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Autore: Pearlice    27/02/2013    8 recensioni
Questa è la storia del sedicesimo comandante di Barbabianca, Izou. Una serie di eventi, tutti inscindibilmente legati tra di loro, che hanno contribuito a portarlo ad un’estenuante battaglia mentale con se stesso: da una parte il piacere perverso ed autodistruttivo, dall’altra il peso del giudizio delle persone care posto come unico freno.
La storia è ambientata poco prima della scoperta della condanna a morte di Ace.
Izou-centric, ATTENZIONE: shounen-ai.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Izou, Marco, Satch
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Sinner


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Sono un peccatore, ma amo il mio peccato più di me stesso e forse questa è la cosa peggiore.
Amo sentirmi quegli occhi addosso, amo sentire questo brivido che mi pervade e quest’insana voglia impossessarsi di me. No, non devo, non posso desiderare una cosa che mi ha portato via l’affetto dei miei nakama e l’ha sostituito con la più bassa delle perversioni. Non posso. I suoi occhi sono su di me, ma io non devo gioirne.
Mi sforzo di concentrarmi su altro ma né il chiacchiericcio chiassoso degli altri comandanti, né le risate tonanti del babbo, tutto intento a bere saké, riescono a distogliermi dalla consapevolezza di essere al centro della sua attenzione.
È vero l’ho fatto così tante volte da aver perso il conto, ma ora voglio smettere, non ce la faccio più a continuare così. Sono arrivato al limite. Se solo potessi spegnere il cervello e smetterla di farmi problemi sarebbe più facile, ma non si può scindere la psiche dal corpo e quanto più continuo a macchiare quest’ultimo, tanto più la mia mente ne sarà dilaniata.
Fingo di prestare attenzione a Rakuyou che parla e il mio sguardo cade di sfuggita su di lui, casualmente. Marco mi spoglia, mi spoglia con gli occhi ed io ne sono eccitato.
 Smettila! Non può piacerti tutto ciò, che essere gretto e meschino penseranno che tu sia?
Lo ignoro e mi sforzo di mandar giù qualche altro boccone della mia cena. È inutile che continui a tentarmi, tanto non mi sfiora nemmeno il pensiero di trascinarlo a forza nella mia cabina e giocare con lui il più peccaminoso dei passatempi, proprio no. È inutile, non li sento nemmeno quegli occhi che mi trafiggono.
Non è possibile che mi cerchino solo per questo dannazione, sono anche io un comandante e merito rispetto! Non sono un giocattolo, non uno sfogo, non un oggetto. Un tempo avevo il loro affetto e la loro ammirazione, ora non più, tutto per questo sbaglio allettante che continuo a commettere, giorno dopo giorno. È tempo di far tornare le cose com’erano prima.
Credi davvero di poterne farne a meno?
Alzo lo sguardo: mi sta ancora fissando.
Oh al diavolo, al diavolo i buoni propositi, al diavolo tutto. Chi voglio prendere in giro? Io ho bisogno di continuare questa masochistica autodistruzione, almeno fino a quando essa non mi avrà corroso l’anima a tal punto da non provare più piacere nemmeno in questo!
Gli faccio un occhiolino ed ora è lui a distogliere lo sguardo, imbarazzato, forse temendo che il babbo veda. So che stanotte, dopo che lui sarà andato via, mi aggrapperò al lenzuolo in preda all’angoscia come se fosse la mia ultima speranza di salvezza, so che mi sentirò sporco, eppure con laboriosa costanza continuo a tessermi da solo la tela in cui rimarrò intrappolato.
Eccomi qua: da sedicesimo comandante di Barbabianca sono stato declassato al decisamente meno rispettabile ruolo di puttana della ciurma. Come è potuto succedere? Beh… immagino sia una storia lunga perché in fondo qualcosa di marcio in me c’è sempre stato.
 
Quando ero solo un bambino non avrei mai creduto che sarei diventato uno dei comandanti della flotta più temuta dei sette mari, ma d’altronde a quell’età non avrei immaginato nemmeno che avrei fatto il pirata.
Semplicemente non rientrava nelle mie ambizioni: il mio unico volere era quello di poter vivere una vita tranquilla, normale, di quelle senza troppe sofferenze ma ricche di piccoli piaceri quotidiani, ma a quanto pare il destino aveva in serbo per me qualcosa di diverso.
