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Autore: EsseTi    02/03/2013    5 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare sé stessi, andare contro sé stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l'auto-contestazione.

Carmelo Bene, su L'Europeo, 1968


 

Chapter 22nd: Come si cambia per non morire
 
Un vecchio detto palermitano lo aveva sempre fatto sorridere.
S’unceru: ogghiu fitusu e paredda spunnata.
Era un modo poco fine per indicare due persone che si avvicinavano quando entrambe avevano qualcosa che proprio non andava. Come l’olio sporco, usato, e una padella bucata, appunto.
Non aveva idea di chi, tra lui e Dominik, fosse la padella spunnata.
Forse lui. Manfredi lo aveva preso letteralmente a mazzate.
- Federico? – Dominik lo chiamava, con un colpetto sulla gamba.
Era completamente coperto da quell’enorme plaid blu che tenevano sempre sul divano: era così raggomitolato che non riusciva nemmeno a distinguerne i contorni del corpo.
Stava sorridendo, però.
Aveva il volto un po’ stanco, ma luminoso e rilassato, come se non potesse trovarsi in nessun posto migliore al mondo.
- Che c’è? – Lo vide muoversi sul divano, spostandosi dal suo posto per raggiungerlo.
I piedi nudi sporgevano sotto l’orlo della coperta, e li portò lontano, dall’altra parte, mentre il busto si appoggiava a lui. Stese le gambe sul divano, occupandolo completamente, mentre con il busto gli si raggomitolava completamente addosso.
Portava quel solito maglione blu che gli stava troppo largo.
Avrebbe voluto vederlo con addosso di nuovo quel maglione viola che aveva messo la sera prima, quando erano usciti insieme e avevano cenato fuori.
Aveva il corpo stranamente freddo, ma quando respirava soffiava fuori un fiotto d’aria caldissima.
- Senti freddo? –
- Un po’. –
- Stai a piedi nudi, certo che hai freddo! Vieni qua. –
Gli circondò il corpo con il braccio. Lo fece con noncuranza, come se lo facesse tutti i giorni, eppure si sentiva una strana inquietudine dentro il petto, come se ci fosse qualcosa di diverso dal solito.
Dominik si strinse contro di lui, portando le ginocchia al petto, e adagiando il capo sul suo petto.
La sua mano emerse da sotto la coperta, cercando il suo braccio e seguendone il profilo con una lieve carezza, fino alla mano, con una strana curiosità. C’era sempre curiosità in quello che Dominik faceva, quando si rapportava a lui. E da quando avevano cenato insieme, da quando si erano avvicinati su quello stesso divano, sembrava che le cose stessero accelerando ad un ritmo forsennato.
Si sentiva come una piccola pedina con indosso un paio di pattini a rotelle, sulla cima di una salita di quelle che si vedevano nei cartoni animati. E, nel momento in cui Dominik si era disteso su di lui, su quel divano, o quando aveva accettato di uscire con lui, qualcuno lo aveva spinto di sotto.
E adesso stava sfrecciando troppo velocemente, così tanto che avrebbe finito per inciampare in una piccola buca e rotolare, facendosi fin troppo male.
Abbassò il volto. Dominik se ne stava fermo, rannicchiato. Era impossibile anche solo immaginare di provare dolore guardando una creatura così.
Sentendosi osservato, Dominik si riscosse.
Quando alzò il viso verso il suo, soffiò appena vicino al suo mento.
E poi lo baciò. Semplicemente, toccandolo con quelle labbra morbide, calde.
Erano già dischiuse, il sapore della sua saliva era dolciastro.
Allora non solo non riuscì più a inspirare aria, ma quella poca che aveva nei polmoni si attorcigliò in un vortice che gli risucchiò tutto, persino l’energia. Gli mancava l’aria, e gli girava la testa, ma non riusciva a staccarsi.
Fu come una scossa elettrica.
Dominik era così arrendevole. Aveva piegato il capo indietro, si era spinto verso di lui, artigliandogli le mani sulle spalle con una strana morbidezza. Gli mancava quasi l’aria, per il modo in cui lo stava baciando: sembrava nato solo per fare quello, come se non avesse fatto altro che baciare, nella vita. Invece non aveva mai baciato nessuno.
Quell’idea lo elettrizzava, come se fosse un pirata che stesse esplorando un nuovo vascello e avesse appena scoperto il tesoro più enorme che avesse mai visto.
Lo strinse sulla nuca, sentendolo mugolare. Percorse quella pelle con al punta delle dita, come se temesse di romperlo. Scese sulla spalla, sul braccio, sul fianco.
Ad ogni tocco, Dominik vibrava come un corpo che stesse per andare a fuoco, e lui aveva una voglia matta di toccarlo e scoprire se tutto fosse caldo come il suo respiro nella bocca.
Sollevò il bordo del maglione per toccare quella pelle. Doveva essere così liscia…
- Scusi? Siamo arrivati. –
Federico inspirò l’aria fresca.
I polmoni tornarono a riempirsi, il mondo smise di girare.
Spalancò gli occhi.
Gli girava la testa, come se fosse stato in apnea per minuti interi.
Persino la luce sembrava accecarlo. Si toccò istintivamente le labbra, guardandosi intorno. Vide il volto di una donna che lo fissava preoccupata e un po’ stranita.
Il cuore gli batteva all’impazzata dentro il petto, così forte che non riusciva nemmeno a respirare, come se gli avesse otturato le vie aeree dopo quel primo respiro ce gli aveva sparato l’aria in ogni punto del corpo..
Dominik che lo baciava. Ce l’aveva fissa nel cervello quell’immagine. Persino la sensazione delle sue labbra morbide era stata così vera da sembrare reale.
Invece no.
Non era a casa sua, con Dominik. Era sull’aereo. Era appena atterrato a Palermo.
Si era solo addormentato. Aveva solo sognato.
E no, Dominik non l’aveva mai baciato.
Non l’avrebbe mai fatto.
Figurarsi. Non si sarebbe mai comportato in quel modo.
Federico reclinò la testa indietro, poggiandola al sedile e cercando di riprendere fiato.
Stava impazzendo.
Era tutto quel casino che lo stava esasperando.
Era come nel sogno.
Lui in cima a quella salita, con i pattini a rotelle, e tutto stava andando troppo veloce, e lui doveva fermarlo, trovare il modo di frenare, di rallentare, senza farsi male.
Era stato un sogno stupido, una cosa che non sarebbe mai accaduta e…e al diavolo, non aveva mai voluto che accadesse!
Bugia, Federico. Immaginava spesso di baciare Dominik, ma un conto era pensarci così, una volta tanto, un conto era sognarlo.
Lo aveva avvelenato, era quella la verità. Lo aveva trascinato in quel ciclone, e le cose stavano precipitando. Doveva solo stare tranquillo, adesso, ecco.
Chiudere gli occhi, respirare, poi riaprirli e rendersi conto di cosa stesse realmente succedendo.
Doveva rallentare. Doveva frenare quella valanga di emozioni, rimettere la prima e ripartire da capo. Essere di nuovo a Palermo, lontano da Milano, da Dominik, da Samuele e da tutto, quello l’avrebbe aiutato a vedere di nuovo le cose fuori da quella gabbia dorata che Dominik gli aveva costruito intorno.
