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Autore: Sibilla Cooman    11/09/2007    2 recensioni
Carolyna è una comune ragazza del quindicesimo secolo chevede la sua vita distrutta dalla caccia alle streghe. Accetto sia commenti positivi che negativi, anche perchè questa è una storia a cui tengo molto. Buona lettura!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Carolyna

Ricordavo ancora mia mamma, con quel grembiule bianco, sporco di terra e sgualcito alla fine.

Quando la mattina presto, mentre sorgeva il sole, apriva tutte le porte ed ogni finestra, facendo entrare in casa l’odore dei fiori e del pane appena sfornato da Jean, il panettiere del paese.

Quando io, alta poco più di un soldo di cacio decidevo di aiutarla a strappare le erbacce, ma l’erba era troppo alta, ed io finivo sempre col beccarmi l’orticaria, e lei, quando mi vedeva entrare in casa tutta arrossata, rideva e mi stringeva tra le braccia, rimproverandomi sempre della mia stupidaggine; dopodichè, prendeva un barattolo dallo scaffale più alto e mi spalmava a dosso la sua crema maleodorante, preparata da lei stessa.

Oppure, quando la sera si metteva davanti allo specchio, scioglieva i lunghi capelli biondi e, mentre se li pettinava con le dita, mi raccontava storie d’altri tempi, quelle con i draghi, le fate, le principesse e i principi.

Ed io curiosa dei suoi racconti, ed ancor di più di quel barlume di malinconia che le si scorgeva negli occhi ogni volta che mi parlava del principe, l’ascoltavo, accoccolata su una montagnetta di foglie di Gelso e di paglia; mi ricordo che avevano un buon’odore, che, ormai, nella mia mente voleva dire solo una cosa: casa.

Poi, dopo il suo racconto veniva l’ora di andare a dormire, ed io, ancora esaltata dalle mirabolanti avventure narrate da lei, m’ incamminavo verso il mio piccolo cantuccio, anch’esso di paglia e, cullata dall’odore pungente di quest’ultima, mi addormentavo.

E ricordavo anche quando persone malate di tutte le età e i sessi bussavano alla nostra porta e lei, sempre sorridente, apriva la porta e le faceva accomodare, ogni volta, su una panca di legno, forse l’unica cosa che non era ancora stata mangiucchiata dalle tarme in quella casa.

Appurata la diagnosi cominciava a tagliuzzare, mescolare e a pestare i vari ingredienti che, quasi sempre, avevano un cattivo odore.

Però io, invece di andarmene, rimanevo lì, incantata, a fissarla preparare le medicine; non tanto perché ero masochista e perché mi piaceva soffrire, ma per godere di quella pace che diffondeva intorno a lei, specialmente in quei momenti.

Sapete, fu proprio sua madre ad insegnarle a preparare i medicinali!

La mamma mi parlava di frequente della nonna, molto spesso con ammirazione: “Era una grande guaritrice!” esclamava, quando mi sentiva sbuffare, ogni volta che tentava di parlarmi di lei.

La nonna morì pochi mesi prima della mia nascita, ed io, da bambina, non riuscivo a perdonarle il fatto di non aver aspettato la mia nascita, di non averla mai potuta conoscere.

Avrei sempre voluto una nonna, come quelle degli altri bambini, che gli regalavano sempre caramelle e che gli accarezzavano con le mani rugose, che sembravano fatte della stessa soffice sostanza della spuma del mare.

Ma vabbeh, dalla vita non si può avere tutto, e così, io mi accontentai di avere una madre-angelo.

Già, Angelo, così la gente la chiamava: sempre buona, gentile e tranquilla, non avrebbe mai fatto del male a qualcuno.

Ma allora perché quando la gente che curò si trovò al suo rogo, quando, legata a quel palo, invocava la vita, mentre le fiamme e il fumo la disorientavano e le facevano perdere conoscenza, perché nessuno, a parte me, fece nulla?

