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Autore: TangerGin    26/02/2013    16 recensioni
«Le labbra rosse del ragazzo si aprirono in un sorriso, svelando delle fossette furbe ai lati delle guance. Lei era ormai sicura di non trovarsi davanti ad un essere umano, ma piuttosto ad un folletto, ad una di quelle creaturine pagane scaltre che si insinuano dall’alba dei tempi nelle vite delle persone, stravolgendole.»
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Luisa,
perchè mi ha fatto capire quanto può essere divertente scrivere di Harry,
perchè siamo sulla stessa barca di ritardo mentale,
ma soprattutto perchè, come dice il proverbio
"Chi trova un amico trova un tesoro".


 
Cinque ore e mezza di ritardo.
Le avevano sempre detto di non fidarsi della RyanAir, che i voli costano poco ma sono altrettanto poco puntuali, e che se sono economici è anche perché sono ad orari assurdi del giorno e della notte. Ma era sempre stata una da “prima il risparmio” ed ora eccola là, a sbuffare davanti al tabellone delle partenze.
Certo, non aveva messo in programma di passare una notte all’aeroporto di Berlino. A quest’ora si aspettava già di essere seduta comodamente – si fa per dire, le poltroncine degli aerei RyanAir non sono di certo l’emblema del comfort – in viaggio verso casa. E nel giro di poche ore avrebbe riabbracciato suo padre, avrebbe rivisto sua sorella e avrebbe dormito nel suo letto con le lenzuola fresche di bucato.
Non sopportava i ritardi perché non sopportava le attese: le mettevano ansia. Soprattutto quando erano impreviste e sgradite, come in quel caso. Poteva accettare qualche minuto di ritardo delle amiche prima di uscire, poteva anche comprendere quanto si facevano aspettare davanti al cinema, ma un’attesa lunga ore, da sola, in aeroporto era un’idea quasi insostenibile.
Andò in bagno, si lavò il viso stanco, stropicciando forte le palpebre, e tamponandosi il collo con la mano umida e gelida. Aveva un costante bisogno di sentirsi sveglia e viva. Fissandosi nello specchio sopra al lavandino sembrava sempre la stessa: i lunghi capelli ramati che sfumavano verso il biondo incorniciavano quel viso pallido e stanco, solcato da due profonde occhiaie blu che nemmeno il miglior correttore in commercio riusciva a nascondere. Ma quelle occhiaie, dopotutto, non le dispiacevano: erano la prova che stava vivendo, erano la tangibile testimonianza che, finalmente, qualcosa stava iniziando a ruotare anche al suo mulino.
Sbuffò, ravviandosi i capelli dietro l’orecchio, pensando alle ore che le si presentavano davanti. Sarebbero state ore scomode, probabilmente molto lunghe e soprattutto solitarie. L’unica consolazione era che amava gli aeroporti, amava quelle sale d’attesa grandi e vuote (e, quella sera, anche fredde), adorava il rimbombo dei passi e delle voci delle persone contro i muri, amava le luci artificiali che illuminavano quegli ambienti sterili. Ma più di ogni cosa, adorava studiare i viaggiatori.
Lei si nutriva delle facce delle persone. Osservando, aveva scoperto che la gamma di espressioni umane non poteva ridursi a semplice gioia, arrabbiatura, sorpresa, tristezza, disgusto. C’erano infinite varianti sul tema, infiniti accordi e scale che rendevano l’essere umano la sinfonia più complessa e meravigliosa di sempre.
Quindi, non appena trovò un posto vuoto su quelle panchine di grigio e freddo metallo, pensò che, forse, da quella attesa poteva trarne qualcosa di positivo. Poteva, come a suo solito, riempirsi delle vite degli altri.
Tirò su le gambe per incrociarle sulla panca, appoggiando la schiena contro il bracciolo, sistemando la grande valigia alla sua destra. Non era di certo una posizione confortevole, ma per lo meno riusciva a scrutare tutti gli avventori notturni di quel bigio aeroporto.
Cominciò a rovistare nella sua borsa alla ricerca del taccuino, quindi estrasse con cura la penna incastrata tra le pagine: era pronta a tuffarsi nelle immaginarie storie dei suoi compagni di attesa.

C’è un signore, avrà settant’anni. O forse meno, e quei segni profondi che si incastrano sul suo viso sono solo il ricordo delle mille strade che ha percorso. Questo signore non è da solo, è accompagnato da una donna, anziana anch’essa. I suoi capelli sono biondo camomilla, la piega è perfetta, così come impeccabile è la camicetta rosa pallido, abbottonata con cura. Il suo sguardo, però, è perso. E’ vacuo e sembra vuoto.