Al ragazzino, d’altronde, non importava proprio niente di tutta quella situazione.
Era partito, il giorno precedente, con la stessa leggerezza con cui era arrivato.
Lo aveva salutato con un sorriso, sulla soglia della porta, di primo mattino, e se l’era chiusa alle spalle. Non un abbraccio, non un tocco sulla spalla, nemmeno una stretta di mano.
Una stretta al cuore, quella sì, perché se ne era andato come era venuto, come se le settimane precedenti non avessero significato niente e lui stesse ancora solo inseguendo il suo sogno a colori.
Era difficile persino rendersi conto che fosse esistito davvero, e che non l’avesse sognato.
La donna che lo aveva svegliato si era allontanata con aria confusa, seguendo la fila di gente che si
affrettava per scendere dall’aereo.
Federico si alzò, recuperando il proprio bagaglio a mano dallo scomparto sopra al suo posto.
Era lo stesso borsone con cui, appena pochi mesi prima, aveva fatto il viaggio inverso.
Palermo-Milano. Era sembrato l’inizio della fine, quel viaggio, e invece era stato l’inizio dell’inizio.
Se si fosse guardato allo specchio si sarebbe trovato diverso.
Era andato via da Palermo con il cuore spezzato, il vuoto dentro al petto, e la consapevolezza di non avere più nulla da perdere. Adesso tornava con un lieve sorriso, con delle amicizie nuove, con la flebile speranza di ricostruirsi qualcosa intorno.
E con quel sogno insulso.
Come aveva fatto a sognare una cosa del genere? Come aveva potuto anche solo immaginare di baciare Dominik a quel modo?
Era per tutto quello che era successo: quella finta immagine di complicità, di tenerezza, quel sorriso diverso da quello che aveva conosciuto quando era arrivato, e forse anche le parole di Samuele, la sua convinzione che ci fosse qualcosa di buono per tutti al mondo, tranne che per lui, forse.
Voleva sparire. Sotterrarsi magari.
Invece si costrinse a uscire da quell’aereo, percorrere il tunnel che l’avrebbe condotto tra le mura dell’aeroporto, per recuperare la sua valigia.  Camminava come un automa, come un uomo alla ricerca del mondo.
Fermo lì, in aeroporto, era come un uomo morto in Purgatorio: non era né all’Inferno, né in Paradiso. Non era il Federico che c’era a Milano, ma neppure quello che era sempre stato a Palermo. Era cambiato, forse?
Si era chiesto, appena due giorni prima, come sarebbe stato tornare a casa, se tutto sarebbe stato uguale o diverso. Aveva sperato che tutto fosse diverso, che tutto lo spingesse nella direzione che aveva intrapreso.
Invece no. L’aeroporto di Palermo era sempre lo stesso. Anche la voce di suo padre al telefono, e il sole, e la gente, era tutto uguale.
Era lui allora, quello diverso, perché lì dentro non si sentiva come l’uomo che era partito pochi mesi prima.
E allora camminava alla ricerca di se stesso, indeciso su quale sarebbe stata la riva del fiume che avrebbe raggiunto.
Palermo o Milano.
Menzogna o verità.
Manfredi o Dominik.
Non c’era nemmeno motivo di pensarlo, non doveva!
Era stato solo un sogno stupido, spinto dall’esasperazione.
Scosse il capo, poi sollevò lo sguardo su quello che aveva intorno.
A Palermo c’era il sole: i raggi caldi filtravano attraverso i vetri fino all’interno. Era vero che i raggi del sole a Milano non scaldavano quanto quelli di Palermo. E gli venne da sorridere, perché era Manfredi a ripeterlo sempre quando gli proponeva di lasciare tutto e trasferirsi, ai tempi in cui avevano ancora diciotto anni e potevano permettersi di dirlo per scherzo.
Avrebbe rivisto Manfredi, durante le vacanze. Era inevitabile.
Era inevitabile che qualcuno ne parlasse, che lo incontrasse per strada, che lo vedesse sempre con lo stesso gruppo di amici. E a Palermo non poteva essere se stesso: a Palermo non poteva portarlo in un locale a bere birra e guardarlo sorridere con gli occhi di una sogliola appena pescata, non poteva chiedere a nessuno cinque minuti per staccare la spina, che Manfredi era troppo vicino. A Palermo doveva fingere che non fosse cambiato nulla, che fossero uniti da vent’anni di solida amicizia e che non fosse stato almeno in parte proprio Manfredi a spingerlo a lasciare la città.
Era patetico, tra l’altro.
Un coglione che si struggeva e che non aveva nemmeno il coraggio di tornare a casa sua a trovare sua madre perché l’idea di rivedere Manfredi lo terrorizzava. Oh, insomma, si stava comportando come un ragazzino.
Strattonò il borsone sulla spalla, in attesa davanti al rullo che la sua bella valigia blu scuro gli passasse davanti. L’orologio segnava le dodici e trenta: era in perfetto orario. Nessun ritardo, era in tempo persino per pranzo. magari sua madre avrebbe cucinato le lasagne, che sapeva quanto le adorava.
Piacevano anche a Manfredi. Il lunedì, dopo scuola, pranzavano sempre a casa sua, perché la domenica sua madre preparava sempre due porzioni di lasagne in più, perché loro potessero mangiarle e poi mettersi a studiare. Il concetto di studiare, di solito, prevedeva i Simpson, dragonball, una partita a fifa, e magari, se proprio restava tempo, una letturina a due pagine del libro di letteratura.
Federico strinse la mano intorno al maniglione della sua valigia, strappandola a quel flusso di bagagli e allontanandola dalla calca di gente.
Voleva uscire, respirare di nuovo l’aria di Palermo, quell’aria fresca, leggera, che non si attaccava ai polmoni come il petrolio alle penne degli uccelli, come a Milano. Voleva godersi il tepore del sole sulle braccia, togliersi il giubbotto pesante e scoprirsi la pelle.
- Federico! –
Aprì gli occhi. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. Era la voce roca e bassa di suo padre.
E anche lui era lì, non era solo un sogno.
Era lì, sempre con quegli occhiali troppo grandi dalla montatura antiquata, con quel giubbotto leggero orrendamente marrone e con troppo pochi capelli in testa. E stava sorridendo a lui, andandogli incontro a braccia spalancate. In quel momento, avrebbe tanto voluto poter tornare bambino, come quando lui tornava dal lavoro, nel pomeriggio, e gli correva incontro.
Non perché portasse qualche cosa di particolare, magari un regalo, né per altri motivi particolari. Gli piaceva semplicemente andare alla porta ed essere il primo della famiglia a salutarlo, prima ancora di Milena.
Adesso che era grande, però, poteva solo poggiare il borsone e la valigia sul pavimento e rispondere a quell’abbraccio impacciato, che suo padre non era mai stato particolarmente bravo a mostrare i propri sentimenti.
- Ciao papà – mormorò, con il volto affondato nella sua spalla.
Suo padre gli diede due pacche sulle spalle, prima di allontanarlo appena per guardarlo.
- Come stai, com’è andato il viaggio? Ti trovo bene! – Federico sorrise.
