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Autore: Glenda    10/09/2007    1 recensioni
Lethia Ballard fa l'investigatrice virtuale e viene ingaggiata da una potente corporazione per un incarico delicato: trovare e intrappolare uno scissista, ovvero un pericoloso hacker dotato di poteri esp, che riesce a vagare nella rete scindendo la propria mente dal corpo. Ma l'incontro con Kevin Lockport è diverso da come lo immaginava e l'uomo le rivela qualcosa di completamente inaspettato...Dove porteranno le indagini di Lethia? E cosa c'entra in questa faccenda di inganni e potere l'ingenuo ragazzo biondo uscito da un lungo coma, che fa l'antiquario in una bottega che pare fuori dal mondo e dal tempo? Giallo cyberpunk con elementi sovrannaturali. VERSIONE RIVISTA E CORRETTA DELLA FAN FICTION POSTATA LA PRIMA VOLTA NEL 2007.
Genere: Science-fiction, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo 7

 

"E così ti chiami Dewy..."

"Si...e lei?"

"Io sono Lethia. Ti senti meglio, adesso?"

"Molto meglio. Non so proprio come ringraziarla...Io le ho combinato un guaio enorme e lei invece mi difende..."

In verità, Lethia non capiva cosa l'avesse spinta a schierarsi dalla sua parte: forse gli aveva fatto tenerezza perché lo aveva visto star male, forse perché detestava lo sfruttamento, o forse semplicemente perché quello stranito ragazzo biondo era davvero l'individuo più grazioso che avesse mai visto. Aveva qualcosa nello sguardo e nel modo di parlare che trasmetteva una sensazione di profonda gradevolezza, e lei non era solita trovare piacevole la presenza altrui.

"Temo che mi licenzierà..." sospirò Dewy

"Non ne vedo il motivo. Ci sono molti modi per evitare quel tipo di interferenze: basta che tu vada da un buon tecnomedico..."

"Capisco..."

"Ma tu non ci sei andato. Perché...?"

Il ragazzo si guardò le ginocchia, con aria colpevole.

"Io non...non ho detto a mio padre che lavoro. Se lo sapesse, non me lo permetterebbe, e noi abbiamo bisogno di soldi. Quando avrò il primo stipendio, mi farò risolvere il problema..."

"Ma che razza di stupido...!" esclamò lei, con tono brusco "potevi caderci tu, da quel carrello, invece dello spazzolone!"

"Già..." sospirò lui.

Senza sapere perché, Lethia si sentì rimescolare lo stomaco. Avrebbe voluto che Dewy le rispondesse in qualche modo, magari dicendole di farsi gli affari propri: invece quella ammissione dimessa l'aveva spiazzata. Cosa aveva quello strano tipo per scatenare simili reazioni in lei? Era come se la persona che aveva di fronte avesse deciso di non innalzare alcuna barriera protettiva attorno a sé, e le si offrisse completamente vulnerabile, completamente inerme, senza provare alcuna paura.

"Senti un po'..." riprese con più dolcezza "perché hai quell'impianto nella testa?"

"E' un impianto di contenimento..." rispose lui "o almeno, così mi hanno spiegato in ospedale. E' servito a fermare l'emorragia che ho avuto al cervello. Mi hanno operato evitandomi la morte: poi ho dormito per quattro anni"

"Dormito...? Cioè sei stato in coma?"

Dewy fece un largo sorriso, che gli illuminò il volto.

"Si. Ma adesso sono qui, e sono vivo: non è fantastico?"

Lethia non aveva mai visto un uomo sorridere a quel modo. Era il sorriso di un ragazzino, ma aveva dentro la convinzione di un adulto. Per un attimo le parti le sembrarono rovesciate, e lei sentì di essere la più fragile fra i due. Desiderò poter protrarre ancora per un po' quella strana sensazione.

"Se vuoi ti accompagno a casa: sono sicura che ti gira ancora la testa"

"Lei è proprio gentile...!"

"Vuoi smettere di darmi del lei? Guarda che non sono tanto più vecchia di te!"

Dewy si fece rosso in viso e si affrettò a correggersi.

"No, no...che va a pensare? Solo che lei...emh...che tu sei così elegante che mi sento a disagio! Qui a Seaside corner siamo gente..." non trovò le parole e allargò la braccia, mostrando la salopette sdrucita "...gente così!"

Gente così...ripetè Lethia nella sua testa. Anche lei era stata tra la "gente così", un tempo.

Ma non aveva mai avuto quel sorriso.

 

Lethia entrò nell'officina Hollis con gli occhi spalancati per lo stupore: varcare quella soglia era come tornare indietro di un secolo. I mobili di legno, le tapparelle manuali, le tende di stoffa alle finestre, le mattonelle decorate e i lampadari che sembravano usciti da un vecchio film!