E’ arrivata un’altra donna, più giovane, sulla cinquantina. E’ stanca, si vede dai gesti e dalla postura ingobbita. Sospira, cercando di catturare un po’ di forza dall’ossigeno, sussurra qualcosa alla signora.
Suppongo sia la figlia.

«Disegni?»
Una voce roca e bassa la distrasse dalla loro storia. Scostò lo sguardo dal quel trio per incontrare due grandi iridi brillanti, di un verde fumoso, che rifletteva e si mescolava all’ambiente grigio che li circondava.
Non si era nemmeno accorta del ragazzo che si era seduto davanti a lei. Era come andata in apnea, cercando di decifrare e di insinuarsi nelle immaginarie vite di quegli sconosciuti.
Il ragazzo, seduto scomposto, si strinse nel suo cappotto imbottito, allungando le gambe affusolate, rischiando così di far inciampare da un momento all’altro chiunque cercasse di attraversare lo stretto corridoio tra le panchine della sala d’attesa. I capelli erano nascosti sotto il cappuccio, ma dei ricchi delicati cadevano ogni tanto su quegli occhi tanto enigmatici quanto splendidi. La bocca ampia, caratterizzata da labbra fin troppo rosse, forse vittime del vento sferzante tedesco, era arricciata, in attesa di una risposta. La sua pelle era tanto pallida che, illuminato dalla luce artificiale ed asettica dei neon, sembrava quasi una creatura spettrale.
Lei lo fissava, senza proferire parola. Cercava di decifrare le sue mosse, era sospettosa per natura. Ma non in modo negativo: il suo sospetto era dettato dalla curiosità. Prima di ogni altra cosa, lei si poneva domande, e quindi andava alla ricerca delle sue risposte.
Lui la fissò interrogativo.
«Scusa, sono… sovrappensiero. Comunque, per risponderti no, non disegno»
Lui si voltò verso il trio che lei stava analizzando con tanta cura, per poi riportare i suoi occhi indagatori sulla ragazza.
«Però li stavi fissando» asserì, accennando con il capo all’oggetto del suo interesse.
Lei sorrise timidamente. Quel piccolo spettro comparso dal nulla era invadente ed insolito, ma la attirava. Era come circondato da un’aura di enigmatica serenità e spontaneità che raramente le era capitato di incontrare, specialmente in perfetti sconosciuti. Lei inclinò il capo, stringendosi nelle spalle, andando a scrutare ancora una volta quegli occhi vivaci che attendevano una risposta o, per meglio dire, una spiegazione.
«Io scrivo» rispose, senza sbilanciarsi. Era curiosa di vedere se lo spiritello si sarebbe spinto oltre, ficcanasando ancora, oppure l’avrebbe lasciata in pace, soddisfatto di aver trovato una ragione al suo fissare quei tre signori in attesa.
«Scrivi» affermò lui, girando completamente il torso in direzione della ragazza, e portando le lunghe gambe sulla panca. Adesso erano faccia a faccia, l’uno che scrutava nella stravaganza dell’altra.
Perché una ragazza avrebbe dovuto scrivere a mezzanotte, su una fredda panchina di un aeroporto?
E perché un ragazzo si sarebbe dovuto interessare a ciò?
Lei nascose un sorriso, ravviando dietro l’orecchio una ciocca di capelli che le solleticava sul viso. Abbassò quindi lo sguardo sul suo taccuino, indecisa se approfondire nello svelarsi a quel ragazzo.
«Sì, scrivo storie. O meglio, immagino storie» e intanto prese ad intrattenersi con le pagine ingiallite della sua agendina, quasi in imbarazzo per aver deciso di mostrarsi subito a qualcuno che conosceva da più o meno cinque minuti.
«Stavi scrivendo la loro storia, quindi».
Lui non faceva domande. Lui sapeva già che quello che stava dicendo era il giusto, lui la stava già iniziando a sfogliare, come un libro. Da quando l’aveva vista là seduta, mentre osservava quegli sconosciuti con un’attenzione quasi maniacale, dentro di lui era scattata una molla. Non aveva mai visto quella luce negli occhi di qualcuno, quello sfarfallio che assomigliava quasi ad un piccolo braciere ardente racchiuso in due iridi color caramello, e soprattutto non lo aveva mai visto rivolto a qualcosa di così bizzarro. E adesso gli pareva questione di vita o di morte capire cos’era che manteneva vivo quel fuoco, e cos’era che lo aveva scaturito.