- Anche io, papà, anche se mi sembra di averti visto con più capelli l’ultima volta! – Lo vide ridere, con quel sorriso largo che aveva preso da lui e che a Manfredi era sempre piaciuto da morire.
Era possibile pensare di più a Manfredi, adesso? Era come se trovarsi di nuovo lì lo rendesse più reale. Ma suo padre gli prese il borsone praticamente dalle mani, iniziando a camminare.
- Andiamo, dai. Tua madre non sta più nella pelle, lo sai com’è fatta, e c’è un casino terribile in giro. Ah, e ho portato una sorpresa, non potevo farne a meno! –
Per un attimo, Federico ebbe il terrore che suo padre si riferisse a Manfredi.
Come nei migliori paradossi del destino, suo padre e Manfredi avevano sempre avuto un ottimo rapporto. Tutte le domeniche se ne stavano sul divano a guardare le partite, e ogni scusa era buona per invitarlo a cena. Si era chiesto spesso se tutto quel rispetto e quel benvolere sarebbero svaniti di fronte alla verità, ma oramai non era più il caso di chiederselo, dato come era finite le cose.
Ma giunti fuori, nel parcheggio, di fronte all’automobile, Federico sorrise.
Era incorreggibile. E questa volta, però, volle anticiparla.
La raggiunse alle spalle mentre era tutta concentrata sul suo cellulare, e la strinse in un abbraccio.
- Milena! –
La sua risata cristallina riempì l’ambiente intorno, mentre si voltava per guardarlo. Aveva i capelli sciolti, acconciati in onde che terminavano subito sotto il suo orecchio, dandole un’aria parecchio sofisticata, nonostante quello sguardo da bambina. Lo abbracciò anche lei, una volta riuscita a liberarsi.
- Sono così contenta di vederti! –
- Ma vi siete visti fino alla scorsa settimana! – ribattè suo padre. Milena fece spallucce.
- Una settimana è un tempo lungo! Allora, come stai? E Dominik? Ha fatto l’esame? L’hai lasciato a Milano? –
Federico girò intorno all’automobile, caricando la valigia e il borsone nel cofano, mentre sua sorella lo inseguiva parlando a raffica. Il sorriso di suo padre, che tentava di camuffare, era emblematico. Erano belli i momenti così leggeri: erano quelli che gli facevano mancare il coraggio di dire a tutti la verità. Chiuse il cofano con un colpo secco.
- Si, l’ha fatto l’esame, e ovviamente è andato benissimo. – Salì in macchina, rubando il posto sul sedile anteriore, e Milena fu costretta a sedersi dietro, fissandolo nel riflesso dello specchietto retrovisore. La macchina profumava sempre dello stesso deodorante per auto che suo padre comprava da più di cinque anni. – E’ tornato a casa sua, a Praga. E’ partito ieri mattina -  concluse, ma lei aveva già iniziato a parlare di un altro argomento.
- Mamma ha organizzato tutto a casa nostra quest’anno, per Natale! Saremo tutti lì, e sta cucinando un sacco di cose! Veniamo anche io e Michele, naturalmente. E ci sarà zia Giuliana, cerca di essere gentile! –
- Si, d’accordo – rispose, con uno sbuffo.
- E anche con Giulio e Gabriella, che sono dei cari ragazzi! Forse lei un po’ meno, ma sai che la mamma ci tiene, sono suoi nipoti! E la nonna sarà felicissima di rivederti, le manchi tanto! –
Federico si portò una mano sul viso.
- Dovevi per forza portarla, papà?! – sbuffò poi, esasperato.
Le voleva bene, ma quando iniziava a parlare in quel modo era peggio di una sorellina di sette anni fissata con le Winx. Milena si zittì con uno sbuffo, prendendo a guardare fuori. Suo padre, invece, era concentrato nella guida. Le strade congestionate di Palermo non sembravano adesso tanto diverse da quelle di Milano.
- Allora, Federico, non mi racconti niente? Come vanno le cose a Milano? – gli chiese poi. Nonostante non lo avrebbe mai ammesso, suo padre era fiero di lui; gli mancava, ma era felice di vederlo almeno sistemato, impegnato e indipendente in una città tanto lontana.
- A meraviglia, tutto sommato. All’inizio è stato un po’ difficile, ma adesso va meglio. –
- Hai detto a tua madre che vuoi portare la macchina al tuo ritorno, no? –
- Si. E papà, è comodo! Per adesso non posso fare troppi turni serali, e tutte le volte devo trovare qualcuno che mi accompagni a casa. Mi secca un po’. E poi mamma la macchina non la usa nemmeno! –
Lo vide annuire, pensieroso, ma sapeva che gli stava dando ragione, in verità.
- Milena ci ha raccontato che a casa te la cavi bene, soprattutto a cucinare. Sapessi com’era sorpresa tua madre! E…ci ha detto del tuo coinquilino, che è cieco…come mai non ce l’hai detto? –
Sempre boccaccia larga, Milena. Le lanciò uno sguardo stizzito dallo specchietto, la quale lei rispose con un’alzata di spalle. Poi tornò a guardare fuori, poggiando il capo sulla mano destra.
Non gli andava di parlare di Dominik. Anche solo farne il nome gli faceva tornare alla mente la sensazione bruciante delle sue labbra contro le proprie. Una sensazione inspiegabile, dato che non si era mai verificata.
- Lo sai com’è mamma, se gliel’avessi detto avrebbe iniziato a tartassarmi di telefonate, a compatirlo e a cercare di aiutarlo, e Dominik odia queste cose. E’ un tipo un po’ particolare, e ho faticato parecchio per legarci un po’…se si fosse messa di mezzo mamma sarebbe stato peggio! –
Pensare a Dominik adesso era strano. Parlarne con suo padre era strano.
Quando era partito, aveva pensato che avrebbe lasciato il cassetto Dominik chiuso, pronto a riaprirlo una volta tornato a Milano. Parlarne adesso avrebbe significato portarlo fuori dal mondo ideale che si era creato per lui. Invece il cassetto si era aperto da solo.
- Ah, ha chiamato Manfredi, qualche giorno fa. Voleva sapere quando saresti tornato. Non gliel’avevi detto? – Milena dal sedile posteriore sbuffò. Odiava proprio sentir parlare di Manfredi.
- Eh?...No, io…sarebbe dovuta essere una sorpresa, sai – mentì. Aveva pensato per un attimo di tirar fuori una litigata, magari, ma non sapeva quanto Manfredi avesse detto ai suoi genitori.
Perché chiamare a casa sua, poi? Qual era il motivo?
Loro non si parlavano nemmeno più.
Suo padre svoltò a destra al penultimo semaforo prima di arrivare a casa.
- Comunque gli ho detto che saresti arrivato oggi, che magari poi l’avresti chiamato. Tanto viene a vedere le partite questo pomeriggio, no? –
- Si, certo. Ne abbiamo già parlato, ma oggi gli chiedo conferma – mentì ancora. Non era arrivato nemmeno da mezz’ora e aveva già mentito due volte. Iniziava proprio bene.
- Verrà, verrà! Tua madre ha preparato le sfingi! Lo sai quanto gli piacciono! –
Si, papà, lo so quanto gli piacciono. So quanto gli piacciono le sfingi, e le lasagne di mamma, e quanto gli piaccio anche io. Doveva chiamarlo per forza, invitarlo a casa, a vedere la partita, o qualcuno si sarebbe insospettito. E sarebbe stato meglio d’altronde vederlo così, preparandosi psicologicamente, piuttosto che magari incontrarlo in giro e dover far finta di nulla sentendo il cuore spezzarsi.
Se lo meritavano, loro due, di chiarire una volta per tutte.
 