Con l’arrivo dell’adolescenza iniziai a manifestare l’insolito desiderio di indossare abiti femminili, così, quando ero solo in casa e nessuno poteva vedermi, mi mettevo addosso i kimono di mia madre. Sulla mia pelle diafana la barba si è sempre rifiutata di crescere e se mi truccavo e pettinavo in una certa maniera potevo quasi sembrare una vera donna e lo dimostra il fatto che mi arrischiavo perfino ad uscire di casa e nessuno dei miei compaesani mi aveva mai riconosciuto. Sentivo i loro occhi su di me e mi compiacevo di quegli sguardi. All’età di tredici anni mi scoprii sempre più soddisfatto di quella mia nuova identità e di come non passasse inosservata al pubblico maschile.
Un giorno però mio padre tornò in casa inaspettatamente presto e mi scoprì in quelle vesti. Era furioso. Mi trascinò fuori casa urlando contro di me davanti a tutti, dicendo che ero un maniaco, un pervertito, che gli facevo schifo e che non voleva avermi sotto il suo stesso tetto.
Rimasi fuori dalla porta, in lacrime, aspettando che aprisse e mi abbracciasse, dicendomi che quelle cose non le pensava davvero, come si suole fare dopo un brutto litigio, ma non lo fece mai. Quando mia madre tornò e mi vide, scoppiò a piangere come se le avessi dato il dispiacere più grande della sua vita e scappò dentro casa anche lei. Ricordo che non mi guardò negli occhi.
Da quel giorno non potei più camminare tranquillamente per le strade del mio paese, senza che qualcuno mi insultasse o mi molestasse. Gli sguardi ammirati divennero, nel giro di una giornata, disgustati: negli occhi di quelle persone potevo vedere soltanto rifiuto nei miei confronti e cattiveria, tanta. Così tanta che per un attimo mi fece chiedere se non fosse veramente così empio quello che stavo facendo, per meritare tale repulsione.
Di giorno i miei compaesani mi biasimavano, ma quando calavano le tenebre so solo io il terrore che avevo perché, a quanto pare, il fatto che io fossi così diverso e sbagliato dava loro il permesso di abusare di me, senza farsi troppi problemi del fatto che fossi poco più di un bambino, o dell’aperta contraddittorietà del loro comportamento.
Resistetti alcuni giorni in quelle condizioni ma poi, una volta capito che non ci sarebbe più stato posto per me in quell’isola, iniziai a pensare ad un piano di fuga, piano che venne inaspettatamente sconvolto da un evento assai insolito per un’isoletta sperduta come la nostra: su quelle placide rive attraccò una nave pirata. Era immensa e, a giudicare dalla sua maestosità, intuii che dovesse appartenere ad un bucaniere dei peggiori.
I miei compaesani si rinchiusero in casa, spaventati, ma non io e non perché non lo fossi, semplicemente perché non avevo una casa in cui nascondermi.
Attesi in un vicoletto che quegli uomini se ne andassero, ma, senza che me ne accorsi, qualcuno arrivò alle mie spalle e mi diede un buffetto per attirare la mia attenzione. Ricordo che mi riparai istintivamente il capo con le mani, a causa delle sevizie subite negli ultimi giorni e, quando mi arrischiai ad aprire gli occhi, vidi un enorme tatuaggio svettare su un petto muscoloso davanti a me e capii che si trattava di uno dei pirati.
Non so con quale scopo quel ragazzo mi avesse fermato, so solo che questo divenne secondario –tanto che non lo scoprii mai- quando il suo sguardo incontrò i miei occhi, i miei lividi, le mie ferite cariche di sangue rappreso e il mio kimono strappato in più punti.
La mia cultura su quei criminali che solcavano i mari al tempo era più che limitata: l’unica cosa di cui ero certo era che i pirati fossero delle persone malvagie, ma evidentemente mi sbagliavo perché quello sconosciuto non solo non mi fece tutto il male di cui si erano resi responsabili i miei compaesani, ma si interessò a me.
Era così insolito per me ricevere attenzioni positive in quegli ultimi giorni, che quasi mi commossi alle domande di quel ragazzo riguardo i segni che martoriavano il mio corpo e le parole iniziarono ad uscire dalle mie labbra senza che il cervello potesse apporvi alcun filtro.