Lei annuì con la testa, tornando a posare i suoi occhi caldi nei suoi, ed abbozzò nuovamente un sorriso: le labbra rosate e screpolate si inarcavano dolcemente ogni volta che sorrideva e ogni muscolo del suo viso seguiva quel gesto gentile. Lui si rese conto che, probabilmente, dietro a quel sorriso si celava un universo eccentrico e misterioso quanto lei, ed era intenzionato a scoprirlo.
«E sentiamo, quale sarebbe la loro storia?» chiese lui, tentando di sfogliare un’altra pagina del libro che era quella ragazza.
Lei spalancò gli occhi, presa forse alla sprovvista. In realtà pensava che non sarebbe andato oltre, era certamente un tipo sfacciato ma non credeva che potesse tentare di scavare ancora, e soprattutto con tanta naturalezza e semplicità. E lei si trovò a rispondergli, con altrettanta disinvoltura, e gli descrisse quello che aveva letto sui volti di quelle persone.
Era strano, quello che stava succedendo. Era strano per entrambi, ma entrambi ne erano affascinati. Era come se le loro anime si stessero pian piano sfiorando, in una danza lentissima che non cercava fretta.
Finito il racconto, lui si voltò a guardare quel trio, mentre lei si soffermò a notare la curva sinuosa e asciutta della schiena del ragazzo, che si intravedeva da sotto il cappotto. Iniziò, quasi inconsciamente, a farsi domande su di lui, come faceva sempre quando si trovava davanti uno sconosciuto.
«Secondo me quella non è la figlia, comunque» affermò lui, tornando a dedicare le sue attenzioni alla ragazza. Lei, ancora più stupita, inarcò un sopracciglio, da una parte quasi offesa per la messa in dubbio delle sue capacità deduttive, dall’altra incuriosita dalle parole di lui. Il ragazzo scrollò le spalle, tirando poi indietro il cappuccio, rivelando dei folti capelli castani e disordinati, che gli invasero il viso.
«Sì, secondo me è la badante della moglie» continuò lui, cercando di dare un senso a quei riccioli indisciplinati.
Lei indagò di nuovo i volti di quelle persone «Cosa te lo fa credere?» si rivolse poi a lui.
Le labbra rosse del ragazzo si aprirono in un sorriso, svelando delle fossette furbe ai lati delle guance. Lei era ormai sicura di non trovarsi davanti ad un essere umano, ma piuttosto ad un folletto, ad una di quelle creaturine pagane scaltre che si insinuano dall’alba dei tempi nelle vite delle persone, stravolgendole.
«Innanzitutto, la donna non somiglia a nessuno dei due: è troppo alta per essere figlia loro, ed ha i tratti troppo nordici, guarda come sono chiare le sue sopracciglia. Inoltre, quel signore non la tratta come un padre tratta una figlia, le rivolge sguardi duri e sembra darle ordini, più che consigli. E poi, infine, la signora è palesemente malata. I suoi occhi sono privi di vita, e lo vedi come le è difficile persino bere un goccio d’acqua?» accennò alla scena che stava accadendo in quel momento.
Lei seguì le sue parole, e capì che tutto quello che aveva detto aveva un senso. Lui aveva letto, non aveva immaginato, la storia di quelle persone. Lui era riuscito, con una sola, semplice, occhiata, ad arrivare al nucleo della vita di tre completi estranei, con i quali non aveva mai nemmeno parlato. E lei si sentì quasi sopraffatta da tanta sagacia, era ammaliata dall’attenzione dello sguardo di lui.
«Credo… sì credo che tu abbia ragione. Sei bravo in questo gioco» scherzò lei, chiudendo definitivamente il quadernetto.
«E’ divertente, mi trovo spesso a voler decifrare le storie di chi mi circonda. Non avevo mai pensato di metterlo nero su bianco, però» e un altro sorriso scalfì il suo viso, riportando alla luce le fossette maliziose. Lei ricambiò quel sorriso, mentre un’altra pagina veniva voltata. Si stavano lentamente ed impercettibilmente spogliando di ogni costrizione.
«Comunque, io sono Jules» ed allungò la sottile mano destra, le dita ossute impreziosite da anelli eccentrici ed un piccolo tatuaggio che istoriava il suo anulare. Lui socchiuse gli occhi, afferrando quella piccola mano nella sua, più grande e forte. Gli pareva quasi che quelle fragili ossa potessero rompersi se avesse intensificato la stretta.
