di far capire la situazione: gli amici del suo migliore amico –e il suo migliore amico compreso– erano metallari. Di quelli seri, s’intende, tutti borchie, vestiti neri, capelli lunghi, birra e rutti. Era difficile trovare un ragazzino dell’età di Dante che non fosse un modaiolo, un tamarro o ancor peggio un emo, e oltre a queste cose nemmeno uno sfigato. Insomma, un ragazzo normale, direbbe qualcuno. E non appena “il piccoletto” (non che Dante fosse giovanissimo, il fatto è che dimostrava meno anni di quanti ne avesse in realtà, e all’apparenza sembrava poco più che un bambino) si era presentato una sera a casa di Trunks per rifugiarsi da una litigata coi genitori interrompendo una riunione e aveva dato evidenti segni d’apprezzamento per la musica, era stato preso sotto la metallica ala protettiva di quel gruppo di darkettoni. Ora aveva amici importanti e soprattutto fighi, per cui si sentiva un po’ importante e figo anche lui. Da qualche mese aveva iniziato a uscire con quella compagnia il sabato sera, trovandosi a casa di qualcuno di loro o in un pub per bere birra. Non aveva nemmeno l’età legale per bere birra, in realtà, ma non faceva niente, gliela ordinavano/offrivano lo stesso. Stava approfondendo la propria cultura musicale –verso il metal, inutile dirlo– e stressava la madre affinché la smettesse di comprargli vestiti ridicolmente colorati. I suoi genitori avevano presto notato il cambiamento del figlio e ciò portava spesso a discussioni, ma Dante aveva smesso di scappare di casa per cercare asilo: si chiudeva semplicemente in camera sua e faceva partire a tutto volume il lettore cd, sfogando la propria rabbia attraverso le emozioni che la musica gli dava, spesso stando in compagnia di uno dei suoi tanti ratti. Avrebbe anche voluto farsi crescere i capelli, ma da quel punto di vista la madre era incorruttibile, non gliel’avrebbe mai permesso; Dante l’aveva capito dopo quella volta che l’aveva trascinato di peso dal barbiere dopo che i suoi capelli avevano superato i venti centimetri di lunghezza, ordinandogli di contro un taglio tanto corto da farlo sembrare appena uscito dall’esercito. Si era sentito talmente ridicolo da non aver più il coraggio di superare i dieci centimetri, nonostante la cosa lo infastidisse un sacco.
Ma tornando a quella sera, uno tra i metallari più grossi e metallici del gruppo aveva proposto di fare un salto alla discoteca più vicina, idea accolta da grande approvazione. Dante all’inizio era rimasto alquanto perplesso, ma Trunks gli aveva spiegato che non sarebbero andati per entrare. Aveva pure detto che non era sicuro che fosse un programma della serata adatto a lui, e che forse avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa, ma un altro ragazzo aveva asserito che per Dante sarebbe stato un divertimento, e che sarebbe piaciuto anche a lui infastidire i discotecari. «Non si è veri metallari finché non si insulta un truzzetto.». Potremmo dilungarci spiegando che Trunks non era molto d’accordo con questa frase e che le sue idee a riguardo erano completamente diverse, ma faremo a meno.
Così, avevano passato la serata fuori da questa discoteca, prendendo di mira i ragazzi che passavano con battute con gradi di pesantezza diversi a seconda dell’abbigliamento e del modo di fare della vittima. Un divertimento piuttosto puerile, ma che li faceva sentire così fighi... Il più bravo e feroce era il Diama, diciannove anni e un metro e novantacinque per novanta chili (tutti muscoli e capelli). Già vederlo, grosso e nero, con addosso il suo cappottone in pelle lungo fino alle caviglie, metteva in soggezione i quindicenni la metà di lui; ma la sua abilità nell’insultare e nel ribattere li spiazzava completamente, facendoli defilare con la coda tra le gambe, umiliati. Dante se ne stava fieramente circondato da questi predatori scuri e sghignazzava ad ogni insulto seguito ogni volta da una diversa faccia arrabbiata od offesa. Lo affascinava il modo in cui, con un solo sguardo, riusciva a trovare il punto debole della preda e a ferirla con le parole giuste; per esempio, il modo migliore per offendere una ragazzina che si vestiva come una battona per dimostrare un’età maggiore di quella che aveva era sottolineare con crudeltà proprio la giovane età che stava tentando di nascondere. Se passava un gruppetto di ragazzi vestiti firmati dalla testa ai piedi, non si faceva altro che individuare il più debole (ovvero quello coi vestiti meno costosi) e iniziare a deriderlo sottolineando le differenze con gli altri per metterlo in difficoltà. Poi c’era chi faceva un gestaccio in risposta e se ne andava, e chi invece si accalorava e tentava di difendersi, e allora quella era la parte più divertente: smontare ogni sua convinzione su musica, vestiario, modo d’essere fighi e quant’altro. Era una soddisfazione migliore di qualsiasi orgasmo.
