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Autore: Artemis Black    24/02/2013    3 recensioni
Quando si girò, per poco non mi prese un infarto: sembrava uno di quei modelli che sfilavano per Dolce & Gabbana, con tanto di gelatina sbrilluccicosa in testa e due fari blu al posto degli occhi.
Terra chiama Jess! Svegliati imbecille!
“Ehm, ti serve una mano?” gli chiesi, svagando con gli occhi.
Aveva due bicipiti che mi impedivano di guardarlo negli occhi.
“Signorina, non mi sembra il caso.” Rispose gentile.
“Crede che una donna non sappia riparare un qualsiasi veicolo? E’ maschilista per caso?” gli chiesi incrociando le braccia sul petto.
La stavo prendendo sul personale. Esatto.
“No, mi scusi. È che le donne solitamente non riparano motori, ma se lei è così sicura… prego!” mi disse gentilmente. [dal primo capitolo]
Piccola storia sulle avventure sentimentali di Steve Rogers :)
Genere: Commedia, Demenziale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 3: You won’t get much closer, till you sacrifice it all.


[Un mese dopo…]
 
La voce del cantante dei 30 Seconds to Mars risuonava in tutta la casa, mentre io cucinavo la cena da brava coinquilina. In realtà stavo semplicemente scartando l’ordinazione del ristorante cinese, ma poco importava.
Non lo sentii entrare perché la musica era veramente molto alta e quando mi girai per prendere dei tovaglioli me lo ritrovai davanti e per poco non svenni.
Era vestito di una tuta grigia e nera e portava i capelli scompigliati e sudati. Sicuramente era andato ad allenarsi in palestra.
“La musica non sarà un tantino troppo alta?!” mi disse sorridendo.
Prese una fetta di pane di riso e l’addentò.
“Come vuoi, vecchietto.” Gli dissi, girandogli intorno per andare a spegnere lo stereo.
Avevo scoperto chi era veramente e tutti i miei perché sulla sua galanteria d’altri tempi furono chiariti: era Capitan America, l’uomo che viveva nella leggenda, che aveva più di ottant’anni ma ne dimostrava solo trenta. Lo avevo scoperto circa una settimana dopo essermi trasferita nella sua casa. Ero in cerca di asciugamani grandi, per potermici avvolgere dopo una doccia e mentre rovistavo tra i vari cassetti, andai a finire nella sua camera, ultima spiaggia dove andare a cercare.
Avevo aperto i cassetti del mobile con discrezione, non volevo frugare tra le sue cose, ma avevo bisogno di un dannato asciugamano. Mentre alzavo pile di magliette e canottiere, scivolò a terra un fascicolo marrone scuro con dentro molti fogli.
Lo raccolsi, ma nel farlo i fogli si sparpagliarono sul pavimento, rivelando una sua foto in divisa a stelle e strisce. In un primo momento pensavo fosse un fotomontaggio, poi ripresi tutto alla rinfusa e lo rimisi nel cassetto… ma la curiosità era tanta.
Così la sera, quando lui tornò a casa, io ero in sala seduta sul divano con il fascicolo poggiato accanto a me.
“Non volevo, ma stavo cercando una cosa ed è saltato fuori. Scusa se ho ficcato il naso nelle tue cose ma non era mia intenzione.” Dissi, martorizzandomi le mani per il nervoso.
All’inizio asserì, ma poi mi spiegò tutto con calma e disse che non importava se io ormai lo sapevo. Ma dovevo tenerlo segreto. Per i giorni seguenti, tra noi regnò un silenzio surreale e lui mi evitava, uscendo di casa presto e ritornando tardi.
Finché un giorno non mi svegliai alle 5, gli preparai una colazione da re e piombai in camera sua , sedendomi u un lato del letto.
“Non puoi evitarmi adesso.” Gli avevo detto svegliandolo.
Lui rise e disse che ero buffa e dolce, facendo così colorare le mie guance di rosso.
“Ti ho preso il pollo alle mandorle, come mi avevi chiesto.” Gli dissi, porgendogli la confezione.
Lui si mise un asciugamano intorno al collo e prese la confezione.