«Harry - replicò lapidario lui, non distaccando lo sguardo dalle loro mani congiunte – cos’è questo?» passò con il pollice sul dito tatuato di lei.
Un’altra domanda. Jules si chiese se lui si nutrisse di quello, di quesiti. Di curiosità. E non aveva nemmeno intenzione di lasciare quella presa.
«E’ il simbolo di Mercurio» lei, con le sue risposte concise e telegrafiche, lo stava evidentemente stuzzicando. Harry voleva sapere di più, era ovvio, ma lei non si sarebbe sporta oltre se non esortata da altre domande. Quella danza stava tramutando in una lotta giocosa, dettata dal desiderio di scoprire sempre nuove cose l’uno dell’altra.
«Sei un’astrologa? Una di quelle ciarlatane che leggono le mani e compagnia bella?» la schernì lui, soffiandole le parole sulla mano, che aveva avvicinato al viso per analizzare meglio i pigmenti scuri della sua pelle intrisi di inchiostro.
La risata cristallina di Jules attraversò ogni molecola ed atomo di quella fredda sala di aspetto e si rifranse contro i muri austeri, per poi riflettersi e svegliare le anime assopite di tutti gli avventori dell’aeroporto tedesco. In quella risata c’era delizia, quella risata era odore di pane appena sfornato, era briosa e rinfrescava come un solitario alito di vento estivo, ma al contempo scaldava come il primo sorso di cioccolata calda in inverno. Harry sentì qualcosa rompersi dentro di sé ed il suo cuore perse equilibrio e peso, iniziando a vagare libero.
«No, sciocco. Mercurio, o meglio Hermes, è il dio protettore dei viaggiatori» rispose lei, sottraendo infine la mano da quella del ragazzo, credendo che quel contatto fosse durato fin troppo. Ancora una volta, una risposta sintetica che necessitava di un’altra domanda per poter svelare cos’altro c’era sotto.
«Dunque viaggi. Beh, domanda sciocca, considerato che siamo in un aeroporto, in effetti – constatò lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia piegate, che costringevano le gambe in una posizione particolarmente scomoda, ma che non sembrava infastidirlo affatto – viaggi per lavoro?».
«Stiamo giocando ad “Indovina Chi”?» scherzò Jules, cercando complicità nello sguardo vivace del suo nuovo, stravagante, compagno di attesa.
Harry scrollò le spalle, alzando gli occhi al cielo «Ci annoiamo no? Io ho cinque ore e mezza prima del mio volo, dovrò impiegarle in qualche modo»
Qualcosa illuminò il volto di lei, tramutando poi la sua espressione da sorpresa a curiosa «Voli a Manchester, quindi?».
«Guarda che non hai risposto ancora alla mia, di domanda. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere fin quando non lo farai tu» replicò lui. Ormai erano entrambi troppo presi da quel gioco che stavano costruendo, da quel puzzle complicato fatto di tasselli mancanti e forme strane. Jules sbuffò, sprofondando ancora di più nella sua spessa sciarpa rossa di lana.
«Sì okay, possiamo dire che “viaggio per lavoro”. O meglio, lavoro viaggiando. Scrivo micro guide turistiche per un web magazine, diciamo che scrivo articoli piuttosto inutili su città che mi pagano per visitare. Posso ritenermi piuttosto soddisfatta e fortunata, in realtà».
«Wow, una risposta più lunga di cinque parole e che non mi ha costretto a cavarti le parole di bocca, mi stupisci! – disse Harry, prendendola in giro – e devo dire che mi ha stupito anche, come risposta. Ti facevo un tipo più… quadrato» concluse, inclinando il capo, come per scrutarla meglio. Si stava divertendo quanto un bambino allo zoo. Jules sorrise beffarda, quasi soddisfatta dall’essere riuscita a sorprendere il ragazzo, quindi con un’occhiata lo spronò a rispondere alla sua, di domanda.
«E comunque sì, volo a Manchester» replicò lui, senza approfondire. Voleva prendere lui il coltello dalla parte del manico, stavolta, e Jules lo capì subito.
«Ma non hai l’accento di Manchester però» l’avrebbe ripagato con la stessa moneta. Affermazioni al posto di domande, per indagare sotto quegli occhi giada nebbiosi e quel sorriso luminoso.
«No, ma vado a trovare un amico».
«Vivi a Berlino, quindi?».