Quando gli confessai di essere un ragazzo quello al principio rimase sorpreso, ma non diede segno di volermi allontanare o malmenare soltanto per questo, anzi, mi fece un sorriso, un sorriso gentile, affabile, dolce, di quelli che nel momento stesso in cui li vedi sai già che non li scorderai mai.
Marco fu il primo ad accettarmi per quello che ero.
Quello che in seguito scoprii essere il comandante della prima flotta, mi propose di unirsi alla sua ciurma, dicendo che con Barbabianca avrei avuto la possibilità di ricominciare da zero la mia vita e, con tutte le probabilità, essere più felice. Aveva un’espressione radiosa mentre parlava di quella che era, a tutti gli effetti, la sua famiglia, tanto che sentii il bisogno di poter beneficiare anch’io di quel calore che mi era stato improvvisamente negato.
Seppur con qualche titubanza, accettai di salire su questa nave, dove avrei trovato una casa, un padre e dei fratelli.
Edward Newgate, nonostante l’apparenza spaventosa, si dimostrò essere la persona più buona d’animo che io avessi mai incontrato. Non mi accolse solo come membro della ciurma, ma come figlio. Lui che, essendo un estraneo, non avrebbe avuto nessun obbligo nei miei confronti, si assunse il titolo di padre, quando l’uomo che effettivamente aveva posseduto tale carica e che avrebbe dovuto per primo accettare le mie stranezze l’aveva appena rifiutato con disgusto.
Sono praticamente stato cresciuto da questi “criminali incalliti” che sono i pirati di Barbabianca, mi è stato insegnato a combattere con spade e pistole e nel corso degli anni ho acquisito una tale abilità sul campo di battaglia che il babbo mi ha nominato comandante della sedicesima flotta. Non saprei descrivere la gioia che provai nel momento in cui mi comunicò tale decisione. Nessuno mi aveva mai dimostrato tanta fiducia come Edward Newgate, anzi. Per lui, nonostante tutto, non sono da meno degli altri uomini e lo ha dimostrato proprio affidandomi cento sottoposti, che non sono certo pochi. Da quel momento iniziai ad avere più fiducia in me stesso e quell’amor proprio che credevo aver dimenticato per sempre dopo le umiliazioni subite nel mio villaggio natale, tornò a galla forte come se non si fosse mai sopito: se il babbo credeva in me mi sembrava doveroso quantomeno fare altrettanto.
Una notte di qualche anno fa però, successe qualcosa che ebbe il potere di farmi provare il terrore e l’incertezza che credevo di aver lasciato sulla terraferma quando mi imbarcai su questa nave. Festeggiammo fino a tardi la nomina di Ace a comandante della seconda flotta ed alzai decisamente troppo il gomito, tanto che di quella notte non ricordo nulla, mentre non potrei mai dimenticare gli avvenimenti della mattina successiva.
Mi svegliai nudo, nel letto di Satch, comandante della quarta flotta.
Lui era ancora profondamente addormentato ed avvinghiato al mio corpo, tanto che non potei attuare il proposito di scappare che mi aveva colto non appena ebbi realizzato quanto accaduto.
Passarono pochi minuti prima che si svegliasse anche lui, ma ricordo che mi sembrarono ore, forse perché in quegli attimi ebbi il tempo di immaginare tutte le più terribili conseguenze che avrebbero potuto far seguito al mio imperdonabile errore. Ero mortificato e mi aspettavo di venir cacciato anche da qui per via di quelle mie “strane perversioni” che mi avevano fatto rifiutare perfino da coloro che mi avevano messo al mondo.
Gli chiesi scusa mille volte, mentre anche lui riprendeva coscienza e acquisiva consapevolezza di quanto era accaduto ma, nonostante le mie infauste previsioni, Satch non sembrò troppo dispiaciuto dalla situazione, perché mi abbracciò e mi tranquillizzò dicendomi che andava tutto bene.
Dopo quella volta facemmo l’amore di nuovo e, per quanto mi riguarda, considero quella come la mia prima volta in assoluto. Con lui è stato decisamente diverso rispetto a quelle nottate di costrizioni e sadiche torture che ancora mi fanno visita negli incubi. Con infinita pazienza, il quarto comandante mi aiutò a superare le paure che erano nate in me dopo quelle esperienze traumatiche e mi insegnò cosa volesse veramente dire amare.
