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Autore: Black Feather    26/02/2013    1 recensioni
In un mondo simile al nostro ma arricchito dalla presenza della magia, desiderio di vendetta e sotterfugi mettono in moto le vicende della piccola cittadina di Pumpkin Hill.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

 
 
   Il sole stava scomparendo dietro il muro.
   Quando i due ragazzi si inoltrarono nel campo, lo videro sprofondare sempre più giù, pezzo dopo pezzo, inghiottito dal ferro delle rotaie e dal cemento, finché non si estinse in un ultimo, rifulgente barbaglio. L’oscurità cominciò a calare.
   «Siamo venuti al momento giusto.» Arbery non poté fare a meno di sorridere. Accanto a lei, Dav avanzò in silenzio. La sua tunica viola gli frusciava intorno alle caviglie mentre lui muoveva un passo dopo l’altro. «Abbiamo calcolato bene i tempi.» Il ragazzo aveva risposto solo dopo parecchio, al punto che Arbery dové compiere uno sforzo per ricordare cosa gli avesse detto. Detestava quando le rispondeva in ritardo, era un atteggiamento che la mandava in bestia come pochi altri. «Puoi risparmiarti quell’abbiamo» ribatté, acida. «Sai bene che io non ci tengo, a rubare i tuoi meriti.» Dev evitò di rispondere e continuò a camminare insieme a lei attraverso il campo. Stavolta Arbery sapeva che non avrebbe ripreso la parola.
   Il terreno era ricoperto da una fitta selva di arbusti in fiore, che le si impigliavano all’orlo della tunica e le facevano ostacolo nel camminare. Non riusciva a capire come facesse Dev ad avanzare con tale disinvoltura in mezzo a quell’intrico di frasche, scivolando come uno spettro tra i rametti allungati a ghermirgli le gambe, mentre lei era costretta a disincagliarsi con la forza. Una lieve brezza smuoveva l’aria, calda e pigra come il respiro di una creatura addormentata. Arbery lasciò che le scompigliasse i capelli biondi e continuò a camminare. Si sentiva contenta ed eccitata.
   «Una volta sono stata in questo posto.» Il ricordo parve venirle su insieme alle parole. L’affermazione destò l’attenzione di Dev. Il ragazzo si voltò verso di lei. «Sono sorpreso» Aveva usato un tono pacato, dal quale trapelava appena una punta di sorpresa. Arbery si limitò a scrollare le spalle. «Una volta questa era la proprietà di alcuni amici di mio padre, ma loro l’hanno abbandonata da anni, ormai. Quella casa che abbiamo visto prima passando… era lì che abitavano, allora. Adesso immagino sia vuota.»
   «Erano gli Enwood, se non vado errato.» Dav aggrottò la fronte, mettendo ordine nei suoi pensieri. «Mi pare che siano partiti un paio d’anni fa insieme alla figlia per la Provincia. Una vera e propria fortuna, non trovi?» Emise una risatina sottile, socchiudendo gli occhi. «Se solo avessero saputo cosa cresce nei loro campi, non se ne sarebbero mai andati.»
   Arbery gli lanciò un’occhiata scettica. «Ma figurati. Gente ignorante come quella non avrebbe saputo che farsene, di quei fiori, anche sapendo a cosa servissero. Non sarebbe stata in grado di capire come impiegarli, e avrebbe finito col lasciarli lì a crescere tranquillamente, indisturbati. Ora che ci penso, può darsi che sia andata proprio così.»
   Dav scosse la testa, l’oscurità che rendeva i suoi capelli più scuri di quanto non fossero. «Sei stata via tanto tempo, ma vedo che la tua opinione verso la gente di qui non è cambiata per niente.» La voce di Dav era piacevole, musicale. Eppure, Arbery non riusciva a tollerare quell’arroganza strisciante che vi percepiva. «Gli uomini sono, fondamentalmente, tutti uguali» proseguì quello. «Un contadino di queste campagne bramerebbe gli strumenti del potere come qualunque raffinato abitante della Provincia, se solo fosse consapevole di poterli trovare. E in ogni caso, non credo che i vecchi proprietari di queste terre sapessero di quei fiori.»