«No. Tu invece dalla parlata direi che sei decisamente di Manchester, e che vivi a Berlino. Dico bene?».
Jules, sorpresa, annuì. Possibile che riuscisse a leggerla così chiaramente? Da quand’è che era diventata così limpida e trasparente? L’avevano da sempre etichettata come una ragazza austera e impenetrabile, mentre quel ragazzo si stava inoltrando in lei con estrema facilità, destabilizzandola. Sotto lo sguardo di Harry, lei si sentiva come in cima ad una torre di sedie impilate e vacillanti, pronte a crollare da un momento all’altro.
Harry riprese a parlare «E dalla valigia direi che stai tornando a casa per le vacanze invernali, dove ti aspetta tuo padre, tua madre, tuo fratello e un cane… anzi no, scusa un gatto. Sì, decisamente sei un tipo da gatti».
Jules incrinò le labbra in un sorriso, sospirando «Per fortuna ero io l'astrologa, eh? E tu cosa sei, un indovino di professione? Comunque ci hai quasi azzeccato, se non fosse che a casa mi aspetta una sorella, non un fratello, e solo il padre. Però sì, sono una gattara e penso sia piuttosto palese».
Harry sghignazzò soddisfatto. Lei stava iniziando a piegarsi sempre di più, stava iniziando a rivelarsi e la cosa lo stava facendo impazzire: dietro ogni piccolo gesto ed espressione di quella ragazza lui sapeva che si celava qualcosa di molto più grande e interessante ed era assolutamente intenzionato a scoprire tutto. Lui non solo voleva conoscerla, ma ne sentiva proprio un bisogno fisico. La danza dei loro spiriti aveva iniziato a farsi più frenetica, più desiderosa di risposte.
«Quindi perché eri a Berlino?» chiese Jules, battendolo sul tempo, prima che lui potesse porgli l’ennesima domanda.
«Sono venuto a trovare la mia ragazza, studia architettura qua».
Lei arricciò le labbra, sforzandosi poi di allargarle in un sorriso. Stava forse provando delusione, per quella scoperta? Era più come un senso di sconforto, misto ad una strana ed incomprensibile gelosia. E' vero, aveva incontrato quel ragazzo da nemmeno mezz’ora, eppure non si era mai sentita investita in una conversazione come lo era in quel momento. Non aveva mai provato quelle strane sensazioni di coinvolgimento, a livello spirituale. Non aveva nemmeno mai creduto in queste storie, non credeva nell’amore a prima vista, men che meno nei colpi di fulmine. Ma Harry l’aveva catturata, con quella curiosità vivace tanto quanto la sua, con quel desiderio di sapere che lo divorava, lo stesso identico desiderio che divorava lei stessa quando era in viaggio, a caccia di storie. Harry era vivo sulla stessa lunghezza d’onda di Jules, e lei non aveva mai incontrato qualcuno così empaticamente simile a lei, e forse era quello il motivo per il quale quella risposta così semplice era stata come un colpo secco e ben assestato all’altezza del petto, che le aveva fatto precipitare il cuore nelle caviglie.
Harry, dal canto suo, percepì di aver incrinato qualcosa. Le labbra di Jules non erano più specchio di un cosmo nascosto, si erano serrate, a chiuderlo al di fuori da quell’infinito. Capì che quella risposta, seppur vera ed onesta, era stato come uno sgambetto arrogante durante quel ballo che, inconsciamente, aveva iniziato con lei. Ma non voleva mentirle, voleva essere sincero, voleva scoprire tutte le sue carte, e desiderava che anche lei potesse fare lo stesso.
«Quindi non sei di Manchester, abbiamo detto – disse lei, rompendo quel silenzio che si era creato – e cosa fai nella vita?».
Era decisa a non lasciarsi ferire ulteriormente da quella notizia. Alla fin fine non aveva senso di star male per qualcosa, o meglio qualcuno, che non conosceva affatto. Si convinse che quella conversazione stesse andando avanti solo per pura noia, solo perché entrambi dovevano trovare un modo per passare quelle ore di attesa.
«No, sono del Cheshire, ma vivo a Londra. Per sopravvivere lavoro in radio, faccio lo speaker» rispose contento, sollevato dal fatto che Jules avesse deciso di continuare quel rondò di parole che li stava coinvolgendo.