Prima di quel momento non avevo mai pensato che Satch potesse nascondere un lato tanto premuroso: in fondo ero abituato a vederlo scherzare e ridere, prendendo sempre tutto troppo sottogamba, ma con me fu diverso. Lui affrontò la mia situazione con tutta la serietà che questa richiedeva: decise di instaurare un rapporto differente da quello che lo legava agli altri proprio con me e di prendersi cura di quel ragazzino problematico che, nonostante la sicurezza acquisita negli anni passati a fare il pirata, ancora nascondevo dentro me.
Poi, un anno fa, la tragedia.
Se ci ripenso mi sembra ancora impossibile che l’unica cosa per cui avrei venduto cara la pelle mi possa esser stata portata via così facilmente, che Barbanera si sia intrufolato nella cabina di Satch e l’abbia ucciso sorprendendolo alle spalle, poco prima che, come ogni notte, arrivassi io.
Se ci ripenso mi sembra ancora di sentire il suo sangue bagnare i miei abiti, il suo corpo fra le mie braccia diventare sempre più freddo e, come sottofondo alla macabra scena, un urlo di angoscia e disperazione: il mio.
Tutto per quello stupido frutto: sapevo che avrebbe dovuto mangiarlo appena trovato.
Credo di aver esaurito tutte le mie lacrime quella notte, sul lenzuolo bianco che ricopriva quel letto che da quel giorno in poi sarebbe rimasto vuoto e su cui sprofondai il volto nel tentativo di soffocare la mia disperazione e di non farmi vedere dagli altri in quello stato. Mi vergognavo a far vedere il mio viso, il viso di un comandante di Barbabianca, rigato di lacrime.
Ricordo Ace inginocchiato accanto a me, che tentava di recuperarmi da quel baratro di disperazione in cui ero caduto, con il fare incerto e confuso che hanno solitamente i bambini nel vedere un adulto piangere. Apprezzai il suo sforzo: appena aveva scoperto di Satch era una furia ma per me contenne la sua rabbia, anche se, dopo essersi reso conto che le sue parole sarebbero servite a ben poco, uscì di corsa sbattendo la porta.
Credo che la perdita di Satch sia stato il tiro più basso che la vita mi abbia giocato. Proprio quando iniziavo a pensare che il nostro amore non sarebbe mai potuto finire ed insieme cominciavamo a fantasticare su come dirlo agli altri, ecco che questo è stato troncato di netto, nel peggiore dei modi.
 
 Da quel momento ho iniziato a cercare Satch nei corpi degli altri comandanti. Ho tentato di ritrovare le stesse sensazioni che avevo provato con lui, di immaginare che fosse lui dentro di me e non uno qualsiasi dei miei compagni che, uno dopo l’altro, hanno incominciato a bussare alla porta della mia cabina quando il buio della notte li assicurava di non esser visti da sguardi indiscreti. Non che non ci avessero mai provato prima, ma le loro avances erano sempre state giocose: ci scherzavamo su ed io non davo loro troppo credito, prima per via della paura che avevo per via di ciò che mi è stato fatto in passato, in seguito per la mia storia con Satch, che è sempre rimasta nascosta agli occhi degli altri.
Dalla morte di questo però le cose sono cambiate ed io ho iniziato a rispondere in maniera altrettanto provocatoria alle loro profferte, di modo da indurli in tentazione e ritrovarli fra le mie lenzuola durante la notte. Sono l’unico della ciurma che ha il privilegio di vedere l’apatico Marco tradire qualche espressione, Rakuyou arrossire come un ragazzina innamorata e Vista sfoderare le sue carte migliori nell’ars amatoria, immagino non ci sia molto da andarne fieri, eppure non riesco a dispiacermene fino in fondo, perché so quanto ciò sia fondamentale per me.
Loro cercano una via di fuga alla noia e al bisogno che, stando per lungo tempo in mare, diventa impellente, io cerco Satch, pur sapendo nel fondo del mio cuore che nonostante io riesca a riviverlo durante i rapporti con un realismo che quasi mi spaventa, questo sterile piacere sessuale non potrà mai rimpiazzare il sentimento che mi legava a lui.