“Che hai fatto oggi?” mi chiese, mentre si impiccava per prendere il boccone con le bacchette.
“Sono andata a cercare un altro lavoro e l’ho trovato!” dissi trionfante, mentre mangiavo un involtino primavera.
“Però… mi faresti un favore?” gli chiesi, facendomi piccola piccola.
“Certo, dimmi.” Mi rispose.
“Potresti venirmi a prendere alla fine del turno? All’andata ci posso andare con i mezzi, ma al ritorno stacco alle 2 di notte.” gli chiesi cortesemente.
“Certo! Non ti lascio vagare di notte da sola.” Disse sorridendo.
Ok, stavo per avere un infarto ma dettagli.
“Grazie!” gli dissi a quarantadue denti.
“Dov’è che vai a lavorare?” mi chiese mentre si puliva la bocca.
Quelle labbra così invitanti…
Terra chiama Jess! Ehi, datti una regolata ragazza!
“In un bar. Mi prendono in prova e se vado bene mi danno il lavoro.” Dissi, finendo di mangiare.
“Bene, bene… dopo settimane in cerca di lavoro, finalmente qualcosa!” disse.
Poi si alzò e mi disse che si sarebbe andato a fare una doccia calda.
Io rimasi in cucina a pulire e buttare i rimasugli della cena. Presi l’ipod dallo stereo e misi le cuffie: nelle mie orecchie esplosero i Linkin Park con New Divide.
Cominciai a ballare in mezzo alla cucina, mentre la sistemavo e davo una pulita. Poi presi una mela e l’addentai senza pensarci due volte. In pochi morsi la finii e finalmente il mio stomaco fu sazio.
Saltellando andai in salotto per prendere il mio libro e tornare in camera e quando mi girai mi scontrai con qualcosa di più alto di me e il tappeto scivolò sotto i miei piedi, facendomi cadere di sedere.
“Ahi ahi!” dissi imprecando.
Quando alzai lo sguardo mi ritrovai uno Steve piegato in due a ridere.
“Che ti ridi, capitan ghiacciolo?!” gli dissi, facendo la finta arrabbiata.
Lui mi guardò storto.
“Non chiamarmi con quel nomignolo. Lo odio.” Disse puntandomi un dito, cercando di non ridere.
“C-a-p-i-t-a-n g-h-i-a-c-c-i-o-l-o.” dissi, facendo lo spelling.
“Come osi?!” disse e si avventò su di me, facendomi il solletico.
Risi come una matta, fino a farmi mancare il fiato e a colpire Steve sul naso.
“Sta attenta!” mi disse. Io feci finta di niente e mi alzai, ma la sua mano mi tirò indietro, facendomi cadere su di se.
Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono e l’elettricità nell’aria esplose: i suoi occhi blu cielo erano brillanti e imbarazzati, ma subito dopo si addolcirono e un lampo veloce di malizia li attraversò. I miei erano spalancati e sconcertati, ma poi si chiusero lentamente, fino a che non piegai la testa per poggiarla sul suo petto. Mi sentivo protetta e cullata tra quelle braccia così forti ma allo stesso tempo delicate nei movimenti. Mi accarezzò i capelli e disegnò cerchi invisibili sulla mia schiena, facendomi venire i brividi.
Non era la prima volta che avevamo un rapporto così ravvicinato, fatto di piccole carezze e tocchi delicati: qualche giorno prima, io mi trovavo in cucina a preparare un omelette e lui volendone assaggiare un pezzo, poggiò una sua mano molto delicatamente su un mio fianco e prese un boccone dalla forchetta. Poi si accorse del gesto e ritrasse la mano imbarazzato. Anche se io con un’occhiata gli feci capire che non mi aveva dato fastidio.
Ma adesso… eravamo abbracciati, distesi a terra a beare di quel piccolo momento di tenerezza fuori dal tempo. Poi i ricordi presero a girare vorticosamente nella mia testa e non riuscii a trattenerli e si riversarono tutti fuori.
Mi alzai di scatto dal suo petto e balbettai qualcosa sul tardi e che era ora di andare a letto. Poi mi precipitai in camera da letto e mi chiusi la porta dietro.
Presi un grande respiro e cercai di cacciare via quei flashback così violenti.
Un nodo alla gola mi impediva di deglutire e tutto quello che feci, fu stendermi sul letto e piangere fino ad addormentarmi.
 