Era stato a metà circa di questa caccia al truzzo che si era avvicinato a loro, con passo veloce e deciso, un ragazzetto dall’aria combattiva che si era piazzato a gambe larghe davanti al Diama. Doveva avere più o meno l’età di Dante, aveva i capelli scuri tenuti leggermente su con del gel e indossava scarpe viola, jeans a vita bassa, un giubbottino azzurro evidenziatore aperto e sotto di esso una felpa di un altro azzurro sparaflash.
«La smettete?!» aveva sbottato, guardando tutto il gruppetto con cattiveria. «Che ci guadagnate a fracassare i maroni a tutti quelli che passano? Non avete nulla di più costruttivo da fare?».
«Uao, un nanetto che vuole insegnarci le buone maniere.» aveva ghignato divertito il Diama in risposta. «Cos’è, hanno mandato te perché agli altri del gregge non importa se diventi purè?». Evidentemente aveva deciso che doveva essere uno dei più bassi nella scala sociale truzza, e di dover mirare a quel punto debole. Ma il ragazzo non era sembrato essere toccato da quelle parole. Aveva fatto spallucce e risposto: «Sono venuto di mia iniziativa, perché mi state dando fastidio. State dando fastidio a tutti. Per cui andatevene.». Il Diama aveva allora rincarato la dose: «Ah, no, scusa, devi essere il cagnolino del capobranco. C’hai pure la medaglietta!» aveva detto, adocchiando al collo del ragazzino una catenina con una lastrina di metallo a mo’ di pendaglio su cui era inciso il suo nome. «Dietro cosa c’è scritto, il numero di telefono per riportarti dal proprietario?». Gli occhi del ragazzino avevano lampeggiato: «No, c’è scritto un promemoria per me: “pisciare sulla macchina del ciccione imbecille che mi sta davanti”.». Ecco, tutto si poteva dire al Diama, tranne qualcosa sulla sua macchina, che chiamava affettuosamente “la mia ragazza”. S’era inferocito all’istante, non era riuscito a rispondere ed era stato placcato da due suoi amici prima che potesse lanciarsi addosso al truzzo; quest’ultimo aveva fatto un balzo all’indietro, spaventato, ma non era scappato. Aveva ignorato i due che stavano tenendo il Diama che gli intimavano di sparire e aveva guardato il gruppo, continuando: «Vi portate dietro pure un bambino? Avrà al massimo tredici anni! Volete farlo crescere bene, vedo!». Dante aveva avuto un sussulto indignato e solo allora aveva parlato: «Veramente ne ho quindici. Da parecchi mesi.». L’altro l’aveva squadrato dalla testa ai piedi passandolo ai raggi X con un unico sguardo, come fanno le ragazze tra loro per cercare difetti e decidere chi è la più figa. «Scusami, ma non li dimostri proprio.». «Beh?! Crescerò! Non sono comunque affari tuoi!». Dante odiava quando glielo facevano notare, era già abbastanza umiliante senza che venisse sottolineato. Il ragazzo aveva aperto la bocca come per dire qualcosa, poi l’aveva richiusa. L’aveva fissato per qualche secondo e aveva mormorato qualcosa tra sé e sé. «Non diventare come loro.» aveva ripreso poi, quasi con tristezza. «Sei ancora in tempo per cambiare. Non ha senso prendersela con qualcuno solo per gusti musicali diversi.». «Hai anche il coraggio di chiamarla musica! Dante, lascialo stare.» aveva replicato Pab, un ventenne alto e magro, coi capelli neri e lisci come spaghetti. «E tu, sparisci!». Aveva preso il ragazzino per una manica, l’aveva trascinato per una decina di metri e poi spinto via violentemente. Questi aveva guardato un’ultima volta Dante da lontano e sputato per terra rabbiosamente prima di sparire all’interno della discoteca con la testa incassata fra le spalle.