«E poi dici a me che stupisco col mio lavoro? LO SPEAKER! Fai lo speaker, è davvero… figo»,
«Suona meglio di quanto non sia in realtà. Diciamo che devo ancora farne di strada per divertirmi davvero, per ora mi hanno affibbiato i programmi notturni che sono una grande noia: a parte il fatto che preferirei dormire, di notte, poi è tutto un susseguirsi di canzoni languide o jazz, e sussurrii al microfono» sbuffò lui, imitando la voce ovattata dei presentatori radio serali. Jules si sciolse nuovamente in una risata, ed Harry si trovò a pensare che, effettivamente, gli sarebbe piaciuto registrare quel suono e riascoltarlo all’infinito. In realtà, gli sarebbe piaciuto poter provocare quel riso trillante altre cento, altre mille volte; avrebbe voluto poter decifrare tutte le illimitate variazioni del tono della voce di Jules, desiderava analizzare ogni nota di quella melodia che era la sua risata. Scosse la testa, arruffandosi i capelli con le mani, in modo da nascondere allo sguardo indagatore di Jules tutte quelle fantasie strane e sbagliate che stavano affollando i suoi pensieri. Lei non era che una sconosciuta, certo una sconosciuta simpatica e che sembrava capirlo alla perfezione senza bisogno di molti giri di parole, ma lui aveva Amy a Berlino. Lui aveva una ragazza, e forse stava sbagliando a continuare quella conversazione con lei.
Fortunatamente il telefono di Jules prese a vibrare e lei rispose, con un tedesco dall’accento impeccabile. E mentre la sentiva parlare in quella lingua pressoché incomprensibile, mentre la vedeva assorta in quel dialogo, si rese conto che era troppo interessante ed intrigante per lasciarla andare. Si disse che la vita era una sola, e tanto valeva viverla. E se quella ragazza era riuscita ad avvolgerlo in quella fitta e sottile rete argentata, nel giro di pochi minuti e dopo qualche parola scambiata, si chiese cosa potesse riservare una vita intera assieme a lei. Si sorprese di quel pensiero così totalizzante, tanto che spalancò gli occhi impaurito. Stava adesso lottando con se stesso, alla ricerca di un senso compiuto da dare a quello che stava provando. Per ora, l’unica certezza che aveva era che Jules era un gioco che valeva la candela.
«Scusa, la mia coinquilina. E’ preoccupata come una pazza, dice che all’aeroporto ci sono i maniaci» disse lei, chiudendo la chiamata, e rompendo nuovamente la sua voce in una risata allegra.
«Le hai detto di averne incontrato uno?» la canzonò lui, allusivo. Gli piaceva provocarla perché non aveva la benché minima idea di come lei potesse rispondere. Era la prima volta, in vita sua, che si trovava davanti a qualcuno di tanto simile a lui ma al contempo tanto misterioso: Harry era sempre stato bravo a leggere le persone, e ne aveva data prova fin da subito. Eppure, lei era come un libro dalle pagine incollate, forse dai ricordi, forse dalle aspettative per il futuro. E questo lo faceva impazzire e lo faceva cadere sempre più rovinosamente in quella rete preziosa.
Lei scrollò le spalle «Ho incontrato tipi peggiori di te, ti sopravvaluti».
Ecco, l’aveva fatto ancora. L’aveva sorpreso di nuovo.

«Signori, i gates hanno aperto. Si prega di sgombrare l’area».
Un addetto dell’aeroporto svegliò Harry, scuotendolo forte all’altezza del ginocchio. Lui sobbalzò, inizialmente confuso, e sbattè velocemente le palpebre per qualche secondo.
Jules, ancora assopita, riposava sulla sua spalla. Non si ricordava in che momento la loro conversazione avesse preso un tono più lento, per poi sfociare in un sonno complice, l’ultima memoria che aveva erano loro due, accanto, presi nel loro gioco di analizzare le altre persone che aspettavano in quella sala. Aveva scoperto così tanto di lei, in quelle poche ore, e gli pareva che ci fosse così tanto altro da scoprire che dovette trattenersi dallo svegliarla bruscamente per iniziare nuovamente a stordirla con domande. Le accarezzò quindi piano il braccio, tentando di darle un risveglio meno spiacevole di quello che era stato riservato a lui.
Jules aprì gli occhi, stordita, allontanando subito il viso dalla spalla del ragazzo. Non sapeva se essere imbarazzata, ma lo sguardo calmo di Harry la rassicurò. Le sembrava talmente strano di conoscerlo solo da una manciata di ore.