    La conversazione morì nell’esatto istante in cui giunsero ai piedi del muro. Non un muro qualunque. Si snodava attraverso le campagne per chilometri e chilometri come un gigantesco serpente di pietra, tagliando attraverso svariati campi coltivati oppure abbandonati, come questo in cui si trovavano. Su di esso correva un sistema di rotaie arrugginito dal tempo e dalle intemperie, che tuttavia era più che in uso e tremolava ancora sotto il peso di grandi treni sfreccianti. La sua solidità torreggiante si ergeva direttamente davanti a loro, una cinta più scura contro il cielo vesperino. Il tratto dinanzi il quale si trovavano presentava una sorta di anomalia: un passaggio sorvegliato da una massiccia porta di ferro, alta quanto due uomini messi insieme e sigillata da un pesante catenaccio. Al di là, si trovava il resto del campo. La presenza del muro lo divideva in due parti disuguali, ma il passaggio che segnava quel punto permetteva di collegarle l’una all’altra. Loro sarebbero dovuti andare oltre.
   «Fai tu o faccio io?» chiese Arbery, accennando con noncuranza al catenaccio.
   Galantemente, Dav si fece avanti, offrendosi di compiere lui il lavoro sporco. Mentre il ragazzo allungava le dita verso il catenaccio, Arbery avvertì le viscere contrarsi in un unico groviglio. Non aveva aspettato altro per tutto il giorno. Il momento era arrivato, alla fine avrebbe avuto un assaggio delle abilità del compagno. Ma ciò che vide deluse in maniera vertiginosa le sue aspettative. L’attimo prima, Dev aveva messo le mani sul catenaccio. L’attimo dopo le aveva ritirate, ma l’oggetto era semplicemente scivolato a terra tintinnando, e lì si era afflosciato come un grosso verme metallico. Il lucchetto era saltato in aria con uno schiocco e ora giaceva al suolo, sventrato e fumante. Tranne questo, nulla di ciò che aveva visto suggeriva che fosse stata praticata qualche arte occulta. Amareggiata, Arbery si portò nel passaggio mentre Dev spingeva la porta per farla entrare.
   Emerse dall’altro lato del campo che i colori dei fiori selvatici erano appena distinguibili. L’oscurità si spandeva con la stessa rapidità di una colata d’inchiostro, ma in cielo erano comparse le prime stelle. Un pallido velo di luce si dipanava da una timida falce di luna, rischiarando il percorso che avevano davanti. Sopra di loro non c’erano nuvole.
   Dav la precedette. Arbery notò che la vegetazione ribelle di prima era stata domata in quest’altro lato del campo; la tunica le si impigliò pochissime volte nei rami sporgenti e lei proseguì tranquilla sulla scia del compagno. Parte della sua contentezza era scemata insieme alla scarsa dimostrazione cui aveva assistito poco prima, ma il sorriso indugiava ancora sulle sue labbra: in fondo, lei e Dav erano a un passo dal raggiungere il loro vero obiettivo. Arbery studiava la figura slanciata del ragazzo, le sue movenze vellutate, il suo incedere deciso ma ponderato. Le era capitanato più volte di sorprendersi a pensare che Dav fosse attraente, ma adesso si impose di levarselo dalla testa. Doveva rimanere concentrata e per di più l’idea di Dav nei panni di seduttore la stuzzicava quanto la disgustava. Non riusciva a liberarsi dalla sensazione che non si fidasse di lei, cosa che implicava che anche lei non si fidasse di lui. Quel suo fare da sapiente, quel suo atteggiamento zuccheroso, quella sua tendenza a dimostrare di saperne sempre di più… No, Dav non le piaceva proprio. Tranne per l’aspetto fisico.
   Si fermò a un certo punto e lei con lui. «Dobbiamo prendere una deviazione. Si trovano più a sinistra di qui.» Senza un’altra parola, Dav uscì dal percorso che avevano finora seguito e si diresse nella direzione da lui indicata. Questa volta Arbery trovò più difficoltoso destreggiarsi tra i rami protesi come braccia scheletriche che le afferravano la tunica, me evitarli era comunque molto più facile che nel precedente lato del campo. Proseguirono in mezzo agli arbusti in fiore addentrandosi sempre di più nel campo, verso il confine est. Esso era delimitato da una staccionata allestita alla meno peggio e percorsa da fili le cui spine brillavano come stelle al chiaro di luna.
   La terra era piena di ombre. Sembrava che il chiarore argenteo che scendeva dal cielo non riuscisse ad attecchire al suolo o sui grovigli di fiori che crescevano tutt’attorno a loro, ma era sufficiente a mostrargli il cammino. «Ne avremo ancora per molto?» berciò Arbery. Cominciava a sentirsi stanca. Erano ore che camminavano senza sosta.
   Dav, quasi a volerla indispettire, si ricordò di risponderle solo dopo che avevano percorso un’altra cinquantina di metri. «Ormai manca davvero poco, cara.»