Strega, questo gridarono.

E io, invece, corsi, impacciata dal vestito che mi faceva inciampare nei miei stessi passi, e sgomitai tra le guardie, che in quel momento mi parvero delle statue di pietra, tanto rimasero fredde davanti alla scena, pur di raggiungerla.

Ma, ahimé, le mie gambe diventavano sempre più pesanti, come bloccate a terra da pesanti macigni, e la puzza di bruciato e le urla della mamma sempre più forti.

Soltanto quando il fuoco si spense, e il fumo salì al cielo con l’anima di mia madre, e quest’ultima, ormai ridotta ad un grosso callo cadde sul palco, mi accorsi di essermi raggomitolata su me stessa e di star piangendo.

E soltanto allora, le guardie sciolsero la loro posizione rigida, e si diressero verso i resti di mia madre.

Un soldato passò accanto al corpo di mia madre e vi sputò sopra: -Strega!- esclamò con tutto il disgusto di cui era capace.

Fu in quel momento, forse, che il sangue mi andò al cervello e mi diede forza, o forse, mi donò l’incoscienza.

Con un balzo mi alzai e mi diressi verso di lui.

Afferrai un pezzo di legno abbastanza grosso, non ne sentii nemmeno il peso.

Il soldato non avvertì i miei passi, tanto ero esile, o forse era troppo concentrato a stuzzicare il corpo di mia madre con un piede, per controllare se fosse ancora viva, per accorgersi di me.

Ed eccomi lì, ad un passo dall’imbrattarmi la coscienza con il sangue altrui, ad un passo dall’uccidere.

Le braccia mi tremavano, e stavo sudando freddo: la mia parte razionale continuava a ripetermi di non farlo, di lasciare perdere, che tutto ciò non aveva senso.

E per di più avevo paura: di me stessa forse, oppure di quello che sarebbe successo poi, non lo sapevo.

Poi un ricordo:

Io e la mamma stavamo cenando, o meglio, io mangiavo e lei mi spiegava gli effetti curativi della buccia d’arancia.

Poi bussarono alla porta.

Non ce ne preoccupammo: pensammo che fosse uno di quei malati che si stagliavano sulla nostra soglia in cerca di cure, ad orari improbabili, e poi, di solito, a quell’ora di sera arrivavano soltanto i casi più gravi.

Mamma aprì la porta, con la fronte corrugata: chi sarebbe stato il malato? Che genere di malattia, ferita, avrebbe avuto?

Dalla posizione in cui io ero, rispetto alla porta, riuscii a scorgere a malapena quattro uomini che s’imponevano di fronte alla porta di casa: erano tutti bassi e grassocci tranne uno, che era molto alto e magro, quasi scheletrico.

Dalle stoffe di cui i loro abiti erano fatti, intuii che fossero nobili, anche se non li conoscevo: erano forse parenti del Signor Robertses, il Signore della nostra piccola contea?

No, impossibile: il Signor Robertses era un uomo solitario, difficile che avesse invitato qualcuno nella sua dimora.

Ma allora chi erano?

Gli occhi scuri dell’uomo più alto scrutarono tutta la casa e per un istante si soffermarono su di me.

Un lampo di tristezza gli attraversò le iridi nere.

Ma non ci badai troppo, io stavo osservando la mamma: negli occhi aveva lo stesso barlume di malinconia di quando mi raccontava le fiabe della buona notte.

La vidi esitare un attimo, e poi tendere una mano verso l’uomo, che sfiorò appena, come per accertarsi che fosse reale.

Mi venne in mente solo una cosa: il principe.

-James!- esclamò lei, con le lacrime agli occhi, mentre gli buttava le braccia al collo, singhiozzante.

Era la prima volta che vedevo piangere la mamma, sempre così allegra e solare.

Eppure quelle non erano lacrime di dolore, bensì di felicità.

Nonostante sapessi questo, sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime, e le labbra tremare.