 

§§§

 
- Adéla, è rimasta dell’insalata? –
- Si, la prendo subito. –
I passi della mamma erano un rumore soffocato sulla moquette della sala da pranzo.
Avevano sempre la stessa cadenza morbida.
Una volta aveva provato a suonarli. Erano un mi profondo e delicato.
Quelli del papà invece erano ancora più gravi, mentre quelli della nonna erano ravvicinati e soffici, a differenza di quelli di Aneta e di Jana, che invece trillavano.
Fece scivolare le mani sul tavolo, scontrandosi con la resistenza della tovaglia da tavola che copriva il legno liscio.
- Dominik, tesoro, vuoi ancora insalata? –
Sollevò il capo, stringendosi nelle spalle.
- No, mamma. –
- Ma non hai mangiato  quasi niente! –
- E dai, Adéla, lascialo stare…Quando avrà fame mangerà. E poi deve lasciare uno spazio per il dolce, vero? –
La nonna era sempre buona. Aveva la voce più roca dell’ultima volta che era stato a Praga.
Era la mamma della mamma, e viveva con loro da sempre, almeno da quando lui era nato, perché la mamma lavorava e aveva bisogno di aiuto con lui che non ci vedeva. Ed era sempre buona, con tutte le rughe e quella pelle morbida: gli era sempre piaciuto averla in salotto mentre suonava, perché lei stava sempre attenta sul serio ad ascoltarlo.
Le piaceva tanto la musica, anche non sapeva suonare nessuno strumento.
Nessuno a casa sapeva suonare, tranne un po’ la mamma, che all’inizio aveva preso lezioni con lui, ma poi aveva lasciato perdere perché sentire lui le piaceva molto di più.
La mano della nonna si poggiò sulla sua, che teneva poggiata sulla coscia. Era calda e morbida, un po’ rugosa e con qualche callo sulle dita, perché la nonna cucina sempre e ogni tanto si pungeva, perché non ci vedeva più tanto bene. Gli piaceva sentirlo suonare anche per quello, perché voleva che le insegnasse a vedere bene i colori e le cose come faceva lui, così quando davvero non avesse visto più niente non sarebbe stata triste, ma avrebbero potuto vedere le cose insieme.
Gli era sempre piaciuto insegnare le cose alla nonna. Imparava subito.
Però l’allievo migliore di sempre era Federico.
Pensare a Federico era strano, gli faceva stringere qualcosa nella pancia.
Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello?Gli venne da sorridere, pensando a Federico, e la nonna lo scambiò per un assenso.
- Visto? Non ti preoccupare sempre, non è più un bambino! Mi farai sentire qualcosa anche oggi, dopo pranzo, vero drahà? –
La nonna lo chiamava sempre così. Tesoro. Diceva che non era solo un modo di dire, ma davvero lui era un tesoro che Dio aveva regalato loro per rendere il loro mondo un posto migliore, fatto di cose buone.
Inclinò il capo da un lato.
- Si. Cosa vuoi sentire, babi? –
- Quello che vuoi, quello che vedi. –
- A me piace tanto Chopin – sentì soffiare la mamma, con quella sua voce soffice che gli faceva venir voglia di sprofondare tra le coperte con lei. Però fece una smorfia.
- Chopin no. –
Non voleva suonare Chopin. Chopin lo faceva pensare a Federico, e non gli andava di suonare pensando a Federico, non per la mamma. Voleva vedere lei, ora che ce l’aveva così vicina che poteva finalmente sentirne il profumo dolce davvero, e non riesumarlo solo dai suoi ricordi.
- Allora suonerai quello che vuoi. Solo dopo il dolce, però! Devi mangiare. –
- Io mangio. –
- Mangi solo schifezze, Dominik! Non hai nemmeno toccato la carne, e di insalata ne hai mangiato si e no una foglia. –
Fece un’altra smorfia. La carne non gli piaceva particolarmente, e anche quando la cucinava Federico faceva sempre storie. Solo che Federico cucinava sempre cose particolari, che non sembrava neppure fosse carne. La mamma faceva solo carne alla griglia, e sapeva troppo di carne.
- Sta lasciando spazio nello stomaco per la cena della vigilia, domani sera, non è vero? E poi non stargli addosso così, è anche un po’ più in carne di quando è partito a settembre! –
La mamma si liberò in un mugugno di protesta, ma non disse altro. Era sempre troppo apprensiva, diceva il papà, ma a lui piaceva ricevere tutte quelle attenzioni da lei. Era così arancione, la mamma.
- Ho mangiato. Federico cucina cose buone. –
- Visto, Adéla? Non devi preoccuparti – chiuse il discorso la nonna.
Di Federico aveva parlato loro in lungo e in largo, non appena aveva messo piede a casa e gli avevano chiesto come stesse. Aveva raccontato del suo arrivo, del piccolo equivoco che c’era stato tra loro, delle cose che Federico cucinava e di tutto quello di cui avevano parlato. Aveva raccontato anche di essere uscito con lui, delle cose che aveva visto in giro per Milano, e di quello che avevano mangiato quella sera a cena fuori. Aveva parlato anche di Samuele e del suo sorriso, ma solo per un attimo, perché poi gli era venuta in mente quella volta che Federico era andato a sentirlo al suo saggio, e dei complimenti che gli aveva fatto.

