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Autore: nals    27/02/2013    1 recensioni
Fa freddo ed io continuo a non avere tempo.
/A Sara/
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: Linguaggio forte (?). 


Mia.

 
 

Mi fa abbastanza paura ‘sta cosa, sai?
Non poteva essere che tua, però.
Ti voglio tanto bene.
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fa freddo ed io continuo a non avere tempo.
 
Mia si rannicchia nel suo maglione extra-large e guarda i sogni scivolare vie assieme alle lacrime di sua madre, che non lo sa perché suo figlio abbia preferito quella merda ai suoi abbracci.
La città rimane la stessa ad ogni alba, come le famigliole felici delle pubblicità in televisione o le pareti spoglie della camera d’albergo che hanno visto il suo cuore acciambellarsi tra le lenzuola, lontano da quelle mani, lontano dalle sue labbra.
Mia si tira su a fatica, sporcando di caffè  lo smalto bianco dei denti dritti. Raccoglie le sue ossa fragili in un cappottino verde sfilacciato agli orli, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando tutto dentro, assieme allo sguardo fiero di suo padre che lotta sempre, lotta sempre.
Luca non chiama più. Lei lo ho baciato per sbaglio. Aveva fumato troppo e bevuto il doppio. ‘Sei come un fratello,’ ‘sei mio fratello.’
‘Un cazzo,’ ha urlato lui, ‘Un cazzo.’
“Io non ce l’ho il tuo sangue. Il tuo sangue, io non ce l’ho. Tu hai le dita sporche del mio, però. Mi hai strappato il cuore.”
Lei ha sentito il suo fermarsi e non battere più.
Mia ha paura della gente che guarda o che non riesce a dire ‘buongiorno’. Ha paura della gente che è sempre giusta, e bella, e vestita bene. Di quella che sa sempre cosa dire, e come comportarsi, o sorridere, o dove mettere le mani, dove guardare, guardare, sì, semplicemente.
Ogni tanto le viene da chiedersi come sia possibile riuscire a sentirsi così piccoli e fragili, non essendo nata formica. Lo sogna una notte ogni due, il giorno in cui cadrà in pezzi in uno dei corridoi del supermarket all’angolo della strada, quello dove lavora il tizio carino che non parla mai. Come lei. È per quello che è carino. Ha le gambe storte e il piercing al naso.
Due giorni fa Laura, la figlia dei vicini che legge sempre sul pianerottolo di casa, le ha soffiato una frase all’orecchio dopo averla abbracciata stretta. L’abbraccia sempre. L’abbraccia da quando Mia le ha allungato una caramella alla fragola, dimenticata in una delle tasche dei jeans, qualche mese prima.
L’infrangersi delle ceramiche sul pavimento del suo appartamento l’avrebbe sentito persino la vecchietta rimbambita del settimo piano, quella che compra il latte tre volte al giorno e bacia il gatto ogni volta che qualcuno le passa affianco.
“Il segreto della felicità non è di far sempre ciò che si vuole, ma di voler sempre ciò che si fa.”
Diceva.
“Che cazzo vuol dire?,” ha pensato Mia. E l’ha pensato per tutto il tempo, anche una volta salita in metro, persino quando quel tipo strambo ha tentato di tastarle il sedere poco prima di regalarle una rosa blu.
Sa solo che volere è facile, Mia, sapere quello che si vuole è complicato, esattamente come tenere su le ciglia del suo occhio destro, che proprio non vogliono saperne di assecondare lo spazzolino appiccicoso del mascara comprato a poco.
 
Fa freddo ed io continuo a non avere tempo.
 