   «Lo spero, inizio a essere a pezzi.» In realtà, Arbery avvertiva solo un principio di stanchezza. E lo aveva avvertito da molto tempo, ora che ci pensava, ma la prospettiva eccitante che aveva non glielo aveva fatto pesare. L’eccitazione cresceva man mano che si avvicinavano alla loro meta, e con essa, pareva, la stanchezza. Cominciò ad avvertire il bisogno di affrettarsi.
   «Andiamo, Dav, quanto diavolo manca?»
   Il ragazzo sospirò, ma quantomeno ebbe l’accortezza di non farsi attendere nel rispondere: «Sai, se continui a chiederlo così spesso non è che ci sarà una grande differenza da una volta all’altra.» Ridacchiò. Arbery si mise in pari con lui e lo fulminò.
   Camminarono per quello che le parve un tempo irreale e dilatato. Camminarono – e continuarono a camminare. Ad un tratto, sentì un ramo portarsi via un brandello della sua tunica. Imprecò ad alta voce, guadagnandosi un’ammonizione da parte di Dav che – Arbery non mancò di fargli notare – avrebbe potuto tenere per sé. «Io non me ne faccio niente delle tue sgridate.»
   La vegetazione si era fatta più rada, ma il terreno era diventato più accidentato e irregolare, una superficie ostile crivellata di buchi e formicai. «Ho sempre odiato le formiche» fece presente Arbery, mentre si accingeva a scavalcare un formicaio particolarmente cospicuo. Dav le dedicò uno sguardo divertito. «Come mai?»
   La ragazza sospirò. «Una volta, quando era piccola e vivevo ancora a Pumpkin Hill, infilai accidentalmente un piede in un formicaio. Salirono tutte in un’orda nera su per la gamba e per toglierle dovetti gettarci secchi su secchi d’acqua, e anche allora continuavano a rimanere aggrappate alla carne, mordendo. Da quel giorno ne sono terrorizzata.»
   Dav fece una lunga risata. «Sei sempre stata maldestra, eh?»
   Arbery incrociò le braccia al petto. «Invece tu sei sempre stato così simpatico, eh?»
   Di colpo, nella sua mente si delineò quello che avrebbe potuto essere un litigio con Dav. Nato da una sciocchezza, sarebbe cresciuto a dismisura ed esploso fuori ogni controllo, e lei avrebbe piantato il suo compagno lì in mezzo, come un idiota. Fu tentata di farlo… fu davvero lì lì per gettare qualche altra provocazione e fomentare una lite… solo per il gusto di vedere dove avrebbe portato, di capire se Dav se ne sarebbe lasciato trascinare, smentendo il suo portamento serafico… solo per il gusto di osservare come si sarebbe comportato… quando lui si fermò e lei nemmeno parve realizzarlo. Le ci volle un istante per capacitarsi di ciò che quella pausa improvvisa poteva significare. Dav allungò un braccio davanti a sé, indicando un cespuglio tempestato di piccoli fiori che – alla luce tremolante della luna era difficile dirlo – parevano violetti. Cresceva solitario dal terreno ineguale, un largo cespuglio che si reggeva su uno stelo di legno, simile a un alberello. Ma non lo era. Arbery sapeva che non lo era. Il cuore prese a lanciarsi contro le sue costole mentre il sorriso le si spandeva sul viso.
   “Eccoci qua” pensò. “Finalmente ci siamo.”
  «I fiori della morte» disse Dav in tono solenne. Arbery si protese verso di essi. Piccoli e traslucidi, da vicino poteva vederne oscillare i petali come tentacoli di un anemone. Riusciva quasi a udire un debole canto provenire da essi. «A questo punto direi che possiamo procedere.»
   Arbery annuì. Si ritrasse, lasciando che Dav recidesse una quantità di fiori della morte con un piccolo coltello che si era fatto scivolare fuori da una manica. Arbery non perse tempo: sapeva cosa doveva fare e vi si era anche preparata. Immediatamente, estrasse dall’interno della tunica un tessuto arrotolato e lo dispiegò sul terreno, del quale assunse la conformazione irregolare. Era un rettangolo di stoffa decorato con l’immagine di una stella a sei punte; e in essa era inscritto un cerchio. Arbery si sedette e incrociò le gambe. Dav si sedette di fronte a lei, davanti all’altra base del rettangolo. Tese il pungo pieno di fiori della morte e li lasciò cadere. Quelli andarono a depositarsi all’interno del cerchio, dove i loro petali continuarono a muoversi sinistramente.