Aveva parlato letteralmente per ore, per tutto il pranzo, e nel pomeriggio, e anche la sera, e la mamma lo aveva ascoltato tutto il tempo. Era contenta, aveva detto, che avesse trovato un ragazzo tanto gentile che fosse carino con lui e che non si annoiasse ad aiutarlo.
Lui l’aveva detto alla mamma che non ne voleva di aiuto, non lo cercava, ma che Federico era diverso perché era buono, e allora l’aiuto di Federico andava bene.
Avrebbe voluto parlare ancora con la mamma di Federico, ma non era stato possibile: non voleva assillarla, però voleva che capisse davvero come fosse Federico. Solo che uno come lui non lo si poteva capire davvero se non lo si conosceva, se non si sentivano i mutamenti del suo tono di voce, se non si captavano i suoi movimenti e i suoi gesti gentili.
Federico sarebbe rimasto un po’ una di quelle cose che tra lui e la mamma non sarebbero arrivate a essere comprese del tutto.
Si alzò in piedi.
- Vado a suonare. Vuoi venire, babi? –
- Arrivo subito. Dammi il tempo di prendere ago e filo. –
- Vengo anche io, amore – mormorò la mamma, con quel tono di voce morbido che usava sempre, come la principessa di una favola. – Cosa suoni? –
- Chopin – soffiò.
Perché Chopin era come vedere Federico.
 

§§§

 
Palermo – Atalanta 3 a 2, acinque minuti dalla fine.
Molto meglio della sua situazione. Vita di merda – Federico  4 a 0. A minimo cinquant’anni dalla fine.
Quel divano non era mai stato così scomodo.
Forse perché, troppo vicino, c’era seduto lui.
Manfredi era arrivato perfettamente in orario. Non aveva avuto il coraggio di chiamarlo al telefono, così gli aveva inviato un sms. Alle tre a casa mia.
E alle tre meno cinque minuti, come sempre, Manfredi aveva bussato al campanello.
Era andato lui ad aprire, e quando la mano si era poggiata sulla maniglia fredda, era stata come tornare indietro di qualche anno, quando tutto andava a meraviglia e lui aspettava con ansia che arrivasse il momento in cui avrebbe sentito il suono del campanello e avrebbe rivisto i suoi occhi verdi.
Questa volta aveva aperto la porta, se l’era trovato davanti, e gli era mancato il fiato.
Era la cosa più dolce che avesse mai visto, e allo stesso tempo gli stava stritolando il cuore solo con due dita, spremendogli tutto il sangue e tutta la vita.
- Ciao – era solo riuscito a dire, e lo aveva visto sorridere.
- Ciao – aveva mormorato anche lui, restando sulla soglia con le mani in tasca. Aveva scaricato il peso del corpo da un piede all’altro, abbassando appena lo sguardo. Tutte le idee di arrabbiarsi con lui perché aveva chiamato a casa sua, perché tentava di lambirlo così, perché era arrabbiato e basta, vennero meno. Riusciva solo a pensare a quanto fosse dolce il suo sorriso.
- Sei diverso – mormorò poi.
- Anche tu. –
Manfredi era sul serio diverso, però. Aveva il viso liscio, i capelli completamente castani, privi di quei colpi di luce che faceva a volte, e tutti tirati indietro. Era più magro, aveva il volto incavato e delle leggere occhiaie, ma stava sorridendo. Sembrava più maturo e più rilassato dell’ultima volta, come se fosse ormai pronto a tutto e senza più niente da perdere. Strafottente, quasi.
Però quando l’aveva guardato aveva avuto lo stesso scatto al petto di sempre.
- Non mi fai entrare? – aveva chiesto poi. E non era riuscito a far altro che sorridere, come un idiota. Sorridere, farsi da parte, e poi intercettarlo all’ultimo minuto.
L’aveva abbracciato, stringendogli le spalle, mentre lui era rimasto con le mani bloccate nelle tasche. Manfredi non lo abbracciò, non mosse le braccia, le mani.
Ma mosse il viso. Abbassò il capo, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo, e quello era più di un abbraccio. Era una dichiarazione di resa incondizionata.
- Mi sei mancato – gli confessò, incapace di nasconderglielo.
- Anche tu – borbottò Manfredi contro il suo maglione, all’altezza della spalla.
Quando lo lasciò andare, Federico rimase a guardarlo così, con le mani sulle sue spalle, fissando quegli occhi dalle iridi verdi che brillavano. Allora lo aveva invitato a entrare, lo aveva visto salutare tutti, infilarsi in bocca un dolcetto intero, gonfiando le guance, e lasciarsi cadere sul divano dando una pacca sulla spalla a suo padre. Non sembrava passato tutto quel tempo, non sembravano neppure cambiate tutte quelle cose.
Sembrava che tutto fosse tornato indietro a pochi anni prima, quando tutto andava bene.
- Seeeeeeh, abbiamo vinto! –
Federico si riscosse, all’urlo di suo padre.
Il Palermo aveva vinto, suo padre stava festeggiando, sua madre preparava il caffè, e Manfredi sorrideva.
Era tutto così…dannatamente normale!
Gli faceva venire dentro una strana nostalgia che non avrebbe neppure dovuto contemplare.
Suo padre si alzò dal divano, dirigendosi in cucina da sua moglie. Milena e suo marito erano andati via subito dopo pranzo, per andare a far spese al centro commerciale, ma si sarebbero rivisti l’indomani.
La mano calda di Manfredi si poggiò sul suo ginocchio.
- Che dici, usciamo? C’è una bella giornata, non mi va di restare chiuso a casa. E poi Giuseppe e gli altri non vedevano l’ora che tornassi! –
Gli occhi di Manfredi brillavano. Gli sorrise.
- Certo che usciamo. Vieni, andiamo di sopra! –
Si alzò, ma non ebbe il coraggio di controllare se lo stesse seguendo. Ne era certo, d’altronde.
Sentiva il rumore dei suoi passi su per le scale, e poi lo scatto della porta della sua stanza che si chiudeva. Federico si voltò, con una vena di panico negli occhi e il cuore che perdeva un battito.
Manfredi si era chiuso la porta alle spalle.
Erano chiusi insieme, nella sua stanza, come era accaduto per anni, quando fingevano di studiare e invece si baciavano con l’adrenalina in circolo all’idea di venire scoperti.
Manfredi però stava ridacchiando.
- Perché ridi? –
- Pensavo a tutte quelle volte in cui, di domenica pomeriggio, venivamo qui con la scusa di dover fare i compiti e tu chiudevi sempre la porta di colpo e mi baciavi a tradimento. –
Rise anche lui, ripensando a quando Manfredi, poi, fingeva di non volerlo baciare, per poi finire a spingerlo verso il letto.
Tornò serio, lievemente a disagio, mentre lo vedeva dirigersi verso il letto e lasciarsi cadere, come se fosse esausto per chissà cosa.
- Questo letto è sempre comodissimo. Dovresti regalarmelo, dato che non lo usi! –
- Stanotte lo userò! –
- Che palle che sei – lo rimproverò, con uno sbuffo.
Vedere di nuovo Manfredi sdraiato nel suo letto, con le gambe penzoloni, lo riportava indietro di almeno tre o quattro anni.
Sarebbe stato così facile essere felici di nuovo. Sarebbe bastato semplicemente avvicinarsi a lui con calma, poggiare le mani sul materasso, ai lati della sua testa, e baciarlo mentre aveva ancora gli occhi chiusi. Allora lui non li avrebbe aperti, ma le sue mani gli sarebbero corse sulla schiena, sulla nuca, per intrappolarlo in un bacio. Gli sembrava quasi di sentirlo, il cuore di Manfredi che accelerava mentre lo baciava, il calore delle sue mani sulla pelle, e la bellezza del suo sorriso quando si fossero staccati e avessero abbassato le armi, dichiarandosi finalmente entrambi sconfitti.
Federico si umettò le labbra con la lingua.
Non l’avrebbe baciato. Non poteva, semplicemente. Non poteva illudersi che quella sarebbe stata davvero felicità; si, magari lo sarebbe stata per le prime settimane, i primi mesi, forse per un anno o due. Ma poi? Poi sarebbe rimasto ugualmente schiacciato da tutto quello che lo aveva soffocato fino a quel momento. E tutto sarebbe andato distrutto, di nuovo.
Manfredi non era abbastanza forte per sopportarlo ancora, e nemmeno lui.
E poi…che cosa avrebbe detto Dominik?
Cosa avrebbe pensato nel sapere che fosse crollato di nuovo, che avesse lasciato che Manfredi si riprendesse la sua vita, come se fosse una bambola di pezza nelle mani capricciose di un bambino viziato?
Non è che ti perdi, mentre non ci sono, vero? 
Si sentiva una morsa allo stomaco.
Si stava perdendo, si perdeva sempre quando c’era Manfredi: si perdeva nei ricordi, nel senso di colpa, nei suoi occhi verdi, nell’autocommiserazione. E, adesso, anche in tutto il resto.
- Anche io. Sono contento di rivederla. Però sarà strano. –
- Che cosa? –
- Che tu non ci sarai. Che non tornerai dal lavoro, non aprirai la porta e non poggerai le chiavi nella ciotola di vetro come fai di solito. Che non cucinerai e non guarderai la televisione sul divano, e che non dirai buonanotte sbadigliando prima di andare a letto. Che la mattina non ci sarà la tazza che mi hai regalato nel frigorifero, o il pane bianco sul tavolo. –