Sembrerà idiota, ma Dante era rimasto particolarmente turbato da quell’incontro e non era riuscito a godersi il resto della serata. Mentre rideva come un mona alle battutacce dei suoi amici, una parte soffocata di coscienza tentava di dargli fastidio punzecchiandolo nell’intimo: era giusto fare cose del genere? Era davvero divertente o era un passatempo semplicemente cretino? Ebbene, l’intervento di quel ragazzino era riuscito a mettergli dei dubbi. Forse non ci sarebbe riuscito se fosse spuntato fuori alla seconda, alla terza volta in cui Dante partecipava ad una serata del genere. Forse, se il gioco non avesse avuto intoppi, la mattina seguente sarebbe stato convinto d’aver passato la notte più divertente che si ricordava. Ma non era andata così, e Dante si chiedeva allora se non sarebbe stato meglio restare al William Wallace ad ascoltare i divertenti aneddoti dell’università  del Pab, piuttosto che vederlo spingere via un ragazzo che stava dicendo cose del tutto legittime. Era turbato soprattutto dal fatto che, prima d’allora, mai avrebbe creduto di poter trovare un ragazzo di quel genere capace di rispondere sensatamente. Gli era crollato in mito del truzzo idiota senza cervello. Ma c’era qualcos’altro. Non capiva nemmeno lui cosa l’avesse preso, ma aveva un terribile bisogno di rivederlo e parlargli. Non gli piaceva l’idea di avergli detto tre parole sbottando…sentiva che avrebbero potuto avere una conversazione più articolata.
Chiuso nella doccia, con l’acqua tiepida che gli scivolava addosso, Dante si preoccupava di dare un senso al sogno. Sapeva già di essere attratto dai maschi, ormai da un paio di anni. Ne aveva pure già parlato con Trunks, che si era rivelato molto disponibile e comprensivo. Ma mica poteva dirsi attratto da quel tizio! L’aveva visto giusto per un minuto, non funzionava così! Ma perché sentiva quel bisogno di rivederlo, conoscerlo? Perché aveva quello strano formicolio alle mani quando pensava a lui? Ma insomma!! PERCHÉ MAI doveva pensarci, a lui??! Si diede uno schiaffo: “Basta, devi finirla!”.
Uscì dalla doccia, si asciugò, andò in camera a vestirsi e coi capelli ancora umidi s’infilò con la colazione nella stanza delle gabbie, di fianco alla sua. «Ciauuu piccoli!» miagolò entrando. Una quindicina di ratti lo fissò e corse alle sbarre, mettendo il musetto fuori per salutarlo. «Ciao, Dante!» si rivolse a un ratto che stava da solo in una gabbia, grosso il doppio di un ratto normale e col pelo arancio e gli occhi rubino.
Dante (l’umano) allevava ratti. Si divertiva a pasticciare con la genetica e a vedere cosa veniva fuori dai vari accoppiamenti; ne vendeva pure qualcuno, ma non era quello il suo fine primo; quella era una vera e propria passione, a cui si dedicava ogni giorno con zelo. Ogni mattina faceva colazione col suo ratto preferito, il primo che avesse mai avuto, a cui aveva dato il suo stesso nome e che gli era sempre addosso quando era a casa. Mentre divideva qualche biscotto e un po’ di latte con lui lo aggiornò riguardo ai suoi pensieri, di cui già l’aveva messo al corrente i giorni precedenti, chiedendogli consigli e ottenendo in risposta rumore di sgranocchio e una leccatina. “Mangia e ama senza pensieri, sempre”. Un ottimo consiglio, non c’è che dire. 

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