Le sembrava strano perché incontrare i suoi occhi, dopo quella dormita scomoda, era stato naturale e giusto. Percepiva di non star sbagliando, sapeva che c’era qualcosa di sottile e ancora ben poco definito che l’aveva legata a quel dinoccolato ragazzo dai capelli disordinati e il sorriso luminoso. E, in fondo, sapeva che quel bizzarro ballo che avevano intrattenuto chiacchierando per tutta la sera non era stata una cosa unilaterale, lui – con i suoi gesti calibrati, le sue parole sfacciate ed invadenti, i suoi sorrisi sinceri – era stato coinvolto tanto quanto lei.
Si alzarono, senza scambiarsi altre parole se non un buongiorno e qualche convenevole da risveglio (
«Ti va un caffè?» «No grazie, sono più tipo da tea» «Chissà perché ma lo sospettavo»), e si diressero in silenzio verso il gate.
Harry si sentiva leggero, il suo cuore pareva aver perso peso e tentava di librarsi in aria, ma restava incastonato tra le sue costole.
Jules si sentiva viva e reale, come non si era mai sentita prima, e le sembrava che ciascuno dei suoi cinque sensi fosse stato acuito da quell’incontro.
Il cuore di Harry trottava veloce ad ogni lettera, parola, frase, scandita dalla bocca rosa di Jules.
Gli occhi di Jules guizzavano, per non perdersi nemmeno un singolo, invisibile movimento di Harry.
Probabilmente, pensarono entrambi, quella non era realtà. Forse si erano semplicemente appisolati, e stavano sognando. Paradossalmente, quella sembrava una spiegazione più logica a tutto quello che stavano provando l’uno per l’altra.

«L’equipaggio RyanAir vi ringrazia per aver viaggiato con noi, e vi auguriamo un piacevole soggiorno a Manchester».
I due ragazzi lasciarono che l’aereo si svuotasse quasi completamente. Forse, non tanto inconsciamente, si stavano aggrappando a quegli ultimi minuti che era concesso loro passare assieme. Stavano afferrando l’uno ogni minima notizia dell’altra, Harry continuava ad interrogarla su ogni piccolo particolare, così come Jules non si tratteneva dal rispondergli e dal ricambiarlo di domande. Erano come assetati ed affamati, e l’unica acqua e l’unico cibo che poteva appagarli era condividere pezzi delle loro vite. Ricordi. Idee. Opinioni.
Scesero infine dall’aereo, e la classica e gelida pioggia inglese li accolse, costringendoli a correre dentro l’aeroporto.
E nel momento in cui misero piede dentro quell’ambiente caldo ed asciutto, entrambi sentirono un gelo più acuto e penetrante pervaderli. Perché, da lì in poi, era implicito che le loro strade si sarebbero dovute dividere. Ammutoliti dalla consapevolezza del doversi dire addio da un momento all’altro, recuperarono le loro valigie e si diressero con passo lemme, quasi disperato, verso la porta scorrevole che affacciava sulla sala degli arrivi.
Harry avrebbe voluto bloccarla, dirgli che non avevano bisogno di attraversare quella porta, che sarebbero potuti restare là, in quella terra di nessuno, senza bisogno di altro se non il loro reciproco interesse. Ma quel gesto e tutte quelle parole restarono sospesi a mezz’aria, bloccati dal suono insistente del suo cellulare, disperso nella tasca del cappotto.
«Amy? Ciao, buongiorno! Sì sono arrivato or ora. Eh, beh, non ho dormito molto, ma è stata una nottata interessante, non mi lamento, dai. Tu come stai? Hai lezione?».
Jules distolse la sua attenzione dalla voce del ragazzo, ma non riusciva a muoversi non riusciva ad allontanarsi da lui. Era come pietrificata. Sia perché non voleva lasciarlo andare, sia perché sapeva che, in ogni caso, lui non avrebbe potuto far parte della sua vita. Perché, se anche avesse accettato quella situazione folle ed irrazionale, comunque Harry aveva una ragazza, lui era innamorato e aveva già legato la sua vita a quella di un’altra persona. Abbassò la testa, cercando il telefono nella borsa, per poi leggere un messaggio della sorella: sarebbe arrivata con qualche minuto di ritardo. Si voltò quindi nuovamente verso il ragazzo, andando ad analizzare ancora un’ultima volta quel volto così enigmatico, quasi elfico, e si decise a prendere il coraggio a quattro mani. Doveva salutarlo, doveva dirgli addio.