Gli mancava l’aria.
- Una volta mi hai detto che ho paura. E che mi privo di certe cose non perché non voglio farle ma perché ho paura e non voglio accettare l’aiuto degli altri. E mi hai detto anche che accettare l’aiuto degli altri non è sbagliato. –
- Quindi avevo ragione? –
- Tutti e due avevamo ragione. Diciamo che è vero che ho un po’ paura, e hai ragione tu. Mi privo di certe cose perché non mi fido delle persone, e delle cose che possono succedere, che possono andare male. Ma oggi mi sono divertito a uscire con te. E qui ho ragione io, perché l’aiuto degli altri non lo voglio. Accetto solo il tuo. –

Si passò una mano sul viso, scendendo fino al collo.
Nella sua mente, la mano di Dominik gli scivolava sulla pelle del viso.
- So che mi piace stare qui con te, però, che mi piace quando torni dal lavoro e mi chiedi come è andata e ascolti quello che dico, che mi piace guardare la televisione con te sul divano, e che in quei momenti non penso solo alla musica. E’ una cosa strana, per me. Io penso sempre alla musica, anche quando non sembra, perché lei è i miei occhi, e tu usi sempre gli occhi, vero? E penso che potrei restare così, perché con te è diverso, mentre io odio essere toccato da qualcuno, perché non posso vederlo. Ma con te non sono cieco. E’ come decidere di chiudere volontariamente gli occhi per un po’. –
Adesso aveva freddo.
Era la sua, quella mano fredda che aveva poggiata sul collo, all’altezza della clavicola.
- Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu perché lo fai. –
Lo sapeva, eccome, invece. Chiuse gli occhi, solo per un attimo. Credo che tu mi piaccia, Dominik, e non va bene. Non andava bene per niente: Dominik era un ragazzino indisponente, avrebbe dovuto dividerci la casa, pensava solo alla sua musica ed era etero, anche se delle ragazze e dell’amore non gliene importava un fico secco.
Non andava bene per niente.
- Federico? –
Si riscosse, lasciando ricadere la mano in basso. Manfredi lo stava fissando.
- A che pensi? –
- A niente – mentì.
Manfredi non lo incalzò: forse pensava che tutto quel malumore fosse legato a lui, al fatto che fossero di nuovo insieme così, soli in quella stanza dove avevano fatto l’amore decine e decine di volte, doveva avevano studiato, avevano pianto, e avevano imparato ad accettare se stessi. Cosa c’era da accettare, adesso, se non il fatto che tutto fosse andato a puttane?
Manfredi si stiracchiò, portando le braccia indietro.
- Allora, non mi racconti niente di nuovo? –
- Perchè volete tutti che vi racconti qualcosa? Non sono stato a fare una missione in Africa, vengo da Milano! – Manfredi rise, passandosi una mano sui capelli, tirandoli indietro.
- Hai ragione, scusa! E’ che si fanno domande così quando non ci si vede da tanto, no? Anche se tu sei stato comunque sempre qua, con me – confessò. Aveva abbandonato le mani sul materasso, il palmo ad accarezzare il morbido tessuto del piumone blu chiaro.
- Comunque ti ho preso un regalo per Natale, Fede. Te lo darò domani, però, e non lo aprirai prima di Natale! Lo sai che ci tengo! –
- Anche io ti ho preso una cosa - mormorò, e la mente era già partita per altri lidi.
- Dominik, senti…io…ti ho preso una cosa…è una specie di regalo di Natale, e avrei dovuto dartelo a Natale, prima che partissi, ma poi non te lo saresti goduto, quindi…aspettami qui, eh?  E’ una cosa da nulla, però ho pensato che ti sarebbe piaciuta. –
- Non dovevi comprarmi niente. Io non ho niente per te –
- E chi se ne frega, dai! L’ho vista e mi è piaciuta. Non avrei dovuto prenderla perché avrei dovuto pensare se mi avessi preso qualcosa tu? Non fare lo scemo e aprila! –.
- E’ una tazza? –