“Noi facciamo gli antiquari” spiegò Dewy “Io sono solo un restauratore, mio padre invece è capace di riprodurre qualsiasi cosa tu gli chieda!”

Abrahm si schermì, grattandosi la testa

“Beh, non proprio tutto...ma se Dewy mi avesse avvertito che portava ospiti, le avrei fatto trovare volentieri un thé servito in un set di tazze liberty!”

“E quale delle due cose è il pezzo d'antiquariato: le tazze liberty o il the?” scherzò Lethia, abituata alle buste solubili che con un vero the non avevano nulla a che fare.

Dewy spostò galantemente la sedia per lei.

“Entrambe, ovviamente...!” sorrise, e, da una credenza che avrebbe potuto trovarsi nella casetta di Biancaneve, tirò fuori una teiera col beccuccio, in metallo rosso brillante.

“Carina, vero? E' una delle poche riproduzioni che ho fatto io! Funziona anche il fischietto!” e le indicò col dito la piccola valvola a pressione “...e tu invece? Nella vita cosa fai?”

Appoggiò i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, come un bambino che si dispone ad ascoltare una favola: aveva dei modi così infantili! Non riusciva nemmeno a dargli un'età...eppure, era chiaro che non era più un adolescente. Per qualche attimo rimase ad osservarlo e non rispose alla domanda.

“Cosa faccio...?”

Socchiuse gli occhi, tormentandosi una ciocca di capelli.

“Non è semplice da spiegare. Diciamo che mi occupo di investigazioni in rete...”

“Ovvero, lavora nella Brain Watch?” si intromise Abrahm.

“No, opero nel privato: recuperi di coscienza, per lo più...”

“Cos'è un recupero di coscienza?”

“La spiegazione tecnica sarebbe complessa, signor Hollis. Da quel che mi chiede, immagino che lei non abbia mai fatto uso di realtà virtuali...”

“Per carità! A me piacciono le cose vere, non queste porcherie informatiche!”

Dewy ascoltava la conversazione attento e silenzioso.

“Quando un utente interagisce con una realtà virtuale in modo non corretto, come superando un certo limite di tempo o collegandosi in condizioni di salute non idonee, o, ancora, in caso di programmi difettosi, può andare incontro ad una serie di controindicazioni. Tra le più gravi vi è lo smarrimento in Zeus: in parole povere, è come se la coscienza perdesse la strada per ricollegarsi all'individuo, così la mente non è più in grado di dare il comando d'uscita dal sistema. Il mio compito è quello di ristabilire questo collegamento...”

Il fischio della teiera fece voltare la donna verso il fornello: quando i suoi occhi tornarono sugli interlocutori, incrociarono quelli del ragazzo, che erano fermi su di lei.

“E' un lavoro molto bello...” disse, con voce lenta e dolce “...perché, allora, il tuo sguardo è così vuoto?”

 

Lethia non riusciva a credere a quel che stava facendo.

Era come se un fiume in piena avesse rotto gli argini e adesso dilagasse feroce su una città arida, distruggendo tutto ma restituendo vita alla terra.

Cosa riusciva a fare quel ragazzo? Perché sembrava che le leggesse la mente e ne tirasse fuori i tarli, senza che lei riuscisse ad opporre resistenza?

Dewy Hollis le faceva paura: non riusciva a difendersi da lui.

Ma al tempo stesso lo sentiva indifeso.

Le sue parole si mettevano insieme da sole, quasi senza la sua volontà.