L’uomo, pur avvertendo l’abbraccio di mia madre, rimase immobile a fissarmi con i suoi occhi neri, identici ai miei.

Papà.

La mamma mi aveva parlato poche volte di papà: un uomo alto, all’apparenza scorbutico e intrattabile che, conoscendolo meglio, diveniva una persona dolce, gentile e, incredibile, persino timida.

Il suo aspetto fisico ero riuscita a scoprirlo tramite un piccolo ritratto, che la mamma custodiva gelosamente dentro il suo portagioie, molti anni prima.

Questo era tutto ciò che sapevo.

Eppure, quando mi accorsi di quegli occhi neri, non riuscii a non riconoscerlo: papà.

L’espressione dell’uomo s’indurì improvvisamente.

Afferrò i capelli biondi della mamma e li tirò con forza, quasi volesse farle uno scalpo: << Taci, strega! Da questo momento voi siete in arresto, per uso e fabbricazione impropria di medicinali, e per essere un’aiutante del Diavolo! Una maliarda! >> esclamò, prima di trascinarla per i capelli verso la carrozza nera che li attendeva poco lontano dalla nostra catapecchia.

Mia madre urlò di dolore, quando l’uomo fece presa sui suoi capelli; cercò di divincolarsi, inutilmente: l’uomo aumentò la stretta sulla sua chioma, e la strattonò più forte.

Non so per quanto rimasi lì, a fissare con gli occhi sbarrati l’uscio aperto poco lontano da me, credo che stessi aspettando il ritorno di mia madre che mi dicesse che tutto era apposto, che stava bene…

Ma chi volevo prendere in giro? Non era tutto apposto e la mamma, in quel momento, di certo non stava bene.

Inquisitori.

Erano loro che erano venuti a prendere la mamma.

La gente diceva che venivano sempre di notte a prelevare le ossesse, come la morte.

Morte che attendeva ognuna di loro.

“Taci, strega!”

Questa esclamazione mi perforò la mente e mi attutì i sensi.

L’unica cosa che sentii fu il dolore.

Non quello fisico, sentii quel genere di dolore che ti lacera lentamente il cuore, quello che ti arriva quando comprendi che quella persona, la più importante della tua vita, non c’è più, o la consapevolezza che presto sarà così.

E tu rimani lì, impotente, ad aspettare la bastonata finale, quella che ti porterà sull’orlo del baratro.

O forse, quello che sentii, fu semplicemente l’odio verso quell’istituzione: perché uccidere un angelo?

Ma soprattutto: perché uccidere la mia mamma, che non avrebbe mai fatto del male ad una mosca?


-BASTARDO!- strillai, colpendo forte la nuca del soldato col bastone.

Il contatto tra la cervice dell’uomo ed il pezzo di legno che tenevo in mano produsse un tonfo sordo, cupo.

L’uomo cadde a terra, privo di sensi.

-LEI NON È UNA STREGA! LEI È UN ANGELO!-

Non so quante volte lo colpii, so soltanto che ad un certo punto cominciò a perdere sangue e che io caddi in ginocchio poco dopo, con le braccia doloranti, ma la soddisfazione che provai nel vederlo ridotto in uno stato più pietoso di quello che mia madre mi diede soddisfazione.

Prima di svenire, sentii lo scalpicciare delle guardie e un certo vociare: soltanto allora mi ricordai della loro presenza, poco più in là.

Perché le guardie non erano intervenute? Erano rimaste scioccate dalla visione di una “bambina” che cercava vendetta in un modo così feroce?

O forse ci avevo messo così poco ad ucciderlo?

Be’, se la seconda ipotesi fosse stata esatta, credo che non mi sarei mai perdonata di averlo fatto così in fretta: nessuno poteva offendere la mia mamma, nessuno.

Ad un passo dall’incoscienza, sentii il terreno freddo e ruvido che avevo sotto di me sparire, e l’aria fresca della sera sferzarmi il viso.
  
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