- Si. Però guarda il manico…è quello che mi è piaciuto! –
- E’ una chiave. E’ una chiave di violino vero? –
- Si! E sulla tazza è stampato un pentagramma con delle note. E’ bianca e nera, così…puoi vederla anche tu, più o meno… Ti piace? –
- Si. E’ bellissima. Non ne ho mai vista una. –
Dominik aveva sorriso in quel modo morbido.
Era come se si fosse acceso un faro.
Manfredi si era alzato in piedi, intanto, raggiungendolo alle spalle. La sua mano, caldissima, gli si era poggiata su un fianco: anche da sopra i vestiti avvertiva quella sensazione strana, come se un’onda anomala volesse travolgerlo, e gli mancava l’aria.
Non voleva che Manfredi lo toccasse, perché se Manfredi lo toccava lo prendeva il panico.
- E pure tu hai paura, cosa credi? Hai paura di qualcosa, quando sei da solo e resti a pensare, anche se non ho ancora capito cosa. –
Aveva paura di Manfredi? O forse di se stesso, e del modo in cui reagiva?
- Sei proprio strano oggi, Fede. –
Aprì gli occhi, tirando fuori un sorriso tirato.
- Io? Perché? –
- Mi nascondi qualcosa. – Gli occhi verdi di Manfredi lo stavano perforando adesso, come se avessero un martello e uno scalpello per distruggere il muro che aveva creato.
Non sarebbe mai riuscito a resistere a lui, a quegli occhi, e a quello che sapeva leggergli dentro e tirare fuori come una valanga pronto a sommergerlo. Però, alla fine, Manfredi sfuggì, con un lieve sorriso, e la valanga venne arginata.
Il suo corpo ricadde sul letto.
- Allora, tTi sbrighi? Devi fare la doccia? –
- L’ho fatta prima che arrivassi. Mi cambio e possiamo andare dove vuoi. –
Lo vide annuire, mettendosi seduto. Sembrava particolarmente interessato a qualcosa poggiata sulla sua scrivania, adesso. Solo quando guardò meglio, Federico si rese conto che non stesse guardando qualcosa sulla scrivania, ma dentro la scrivania. Il cassetto a sinistra.
Se lo ricordava benissimo, cosa c’era dentro.
Avevano studiato tutto il pomeriggio, prima dell’ultimo compito in classe di matematica, prima degli scrutini finali e dell’esame di maturità. Fuori pioveva a dirotto da tutto il giorno, una di quelle piogge di fine maggio che scassavano solo i coglioni.
Manfredi era seduto sulla sua sedia, quella con le rotelle, dietro la scrivania.
Lui era sdraiato a letto, a guardarlo giocherellare con la calcolatrice.
- Mi stai fissando. –
- Nah, non è vero. –
- Invece si, Fede. E’ perché sono bellissimo, lo so! –
Gli lanciò il cucino rotondo che teneva sul letto, ma Manfredi lo scansò con un movimento brusco, ridendo. Aveva una risata bellissima. Allora lasciò la calcolatrice sulla scrivania, e prima che potesse anche fare un solo movimento, se lo trovò addosso, che gli imprigionava il corpo e lo pizzicava su un fianco.
- Dai, dillo che non è vero, dillo! –
- Infatti non è vero, hai una faccia da cazzo! – lo prese in giro, ben sapendo di mentire. Manfredi rise, pizzicandolo più forte.
- Ah, è così? E allora che ci stai a fare con me? –
Commise un piccolo errore. Mentre lo colpiva, perse il controllo dell’altra mano, e Federico si liberò, e gli imprigionò il viso tra le mani. Gli occhi di Manfredi brillarono come se non avesse aspettato altro.
- Perché ti amo – gli soffiò sul viso. Le pupille di Manfredi si dilatarono insieme al soffio del suo respiro che veniva a mancare. Poi sorrise, e a tradimento gli morse una guancia.
- Però non riuscirai a corrompermi! –
Lo lasciò andare, mettendosi in piedi, e Federico si alzò dietro di lui, stiracchiando le braccia in alto e dirigendosi verso la sua scrivania. Prese il quaderno di matematica, per infilarlo nello zaino prima di dimenticarsene, e un pezzetto di carta scivolò fuori, toccando il legno della scrivania.
Era un pezzetto triangolare, strappato via da un foglio a quadretti. C’era scritto solo SEMPRE, nella calligrafia elegante e studiata di Manfredi. Quando si voltò a guardarlo, lui stava sorridendo.
- Sai, nel caso in cui te ne scordassi. Sempre significa per sempre. –
Gli sorrise.
- Non credo che me ne dimenticherò mai. Però questo lo tengo per ricordarmene quando sarò a un passo dal non sopportarti più! –
Il bigliettino finì sul fondo del cassetto, nascosto sotto tutto il resto.
Il cassetto si chiuse.
- Allora, ti devi cambiare o no? –
Federico si riscosse.
Il bigliettino doveva essere ancora lì. Non l’aveva mai tolto.
Però se ne era dimenticato. Sempre non era stato un per sempre.
 