Lo sente sempre svegliarsi, Mia, il suo papà.
Quegli strani “ciaff” – la pianta scalza che si scolla dal pavimento freddo – a risuonare ovattati nel corridoio alle tre di notte.
E tira via le coperte anche lei, raggiungendolo sul divano, acciambellandosi lì affianco.
Lui le sorride e le bacia la fronte, mentre il televisore ciarla di politica e la città mezz’addormentata sbadiglia oltre la finestrella semiaperta in cucina. È sempre illuminata, come se fosse giorno, come non avesse tempo di riposarsi, mai.
Arrivate le quattro Mia s’alza e prepara il caffè. Bevono dalla stessa tazza, lei e suo padre.
Mia sempre per ultima: le piace dolce e lo zucchero rimane sul fondo.
La mamma non si accorge mai di niente, la mattina però la macchinetta lasciata sporca nel lavandino è pulita e già pronta sul fornello. Suo papà non ha motivo per tirarsi su prima di pranzo. La tuta blu sonnecchia nel secondo cassetto del comò da sei mesi.
 
 
 
Qualche volta capita che appena sveglia  i suoi occhi sembrino più grandi e carini del solito.
Ed è bello.
Basta che qualcosa vada storto, però, o che le sembri sia andato storto, perché questi tornino ad esser troppo grandi, o troppo piccoli e a palla, senza fondo, anonimi, orribili, brutti.
È sempre così, Mia. Basta poco perché torni giù.
Giù dove non ci son scuse o alternative. Lì dove è solo un completo accusarsi ed odiarsi così profondamente e tanto a lungo da dichiararsi fieramente nemici di sé stessi, senza alcun se, senza alcun ma.
Mia si disprezza, tanto, come disprezza il suo nome.
Sua madre l’ha venduta, così. Senza chiederle il permesso, senza pensarci due volte. Se solo non piangesse sempre glielo urlerebbe tutte le mattine, per ore: “Mi hai venduta. Come hai potuto? Mi hai venduta.”
 “Mia”. Che razza di nome è “Mia”? “Mia”: come esser un po’ di tutti.
Chiunque la chiami per nome avrà il diritto di sentirla un po’ sua. Che almeno pagassero prima di pronunciarlo, ci guadagnerebbe.
“Mia”. Che schifo.
É per questo che nel quartiene ognuno la conosce in modo diverso. Ha tanti nomi, Mia, ma non Mia.
 
 
 
Fa freddo ed io continuo a non avere tempo.
 
Luca non chiama più. Mia l’ha baciato per sbaglio. Come ha scelto quella facoltà  per sbaglio.
Ed è quasi normale, ormai, pensare di non potercela fare. Come può farcela, Mia? Come?
Che poi, ogni due o tre giorni rimane vittima di quegli attacchi di panico che le spezzano il respiro in due e che le fanno vomitar via troppe lacrime.
Si chiede cosa si provi a sentirsi all’altezza, Mia. All’altezza di un percorso di studi, o del camminare per strada a testa alta, o dell’abbraccio che ogni tanto qualcuno le ruba.
Lei pensa, che no, non è possibile... non si può, non si può davvero, sentirsi all’altezza.
No, punto.
Luca la rimproverava.
‘Tu sei molto più di quanto credi,’ diceva, ‘è la paura che ti fotte’.
Ed era tutto un po’ più caldo. Ma non bastava, non è bastato mai.
‘Mi fotte tutto, Lu. Tutto’.
Tutto. Anche lui e i suoi occhi. I suoi occhi, l’hanno fottuta. La fissava sempre, dannazione. Lui l’ha fottuta, in quella stanza d’albergo di merda, quella con le pareti incrostate.
L’ha fottuta anche suo fratello, che ha deciso di amare una siringa del cazzo, anziché lei.
Non lo vede da mesi, Marco. Sarà crepato sotto un ponte assieme ai tossici di merda pari suoi.
“Mi fotte tutto, Lu. Tutto.”
Tutto.
 
 
Fa freddo ed io continuo a non avere tempo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Prima o poi i miei regali saranno un po’ più decenti. Davvero.
Ti amo sempre. 
E... niente. Sai tutto. Lo sai già.
 
 
Tua nals
   
 
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