Sono nell’inverno della mia vita e gli uomini che incontro lungo il mio cammino sono la mia unica estate. Un’estate breve ed arida, che lascia dietro di sé terra bruciata, è vero, ma pur sempre un’estate.
È così che mi sono ridotto a questa condizione: a poco a poco sono caduto in una voragine di perversione che ha fatto di me il peggiore dei peccatori. Nessuno sa cosa cela il mio fare malizioso, nessuno sa ciò che mi tengo dentro, anche se ieri, per colpa di un avversario un po’ troppo loquace, per poco non mi sono tradito.
Stavamo affrontando una ciurma nemica e mi stavo battendo contro uno di loro al massimo del mio valore, come sempre, quando però quello ha deciso di attaccare la parte più vulnerabile di me: la psiche.
« Per quale motivo credi che Barbabianca ti abbia voluto nella ciurma eh? » mi ha apostrofato e a quelle parole mi sono immobilizzato con un fastidioso groppo alla gola, immaginando dove volesse andare a parare. Era già successo che dei nemici avessero tentato di provocarmi tirando in ballo il mio modo di vestire e facendo malevole insinuazioni, ma prima non davo loro troppo adito perché sapevo che non era la verità, mentre ora…
« Allora te lo devo dire io eh? » ha insistito quello, forse notando l’insperata efficacia della sua tecnica « Io credo che volesse fare un regalino ai suoi uomini… » non è riuscito a finire il suo discorso o, anche se lo ha fatto, non me ne sono accorto perché ho perso il controllo, come raramente mi accade ed ho iniziato ad urlare, coprendomi le orecchie con i palmi delle mani, schiacciato dal peso di quest’angoscia che non riesco a controllare.
Non volevo sentire.
Non volevo sentire cosa sono diventato agli occhi degli altri.
Ciò che è successo dopo è confuso nelle mie reminescenze, ricordo solo che ad un certo punto è intervenuto Fossa, fermandomi con la sua enorme mole, ricordo il sangue sui miei vestiti, tanto sangue, ricordo il nemico, o meglio, ciò che ne restava, a terra ed il babbo che mi guardava come se fosse la prima volta che mi vedesse.
Ho una guerra che infuria nella mia mente. Da una parte mi vergogno di ciò che sono diventato per i miei compagni e non voglio esser considerato solo alla stregua di un oggetto sessuale, dall’altra non riesco a rinunciare a questo piacere malato, ma soddisfacente. Due visioni completamente contraddittorie di un’unica realtà che si scontrano senza tregua istante dopo istante e fino ad ora nessuna delle due ha vinto sull’altra, ma mi chiedo per quanto ancora non vinceranno entrambe su di me. Non so per quanto riuscirò a sopportare il peso di questa situazione.
Cercando Satch ho finito per perdere me stesso.
Non so cosa ne è stato dell’Izou innocente e un po’ timido che ero prima, è come se fossi cresciuto all’improvviso ed ora guardassi il mondo che mi circonda con il disincanto tipico dell’adulto che ha visto svanire nel nulla tutti i sogni che aveva proiettato nel futuro. Ho sviluppato la più gretta e disillusa delle personalità, godo nel lanciare provocazioni e nel vedere quanti pesci abboccano al mio amo per poi usarli per un piacere effimero ed egoistico: dal ragazzino innamorato che ero sono divenuto l’amante di tutti, tranne che di me stesso.
Satch, tu non saresti fiero di me, lo so.
 
Basta, basta pensieri! So io come mandarvi via ora.
Sono stanco di starmene fermo qui: la cena sembra andare per le lunghe stasera, ma io non sono proprio dell’umore di banchettare, così, accusando un leggero mal di testa, mi ritiro nella mia cabina, cercando di mantenere la mia solita aria impassibile, anche se dentro sto fremendo. So che lui capirà, so che mi seguirà, spero solo ci metta poco.
I miei desideri vengono esauditi perché, dopo pochi minuti, sento la porta della mia stanza cigolare e lui entra, chiudendola frettolosamente alle sue spalle.
« C’è qualcosa che ti preoccupa Izou? » Domanda dopo qualche secondo di silenzio, sedendosi sul mio letto. Io, che sto sciogliendo la mia elaborata acconciatura, mi blocco a metà, per poi proseguire fingendo indifferenza.
« Figuriamoci… » sbotto, tentando di mantenere intatta la mia maschera da duro.