“Smettila! Mike, fermati!” gli urlò contro Jonathan.
Ma Mike lo spinse via dalla stanza e chiuse la porta.
“Puttana! Stronza! Sei solo una puttana!” mi urlò contro.
Mi prese per il collo e mi tirò su dal letto. Mi ficcò la lingua in bocca, ma quando io gliela morsi e tentai di allontanarlo lui mi colpì in faccia. Nel frattempo Jonathan sbraitava dietro la porta, ma non riuscivo a capire che diceva per quanto ero stordita.
Mi strappò la maglietta di dosso, tentò di togliermi i pantaloni, ma con un calcio in mezzo alle gambe lo feci allontanare. Mi misi in piedi e raggiunsi la porta, cercando di reprimere il dolore che mi attraversava l’addome.
“Dove vai?!” mi urlò.
Gli chiusi una mano nella porta, poi scappai. La polizia fece irruzione nella casa, Jonathan mi prese da parte e mi abbracciò forte. Gli misero le manette, lo portarono via. Dopo di loro entrarono due paramedici, mi tastavano ovunque, controllavano le ferite e le tamponavano. Poi all’improvviso persi i sensi.
 
Mi svegliai di soprassalto ed annaspai in cerca d’aria.
Riuscii a calmarmi soltanto dopo aver constato che mi trovavo nella camera degli ospiti di Steve.
“Merda…” sussurrai. Mi lasciai cadere pesantemente sul cuscino, poi decisi di alzarmi ed andare a prendere un bicchiere d’acqua.
Feci meno rumore possibile nell’aprire la porta ed andare in cucina. Non volevo svegliare il capitano.
Buttai giù due bicchieri d’acqua e uno di vodka.
“Riuscirò mai a liberarmi di questi maledetti ricordi?” pensai.
Poi notai una figura sdraiata sul divano: era Steve, si era appisolato con un braccio sugli occhi e uno sull’addome. Sul tavolino lì vicino c’era un block notes pieni di fogli scomposti.
Lo presi e mi sedetti sulla poltrona opposta al divano.
Erano disegni di persone, luoghi e animali… ed erano tutti bellissimi.
Aveva un tratto leggero ma deciso e le figure parevano quasi prendere vita. Ce ne era uno che raffigurava una ragazza con i capelli mori e boccolosi, le labbra grandi probabilmente rosse e gli occhi scuri. Era un primo piano, ma si notava il colletto di una divisa appena accennato.
“Che sia Peggy?!” pensai. Era uguale alla foto in bianco e nero che c’era nel fascicolo di Steve.
Richiusi il block notes e lo rimisi al suo posto, poi andai a prendere una coperta e lo coprii, facendo cura di non svegliarlo.
 
La metro era abbastanza vuota anche se erano le 7 di sera.
Il mio fedele iPod mi teneva compagnia e nelle mie orecchie risuonavano i Paramore con Brick by Boring Brick. Una vecchietta si era appisolata sulla spalla di un ragazzo di colore che aveva i dread e i piercing al naso e alla bocca. Un signore poco distante da me leggeva il giornale, mentre un barbone contava gli spiccioli e scuoteva la testa.
Una voce meccanica annunciò la fermata. Presi la bora e scesi.
Il locale non distava molto dalla fermata, infatti ci impiegai dieci minuti ad arrivare.
“Cerco Dean.” Dissi ad uno dei baristi.
“Sei quella nuova?” mi chiese un ragazzo alto, con i capelli biondo cenere e gli occhi scuri.
“Si, comincio oggi.” Gli risposi.
“Vieni, ti faccio vedere dove puoi lasciare la borsa e cambiarti.” Mi rispose.
“Cambiarmi?!” chiesi. Forse intendeva darmi una grembiule!?
“Si, non lavorerai qui. Ma nel locale dietro.”
Mi portò davanti una porta anti-incendio color rosso scuro e poi l’aprii.
“Ma… non era questo quello che intendevo fare.” Dissi fermamente.
“Il lavoro è questo. Se ti comporti bene, Dean ti pagherà molto profumatamente.” Disse.
 