Alzò quindi la mano per salutarlo, mimando con il labiale un “ciao, è stato un piacere conoscerti” per non disturbarlo dalla conversazione, per poi dirigersi con forse un po’ troppa fretta verso l’uscita. Stava stringendo i denti, cercando di ricacciare in dentro le lacrime che cozzavano agli angoli dei suoi occhi, decisa a non voltarsi.
Harry impiegò qualche secondo per rendersi conto di quello che era successo e salutò frettolosamente la sua ragazza dall’altra parte della cornetta.
Lui non poteva lasciarla andare via così.
Non era una cosa semplice, non era nemmeno troppo normale, è vero, bisognava ammetterlo.
Ma non si era mai sentito tanto connesso a qualcuno, talmente vivo, come in quelle poche ore passate assieme a Jules.
Quindi, no, non poteva fuggire da lui. Non adesso che l’aveva trovata.

«3321243907».
«Cosa?».
«3321243907. Il mio numero».
Harry l’aveva afferrata per il polso, dopo averla raggiunta velocemente e, senza mollare la presa, cominciò a rovistare nelle tasche, alla ricerca di qualcosa.
«Non credo sia una buona idea».
«3321243907» ripetè lui, senza darle possibilità di dialogo, sfilando finalmente una penna e scrivendole numero sul braccio.
Gli occhi morbidi di Jules titubarono: non sapeva se sorridere per il gesto del ragazzo, se esserne spaventata, o semplicemente se avesse dovuto opporsi, ma decise di andare a cercare un promessa in quella nebbia verde che erano le iridi di lui. E la trovò. Non le stava promettendo una storia d’amore da poemi epici e petali di rosa, in quello sguardo c’era solo la promessa di poter saziare sempre la sua brama di curiosità.
Era un implicito segnale che era pronto a leggere, assieme a lei, altri mille e milioni e miliardi di volti di gente sconosciuta, era pronto a tuffarsi nelle loro storie, ad immaginare i loro ricordi, con lei al suo fianco.
Lui voleva che lei gli insegnasse cosa vuol dire perdersi in se stessi.
Lei voleva che lui gli insegnasse come si sfogliavano le pagine delle anime delle persone.
Jules sorrise scoprendo, assieme alla linea dritta e luminosa dei suoi denti, la serratura che permetteva ad Harry di accedere in lei.
«Papà mi avrà preparato una colazione esagerata, conoscendolo» sussurrò in quel sorriso lei, mentre una solitaria lacrima scappava dal suo controllo, scivolando silenziosa lungo la guancia arrossata. Una lacrima che portava con sé speranza, impazienza, gioia, desiderio, paure. Una goccia d’acqua salata che testimoniava la sua fiducia in lui.
Harry acchiappò quella lacrima con il pollice prima che potesse sfuggire. Così come avrebbe afferrato lei ogni qualvolta avesse temuto di non farcela.
«Te l'ho detto, a me basta una tazza di tea» bisbigliò lui e le sorrise, aprendo la mano in una carezza lungo il volto stanco ma vivo di lei.
Adesso erano pronti, pronti a gettarsi nei tanti ricordi ancora da costruire.



Eeee boh, non so che dire :3
E' la prima OS sui One Direction che scrivo, avevo una voglia matta di scrivere di Harry - ispirata appunto dalla Luisa, come ho detto in cima, nella dedica ♥ - ma chiaramente non ho il tempo ma soprattutto le idee per iniziare una long. Quindi ieri, presa dalla noia del lunedì sera, ho partorito queste quasi 5000 parole. Sono venute quasi da sole, a dire il vero. Sarà che sono iper bloccata nello scrivere il finale di Awake My Soul (perdonatemiiiii in settimana ce la farò e posto, giurin giurello) e quindi avevo bisogno di staccare.
Comunque, a parte questi inutili convenevoli, vi è piaciuta? c: se non si fosse capito, non sono molto tipa da OS perchè tendo a infilarci troppe seghe mentali nei personaggi che scrivo, e infatti anche questa fic non è che proprio mi convinca, forse è un po' fumosa e poco chiara ;_; ma spero che vi sia piaciuta lo stesso, e spero soprattutto che sia piaciuta alla Lou ♥ E' una ragazza adorabile che ho conosciuto proprio grazie ad EFP, e davvero non potrei ringraziare mai abbastanza questo sito per avermela fatta conoscere <333 luv u Lù!
Vabbene, insomma, mi ritiro. Ho mille foto - video - gifs dei concerti di ieri da recuperare, visto che sono intelligente e mi piace deprimermi :3
Bene okay, la smetto. GIN OUT!
xx

 

   
   
 
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