    «Fiori della morte» ripeté Dav, gli occhi animati dell’euforia. «Più unici che rari, valgono denaro e potere; usati dai più per preparare distillati letali, il veleno destinato ai grandi e ai potenti. Ma pochi sanno che possono essere utilizzati anche a scopi differenti…»
   Arbery deglutì. Era come se il cuore le stesse martellando in gola. «Forza» esortò, e Dav non perse altro tempo in chiacchiere. I due si guardarono negli occhi e cominciarono a recitare in coro una litania che conoscevano a memoria. E mentre lo facevano, la brezza che spazzava i campi si fece più fredda e la notte parve vibrare di un’energia ancestrale. Un cerchio di polvere si sollevò intorno a loro.
   Le voci di Dav e Arbery riempirono la notte, fuse in un coro dolente e antico che si levava sempre più alto sino alle stelle. Senza smettere di cantare, il ragazzo aprì il palmo della mano e da esso sgorgò una fiammella, che balzò sui fiori della morte incendiandoli all’istante. Fiamme nere divamparono nel rettangolo di stoffa, in corrispondenza della figura del cerchio. Poi, i contorni disegnati della stella a sei punte si sollevarono dal tessuto per tramutarsi in altrettante braccia di fuoco nero; i visi di Dav e Arbery furono spazzati da un vento torrido che emanò dalle fiamme magiche. Una forza titanica pareva convergere sulle sei roventi punte che fiammeggiavano tra i due ragazzi, nere come pece. Erano fiamme profonde come la cavità del cielo notturno, terribili e profonde come l’oceano, scottanti e impietose come gli inferi… Eppure, sotto i loro occhi concentrati ed eccitati, rapide com’erano nate si estinsero con un risucchio. Il loro canto si arrestò, i loro visi tornarono rilassati e l’aria stessa parve distendersi.
   Arbery guardò sotto di sé. La stella e il cerchio erano scomparsi dal rettangolo, lasciando la stoffa priva di qualsiasi decorazione. Liscia e bianca. Disorientata, gettò uno sguardo su Dav. Ma il ragazzo continuava a guardare verso la stoffa che aveva appena preso fuoco. “Che cosa dobbiamo aspettarci?” si chiese. Ma proprio quando fu sul punto di esternare la domanda, qualcosa accadde. Un tenue bagliore bianco si soffuse sull’intera superficie della stoffa, mentre l’aria si riempiva di uno strano ronzio. La luce che rifulgeva dalla stoffa si restrinse verso il centro… sempre di più… sempre di più… e più il raggio dell’area luminosa si accorciava, più essa risplendeva… finché non si ridusse a uno scintillio grande quanto un granello di polvere, ma tanto sfolgorante da rischiarare l’intero campo. Arbery l’osservò riparandosi gli occhi come poteva senza impedirsi di vedere.
   E poi, con un boato da spaccare i timpani, un boato che spezzò la notte, un’ombra schizzò fuori dalla tela, sollevando un vento tanto forte da divellere Dav e Arbery, da farli rotolare su loro stessi. Pur essendo sottosopra, entrambi realizzarono che la luce abbagliante era svanita. Quando, concitati, si rimisero in piedi, tutto era finito; nessun luccichio brillava al centro della stoffa e nessun ronzio continuava a risuonare. La notte era tornata tiepida e tranquilla.
   Tremando dalla testa ai piedi, la ragazza raccolse la stoffa. «L’abbiamo fatto» mormorò. «Non posso crederci… L’abbiamo evocato!» Il dolce sapore della vittoria prese fiorirle in bocca.
   Dav, innanzi a lei, annuì ma non proferì parola. Arbery non badò neppure per un attimo che l’altro aveva deliberatamente evitato di risponderle. I due tornarono sui loro passi, abbandonarono in fretta il campo, e si dileguarono nel buio della notte trapunta di stelle.












Note dell'autore: Salve a tutti, ho cominciato a scrivere questa storia senza avere in mente una trama, diciamo un po’ allo sbaraglio, ma dato che ho sempre scritto programmando in anticipo ciò che le mie storie avrebbero contenuto, per una volta ho deciso di cambiare. Spero che il prologo di Revange Flavour vi sia piaciuto e che, quando li pubblicherò, leggerete anche gli altri capitoli. Vi sarei grato se lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate. Naturalmente, non vi posso né vi voglio obbligare a farlo, ma sappiate che ci tengo. <3 Vi auguro una buona serata. Ciaooo! :)

  
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