§§§

 
- Allora, ti devi cambiare o no? –
Federico era uscito da quella specie di trance in cui era caduto, pensando a chissà cosa.
Sarebbe stato bello pensare che stesse ricordando qualcosa che riguardasse loro. Aveva desiderato per settimane e mesi che, ad un certo momento della sua vita, ci fosse qualcosa in grado di colpirlo, di ricordargli quanto si amassero, di farlo tornare indietro.
Però non era successo.
E il Federico che era tornato era diverso. Lui non se ne rendeva conto ma, come gli aveva detto al telefono, aveva iniziato a liberarsi di lui. Nel modo in cui sorrideva non c’era più la lieve malinconia che aveva prima, e nel modo di toccarlo, anche per caso, c’era solo l’affetto di una persona che gli voleva bene, senza quella straziante consapevolezza di doversi stare un po’ lontani.
Erano diversi i suoi occhi, perché erano stranamente vivi, e le sue guance così rosee, e non era merito suo.
Non era giusto.
E stare in quella stanza era soffocante, però doveva. Doveva essere se stesso, comportarsi come l’uomo che era sempre stato con lui. Forse, allora, Federico avrebbe cambiato idea e sarebbe tornato. Si sarebbe accontentato anche solo d riaverlo un po’ più vicino solo per quelle vacanze, sarebbe stato meglio del nulla. C’era sempre tempo.
Federico si avvicinò all’armadio, spalancandolo. Era sempre terribilmente disordinato, nonostante fosse un po’ più vuoto. Molta della sua roba doveva essere rimasta a Milano.
Tirò fuori un maglioncino leggero, grigio scuro, e un paio dei suoi soliti jeans scuri.
Lo vide mentre li sistemava sulla sedia dietro la scrivania, dopo averli studiati con quell’espressione indecisa che tirava sempre fuori. Poi, con noncuranza, poggiò le mani sul bordo inferiore del maglione che indossava, facendo per sfilarselo.
Fu allora che Manfredi sussultò, e gli occhi di Federico volarono a incontrare i suoi, incatenandoli.
Deglutì.
- Io…se ti da fastidio aspetto fuori, magari di sotto … - provò a dire.
Federico ci pensò. Era questo che faceva male, il fatto che adesso entrambi dovessero pensare: prima non era mai stato così. Prima erano spontanei, veri, potevano fare quello che volevano.
Adesso no.
Però, alla fine, Federico sorrise.
- Ma no, che dici! Ci metto un attimo. –
Si ritrovò ad annuire, fingendosi indifferente, ma ogni movimento di Federico era una coltellata allo stomaco. Le sue braccia che sollevavano il maglione, scoprendo la pancia, e il petto, si sovrapponevano alle sue mani che glielo sfilavano poche settimane prima, nel suo letto, a Milano.
Le dita di Federico scendevano sul bottone dei pantaloni, sulla zip. I pantaloni scendevano lungo le gambe magre, fino al pavimento, e quando sollevava i piedi, ad uno ad uno, per sfilarli, sulla pancia si formava una piega morbida.
C’era un desiderio sordo che gli bruciava nelle vene, adesso che Federico era nudo e poteva vederlo tutto. E si infuriava con quei boxer scuri, perché avrebbe voluto vederlo completamente, e con se stesso e con il mondo, perché avrebbe voluto toccarlo.
Si poteva essere amici così, desiderando di fare l’amore?
Anche Federico era teso. I muscoli delle gambe erano contratti, respirava più velocemente e meno profondamente, e le dita tremavano appena mentre cercava di infilarsi i pantaloni per il verso giusto.
E lui desiderava solo alzarsi da quel dannato letto e tendere una mano in avanti per poggiarla sulla pelle chiara del suo petto, dove lo sterno creava una depressione e una lieve peluria scura gli avrebbe solleticato le dita. Ma non lo fece, e tutto finì subito.
Federico chiuse il bottone dei jeans, sollevò la zip, infilò il maglione dalla testa.
Sollevò lo sguardo verso il suo.
Poteva giurarci, Manfredi, che i propri occhi fossero smarriti come quelli che stava guardando.
Però gli sorrise, perché Federico aveva bisogno di quello. Lui non era solo un uomo innamorato, un idiota che non aveva la forza di controbattere e che Federico stava allontanando perché qualcosa non era andata bene. Era soprattutto, ancora, un suo amico. Il suo migliore amico.
L’unica persona in grado di comprendere davvero di cosa avesse bisogno, e in quel momento Federico aveva bisogno che qualcuno gli sorridesse e gli dicesse che tutto andava bene.
Manfredi si mise in piedi.
- Allora, sei pronto? Usciamo o no? – Federico sorrise, uno dei sorrisi più belli che gli avesse mai visto addosso? – E non mi dire che devi sistemarti i capelli, perché io altre due ore qua non ci sto! Sei perfetto così! – Lo sentì ridere, dandogli una gomitata su un fianco.
- E va bene, pallosissimo che sei! –
Aveva vinto una piccola battaglia contro i capelli di Federico, che rappresentavano di fatto una sua piccola ossessione. Se solo avesse saputo quanto gli piacevano in quel momento, in cui era tutto spettinato!
Ma lo seguì giù per le scale, giocherellando con le chiavi della macchina, che aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni.
- Ah, Manfredi! – Federico si voltò così repentinamente che per poco non gli finì addosso. Dovette aggrapparsi al corrimano delle scala per non urtare con il petto la sua faccia.
- Che c’è? –
- Niente, è che… - iniziò. Non lo stava guardando negli occhi, ma sembrava concentrato sul bottone del suo maglione che, per puro caso, si trovava davanti. Si stava tormentando le mani, reprimendo probabilmente l’istinto di prendere a rotearci le dita intorno. Aveva da sempre una fissazione per i bottoni, Federico. Però, poi alzò il viso, incontrando i suoi occhi, e gli rivolse un sorriso caldissimo. La sua mano, bruciante, si poggiò su quella che Manfredi aveva lasciato aggrappata al corrimano, e la strinse, un incrocio tra un abbraccio di mani e una carezza.
- Sono contento di essere tornato. -
Sapessi io







(1) Il titolo è tratto dalla canzone Come si cambia.
(2) Drahà vuol dire tesoro.
Babi è l'appellativo affettuoso che indica nonna.
Ovviamente in ceco. Inutile specificare che io scrivo in italiano, ma Dominik, a casa sua con la sua famiglia, parla in ceco.

Nota al capitolo 22:
Capitolo decisamente sconclusionato, e anche troppo poco!
Quello che deve emergere è che Federico non ha la benchè minima idea di quello che gli sta passando per il cervello in questo momento.
Cambia idea ogni tre secondi, inizia a pensare una cosa e finisce con il pensarne un'altra, e l'idea che ha di ogni cosa si modifica nel giro di un battito di ciglia. Si sente travolto da tutto quello che è successo, perchè, nel giro di pochi giorni, Dominik è passato da algido musicista a ragazzino un po' più umano.
Le vacanze sono ufficialmente iniziate, e sia Federico che Dominik sono tornati a casa loro. Siamo a domenica 23 dicembre, anche se si sarà capito.
Sono sicura che siate tutti contentissimi di ritrovare Manfredi, che certamente vi mancava (seh, come no!), ma molto più di rivedere Milena, che aveva fatto una buona impressione a tutti e che io amo! *_*
Come preannunciato su facebook, questo non è un capitolo importante quando il capitolo 23, che posterò molto presto perchè è quasi pronto! E come preannunciato, nel prossimo capitolo torna Mattia, che in molti aspettate con curiosità, e che io, ovviamente, adoro!
Spero che questo capitolo vi piaccia, perchè è stato parecchio difficile scriverlo: non ne voleva sapere di uscire come pretendevo io, e pensate che era pronto già ieri sera, ma oggi ho tardato a postarlo perchè l'ho modificato di nuovo.
Alla fine devo dire che sono abbastanza soddisfatta.
Vi lascio con il link alla mia pagina facebook: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144 e con un enorme bacio.
Ringrazio tutti coloro che mi seguono, che mi sostengono e che non fanno mai mancare la loro presenza.
Alla fine di questa storia ci sarà una piccola sorpresa per tutti voi, una cosina da niente che però a me fa molto piacere. :D
Risponderò alla recensioni sempre piano piano, perchè sono piena di cose da fare, dato che lunedì riprendono le lezioni in università, ma voglio rispondere a tutti! ^_^
Un bacio, e a presto!
   
 
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