Sciocco Izou, chi credi di ingannare? Quando Marco fa una domanda il più delle volte ha già la risposta. Lui ti conosce meglio di chiunque altro, perché ti ha guardato dritto negli occhi quando ancora vi si leggeva tutto lo spavento che solo chi ha provato il lato peggiore dell’uomo riesce a mostrare. Lui sa che non sei forte come vuoi apparire.
« Ti ha mandato il babbo per caso? » Domando acido, memore dello sguardo accigliato e penetrante che il vecchio mi ha lanciato dopo il combattimento di ieri.
« Non dire stronzate » Mi redarguisce, brusco come non è solito essere. Sollevo lo sguardo su di lui, sorpreso da quel modo di fare che tanto non gli si addice e lo vedo fissare il pavimento, vacuo. Non mostra espressioni particolari, no, Marco non lo fa mai, ma capisco che è preoccupato.
È preoccupato per me…
« Vista mi ha detto che sono diverse notti che ti sente gridare nel sonno. Fossa mi ha raccontato di come abbia dovuto fermarti ieri… » Continua, lasciando la frase in sospeso.
Hanno parlato di me…
I suoi occhi incontrano i miei e mi fissano interrogativi, lasciandomi intendere che no, non gliel’ho data a bere. Distolgo lo sguardo, a disagio. Non ho voglia di parlare di quello che mi passa per la mente e di metterlo a conoscenza del mostro che mi divora. Le cose non si stanno mettendo bene per me e devo passare velocemente dalle parole ai fatti.
Mi inginocchio sul letto, accanto a lui e senza lasciargli possibilità di scampo catturo la sua bocca con la mia.
Subito mi sento meglio e impaziente di averlo dentro di me, di gemere e godere con lui, non importa se non durerà a lungo, non importa se questo si andrà ad aggiungere alla mia già lunga lista di peccati da espiare: è di sesso che ho bisogno e ne ho bisogno ora.
Bravo, primo comandante, così… dammi ancora un po’ del mio nettare quotidiano.
Lui ricambia il bacio per una manciata di secondi, mordo le sue labbra con desiderio sfrenato e percepisco un brivido attraversare il suo corpo. Solo in questi momenti capisco quanto ne valga la pena di dover sopportare l’onta di esser diventato il passatempo di tutti: come potrei fare a meno di questa sensazione inebriante? Come potrei fare a meno di sentirti ancora qui con me? Mi spoglio in un attimo e sento i miei pensieri nefasti scivolare via come questi vestiti, già pregusto quel piacere di cui sono divenuto ossessionato e, sondando il suo corpo con la mano, percepisco che anche Satch condivide le mie stesse brame.
Satch-kun ti ricordavo più attivo in certi momenti… Non ti stai stancando di me vero? Certo che no, noi non potremmo mai separarci. Rendimi tuo ancora una volta.
Faccio per sbottonare i suoi pantaloni ma quello, con un gesto veloce, mi blocca i polsi in una stretta ferrea e mi priva delle sue labbra.
Mi costringo ad aprire gli occhi, infastidito e il viso di Satch torna ad essere quello apatico del primo comandante.
Che cosa ti prende Marco? Che cosa ti impedisce di attingere alla fonte della mia disperazione come tuo solito? Non risparmiarmi… ti prego.
Mi allontana, fissandomi per un momento negli occhi. Il suo sguardo è indecifrabile, come sempre: capire cosa cela la sua espressione impassibile sta diventando il mio rompicapo preferito. In questo momento cosa vuole comunicarmi? Forse è suggestione, ma mi sembra di riconoscere una sorta di rimprovero in quegli occhi, rimprovero che io sono più che deciso a non ascoltare.
Lo bacio di nuovo, con foga, stringendogli il volto fra le mani di modo che non possa scansarsi, c’è quasi rabbia in me, ma comunque non riesco ad avere il sopravvento.
Senza quasi rendermene conto mi trovo sdraiato sul materasso, con Marco sopra di me, che mi blocca i polsi. Stavolta la sua espressione tradisce qualche indizio in più e capisco che non mi ero sbagliato, mentre inveisce:
« Adesso basta Izou. Lo vuoi capire che non è un gioco? Tu non sei un gioco. Smettila di trattarti come tale. Questa sera non sei in te, come puoi pensare che io possa starci lo stesso? » Non grida, Marco non è tipo, ma è furioso, lo sento e basta, lo so.