“Mio padre era un pastore protestante, mia madre una religiosa fanatica che lo aveva sposato più per il suo ruolo che per amore: se le cose fossero andate come nei loro sogni, adesso avrei dovuto essere una buona mamma e una buona moglie con tanti figli da crescere nell'insegnamento del vangelo. Ma la storia non si fa coi “se”. All'età di quattro anni mi regalarono una fiaba virtuale: fu la prima volta che entrai nel sistema. E fu da lì che cominciarono le “voci”. All'inizio erano come un brusio confuso...mi sembrò che il computer mi parlasse la trovai una cosa divertente. Poi mi accorsi che non c'era nulla di cui divertirsi, perché le voci erano persone vive. Persone che parlavano, persone che piangevano, persone che bestemmiavano, che ridevano, che gridavano, che avevano paura...e tutte si riversavano nella mia testa, sempre più forti, tante da non poterle sostenere. Eppure io ero tremendamente attratta da loro: sentivo che mi cercavano, che mi chiedevano aiuto, che non potevo ignorarle. Nè i miei genitori né i medici compresero cosa mi succedesse: continuavo a ripetere parole non mie, a dire che dovevo salvare qualcuno, ad avere crisi di rabbia se mi impedivano di entrare in zeus. Mi diagnosticarono una forma di schizofrenia e fui messa in una casa di cura. Ma non fui io ad impazzire...fu mia madre. Si convinse che ero stata maledetta dal diavolo e non volle più vedermi. Passai in quel buco d'ospedale dieci anni della mia vita, finché uno psichiatra più lungimirante riuscì a comprendere come stessero le cose: la mia mente non era malata, tutt'altro: possedeva una capacità paranormale di entrare in contatto con le menti altrui attraverso la rete. Mi illusi che l'incubo fosse finito e che sarei tornata a casa...ma mia madre non voleva che una bambina baciata dal demonio vivesse sotto il suo stesso tetto. Mio padre diede il consenso ad una equipe di medici di portate avanti una serie di studi sulle mie facoltà. Chissà, forse era il suo modo di lasciarmi in mani sicure. O forse quello di liberarsi di me. Ma io non lo permisi. Scappai...mi rifugiai nei bassifondi, e usai il mio potere per sopravvivere. Mi unii ad una banda di teppisti e truffatori e rimasi con loro fino a vent'anni, quando ci presero tutti e ci sbatterono in galera, con una condanna a dieci anni per crimini in rete, aggressione e tentato omicidio. Sarei ancora lì se la WePi non si fosse interessata al mio potere. Uscii di prigione grazie all'intercessione del dirigente, a condizione di un contratto vitalizio con l'agenzia. Non avevo nulla da perdere, solo tutto da guadagnare: sarei stata fuori da quel lurido carcere, avrei vissuto in una casa nella capitale, averei avuto soldi, prestigio. Sono con loro da sette anni, sono una dei loro migliori agenti: posso aiutare la gente e posso tradirla. Posso salvare coscienze diperse e posso incriminare giovani hacker disperati come un tempo sono stata io. Non sta a me scegliere. Io sono la ditta...”

Il ragazzo la fissava immobile.

Dalle tende traforate della piccola stanza da letto, la luce filtrava intagliando un motivo floreale sul terreno.

Quel posto era fermo, antico, calmo.

Il sole stava tramontando.

“Tu non sei la ditta. Non si può”

Dewy si alzò e aprì un cassetto, da cui estrasse due fermacarte di legno, perfettamente identici.

“Ti piacciono?” sorrise, tendendoglieli entrambi.

Lethia rimase sorpresa, ma prima che potesse aprire bocca, lui continuò.

“Sono un regalo per te! Uno è originale, ha un secolo di vita, l'altro l'ho fatto io...”

“Sei bravo, non saprei distinguere il vero dalla copia”

“Oh, io invece sì!”

Le prese le mani e glieli piazzò sui palmi: uno sul destro, uno sul sinistro.

“Guarda bene l'angolo in alto...uno dei due ha una lieve scalfitura, procurata chissà come e chissà da chi, nei suoi oltre cent'anni di esistenza” con un dito, indicò il punto esatto “se avessi voluto, avrei potuto riprodurre anche quel graffio...anche quella piccolissima imperfezione. Ma avrei saputo distinguerli ugualmente. Perché la mia scalfitura non porta con sé l'evento che l'ha provocata...”

Pose le proprie mani al di sotto di quelle di lei, come se volesse sorreggerle, o forse scaldarle.

Guardò fuori dalla finestra, con aria assorta.

“Non si può riprodurre l'arte. Non si può riprodurre neppure un vecchio rottame. Noi che per mestiere facciamo riproduzioni, possiamo sentirlo meglio degli altri. Per quanto io possa essere bravo, metterò sempre qualcosa di mio in ciò che faccio. E non è né una cosa bella, né una cosa brutta. Semplicemente, è così...”

Riportò gli occhi su di lei e Lethia si sentì invadere da uno sguardo caldo, accogliente.

“Allo stesso modo, tu non puoi essere la ditta. Nè se lo volessi, né se non lo volessi. Perché qualunque cosa tu faccia, deve passare attraverso di te...”

Lasciò le sue mani e d'improvviso arrossì vistosamente.

“nah, accidenti! Ora che ci penso questo discorso non è affatto incoraggiante, perché ti rovescia addosso un sacco di responsabilità...! Che disastro!”

Abbassò gli occhi e fece una faccia colpevole d'una ingenuità disarmante.

Lethia scoppiò a ridere di cuore: lo trovava veramente adorabile.

“Ma dai! Hai detto una cosa molto bella, invece: credi che niente sia sostituibile”

Alla frase di lei, Dewy fece di nuovo quel suo sorriso strano.

“Già. Nessunoè sostituibile!” esclamò.

 

Era sera, quando Lethia lasciò casa Hollis. Aveva passato la giornata più bizzarra della sua vita, e si sentiva dentro una strana leggerezza.

“Torna a trovarmi, per favore!” la pregò Dewy con assoluta spontaneità.

“Tornerò certamente...ma in quell'occasione voglio assicurarmi che tu ti sia preso cura della tua salute”

“Promesso. E scusa ancora per la macchina...”

“Un giorno me ne riprodurrai una d'epoca...”

Si guardarono a lungo in silenzio, poi lei risalì sulla vettura.

  
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