Steve si fermò davanti al locale alle 2 di mattina, proprio come Jess gli aveva chiesto.
Aspettò cinque, poi dieci ed infine mezz’ora, ma di Jess nessuna traccia.
Smontò dalla sella ed entrò nel pub. C’era poca gente rispetto alle tante auto parcheggiate fuori.
Si guardò intorno, ma non c’era traccia della ragazza.
“Ehi! Scusa, sto cercando Jess.” Chiese al ragazzo con i capelli biondo cenere e gli occhi scuri.
“Chi?!” chiese a sua volta.
“Media altezza, capelli biondi, occhi chiari…” mimò Steve.
“Aaaah, ho capito amico.” Gli fece un cenno e lo portò davanti ad una porta rosso scuro.
“Sei uno sbirro?” gli chiese, con un’occhiataccia.
Steve non capì, ma gli rispose di no.
Il ragazzo aprì la porta e lo lasciò da solo.
C’era un altro locale dietro quella porta, pieno di gente e ragazze poco vestite.
Steve si arrabbiò e strinse i pugni mentre cercava Jess tra le ragazze vestite a malapena da un costume da coniglietta o da gatta.
La vide mentre portava un vassoio colmo di drink ad un tavolo pieno di uomini. Aveva un body nero di pelle, un paio di tacchi vertiginosi e delle orecchie da gatto tra i capelli scompigliati.
Era dannatamente bella… ma Steve scacciò via quel pensiero e l’afferrò per un polso.
“Che ci fai qui?” gli chiese sbalordito.
“Steve!” disse lei sorpresa. Controllò l’ora guardando l’orologio affisso su un muro.
“Vieni via, adesso.” Disse Steve.
Lei corrucciò le sopracciglia e balbettò qualcosa, andando a prendere la borsa.
 
Neanche ebbe il tempo di cambiarsi, perché Steve la trascinò via da quel posto.
“Mi fai male!” gli dissi.
“Scusa…” disse, lasciandomi il polso.
“Ma come ti è saltato in mente di lavorare in un locale del genere?!” sbottò lui.
Rimasi sbalordita per il modo in cui me lo disse.
“Non lo sapevo… sul volantino c’era scritto barista.” Dissi balbettando.
“Si certo…” rispose, poi si infilò il casco e me ne diede uno anche a me.
Mentre tornavamo a casa, ripensai a tutto quello che era successo e del modo in cui Steve si era rivolto a me.
“Non puoi trattarmi come una bambina in quel modo! Mi serviva un lavoro per guadagnare!” gli dissi appena entrammo a casa.
Lui si girò sconvolto e mi puntò un dito.
“Eri in uno Strip Club dannazione!” disse.
“E allora?! Stavo lavorando?!” gli urlai contro.
 “Secondo si può chiamare lavoro quello che stavi facendo? Eri mezza nuda dannazione!” mi rispose.
“Esagerato. Sei tu quello antiquato tra i due.” Gli dissi a denti stretti.
“E tu sei quella che si spoglia per pochi spiccioli!” mi disse.
Mi aveva dato della poco di buono, in poche parole. Serrai i pugni e cercai di trattenere le lacrime che stavano affiorando.
Scappai in camera, presi il mio zaino e ci buttai dentro tutte le mie cose presa da un raptus di rabbia.
“Che stai facendo?” mi chiese Steve sull’uscio della porta.
“Me ne vado!” gli urlai.
“Ferma, fermati!” mi disse, poi mi bloccò le braccia in un abbraccio.
“Tu non capisci! Non puoi capire!” gli urlai.
E continuai a muovermi per liberarmi, mentre lui mi teneva sempre più stretta a se.
“Io voglio solo essere felice…” dissi a singhiozzi.
“E chi te lo impedisce?” mi chiese dolcemente, mentre mi spostava una ciocca di capelli dal viso.
“Mike.” Dissi con un filo di voce.
Gli raccontai tutta la storia, tutta d’un fiato, mentre mi puliva il viso dalle lacrime.
Lo vedevo stringere i pugni ogni tanto, mentre la mandibola era serrata.
Una volta finito di raccontare, mi tolsi il body nero e gli mostrai il tatuaggio che nascondeva la ferita sull’addome: una fenice nera con le ali spiegate era disegnata tra l’addome sinistro e il fianco. Anche se il livido non si vedeva più, quello era per me un simbolo.
“La fenice rinasce dalle ceneri…” disse sottovoce Steve.
Annuii.
Toccò il tatuaggio, lasciando una scia di fuoco sulla mia pelle. Disegnò i contorni delle ali e poi mi afferrò dolcemente per i fianchi.
Mi attirò a se e avvicinò le nostre bocche, riuscivo a sentire il suo fiato caldo.
Poi le sue labbra morbide furono sulle mie. 

_______________________________________
Eccomi qui con il terzo capitolo :)
Per quanto riguarda il viaggio di Jess da casa Roger al lavoro, non ho specificato bene la posizione in quanto non sono mai stata a New York e non so neanche come funzioni la metro lì, quindi è tutto naturalmente inventato da moi.
Spero vi sia piaciuto il capitolo ed anche che la storia continui a soddisfarvi.
Per qualsiasi cosa vi lascio la mia pagina efp
Fatemi sapere la vostra con una recensione, grazie :D
A presto,
Artemis Black

  
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