Forse sa tutto, forse ha capito troppe cose di me. Me ne vergogno.
Senza che riesca ad impedirlo sento gli occhi velarsi di lacrime che rapide scendono sul volto e cadono sul cuscino. Non posso fermarle, non posso asciugarle, provo a ribellarmi da quella stretta per tentare di mantenere intatto quel poco che resta della mia dignità ma lui non si muove di una virgola.
È forte Marco, molto più di quanto lo sia io.
Rimane a fissarmi qualche secondo, quasi a volermi ben imprimere nella mente che lui è stato testimone di quelle lacrime e che non posso più nascondermi, non con lui almeno, poi, lentamente, mi lascia. Come lo vedo allontanarsi un moto di angoscia si impossessa di me. Non può farmi questo: non può costringermi ad uscire allo scoperto in questo modo e poi lasciarmi da solo, con lo schifo della mia esistenza come unica compagnia.
Non lasciarmi, non dirmi addio, non voltarti, piantandomi in asso.
Forse il primo comandante percepisce la mia supplica silenziosa, perché fa per alzarsi, ma poi sembra ripensarci e si sdraia con la testa sul cuscino, chiudendo le palpebre.
Mi rannicchio contro il suo costato, senza più timore di mostrare il mio bisogno di conforto e stringo convulsamente un lembo della sua camicia. Tanto ormai cos’ho più da perdere, dopo che mi ha visto più nudo di quando mi ha tolto i vestiti con le sue stesse mani?
Credevo che dopo quella notte non avrei più pianto, Satch, ma mi sbagliavo. Credevo che nulla avrebbe potuto colpirmi come la tua morte, sbagliavo di nuovo.
Mi sento orrendamente debole e non so bene nemmeno io il motivo per cui mi abbandono a questi indegni singhiozzi davanti a lui. Forse è tutta l’angoscia, la rabbia, la tristezza di questi giorni che alla fine è venuta a galla… O forse… Forse è qualcosa di diverso… Qualcosa di… Positivo?
Ci metto un po’ a prendere atto di cosa abbia suscitato in me una commozione talmente forte da spingermi alle lacrime e alla fine lo capisco: lui non è venuto qui per il sesso, non è quello che voleva comunicarmi fissandomi durante la cena, non è l’unica cosa che vede in me. Già, oggi Marco mi ha dato molto di più del piacere evanescente di una scopata, qualcosa che non si scioglierà come neve al sole dopo l’estasi di una manciata di minuti.  
Marco… Ragazzi… Grazie.
In fondo noi pirati di Barbabianca siamo una grande famiglia e, anche se il modo che abbiamo di esserlo –per quanto riguarda me e gli altri- è decisamente inusuale, tra noi c’è qualcosa che va oltre lo sfogo delle più basse pulsioni, come il primo comandante mi ha appena dimostrato.
 Non ci siamo detti nulla di particolare, ma lui è qui ad occupare il mio letto, con una mano ad accarezzarmi pazientemente ed impercettibilmente i capelli, mentre sfogo le mie lacrime. Ha un fare quasi paterno con me, nonostante l’ambiguità del nostro rapporto, ma alla fine è più che normale considerato che è stato lui in persona a raccogliermi dalla strada, come si fa con un randagio impaurito. So che non è un caso che sia voluto rimanere pur possedendo anche lui un letto comodo e lo sento più vicino che mai, anche più di quando è fisicamente dentro di me.
A poco a poco mi calmo e le mie lacrime cessano di scorrere, come se il suo tocco e la sua presenza abbiano un effetto taumaturgico sul mio animo lacerato.
Non tornerò più quello di un tempo, questo lo so. Ormai sono troppo immerso nel vizio per poterne uscire come se nulla fosse, ma, se non altro, ora so che qualunque cosa io sia diventato, non ho perso l’affetto e il rispetto della mia famiglia. Posso continuare nel mio personale percorso di traviamento senza sentire più il peso del loro giudizio. Se loro accettano la perversione che racchiudo in me, allora forse posso iniziare ad accettarla anche io.
Sono un peccatore, ma amo il mio peccato più di me stesso e forse questa è la cosa migliore.







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