La
osservavo.
Era
seduta in maniera composta, al tavolo della cucina; al buio. In un
attimo perse tutta la compostezza e la grazia, si contorse
nervosamente contro lo schienale della sedia e sbuffò.
Picchiettava
l'estremità della penna – la sua amata bic nera,
che da anni era
presente nei momenti più critici – contro un
foglio bianco un po'
logoro.
Forse
provai pena, forse pietà. Un po' mi intenerii nell'osservare
quello
sguardo perso, quasi disperato; chissà da quanto tempo era
lì
seduta di fronte quel vecchio foglio.
«Puoi
prenderti una pausa, quel foglio non andrà da nessuna
parte»
esordii.
Si
voltò di scatto a guardarmi, per poi spalancare gli occhi,
come se
non si fosse accorta prima della mia presenza.
Abbozzai
un sorriso, forse per calmarla.
«La
carta, dico. Sarà lì da così tanto
tempo che ti avrà dato prova
della sua grande pazienza»
Non
accennò un movimento alcuno. Sembrava impaurita, ma non
osava
chiedere chi fossi.
Provai
quasi imbarazzo, non sapevo se continuare a parlare o se fosse stato
meglio chiudere la trattativa in fretta. Dopotutto aveva un gran
potenziale, ed io avevo voglia di assaporare il suo bisogno... Ma se
ce l'avesse fatta da sola, non sarebbe stato molto più
soddisfacente, per lei?
Continuava
a fissarmi; il suo sguardo era diventato più guardingo
– aveva
iniziato a scrutarmi, con diffidenza.
«Sei
tu che mi hai chiamata» sostenni con tranquillità.
Mosse
appena le labbra, ma si bloccò. Non era ancora pronta per
parlare.
Io,
però, non sono paziente come la carta.
«Hai
forse cambiato idea?» Alzai un sopracciglio, volevo che
capisse
che, trascorsi altri pochi minuti, non avrebbe più potuto
tirarsi
indietro.
Appoggiò
entrambi gli avambracci sul tavolo, strinse le mani in pugni; la mano
destra reggeva ancora la penna, ora quasi la stritolava.
Agitò i
pugni nervosamente contro il tavolo, si contorse un po' anche lei
–
combattuta tra la smania di dire qualcosa e la volontà di
procedere
in silenzio.
Massaggiò
la superficie del tavolo con le braccia, respirava profondamente. I
suoi capelli erano bellissimi: folti, ricci, ma soprattutto ribelli.
Le sarebbe bastato anche iniziare a descrivere il movimento delle sue
ciocche mentre respirava, per mandarmi via; ma avrebbe dovuto capirlo
da sola.
Impugnò
la penna e ne posizionò la punta su una falsariga del
foglio.
Spalancai gli occhi, trattenni il respiro, capimmo entrambe che da
lì
si sarebbe deciso tutto.
Sentii
il peso della penna, piombo che non permetteva alla punta di scorrere
liberamente sul foglio.
Lei,
della quale non conoscevo ancora il nome, cominciò a tremare
pesantemente. Lottò per minuti interi, iniziò a
imporsi mentalmente
di dover scrivere qualcosa – qualsiasi cosa – pur
di mandarmi via
e continuare ad essere libera.
Infine
cedette. Gettò la penna contro il foglio con rabbia,
sconforto.
Sapeva di aver perso; non si curava minimamente di me, aveva perso
contro se stessa ed era questo a farle sentire tutto il peso del
fallimento.
Questo
non mi vietò di gioire comunque della mia vittoria.
«Come
ti chiami?» Chiesi con molta calma. Avevo spezzato il suo
bisogno di
silenzio e tranquillità, quindi avrebbe potuto inveire
contro di me,
se avessi osato provocarla.
«Caterina»
rispose, rossa in viso e con il respiro corto.
«Bene,
Caterina. Perché non ti prendi una pausa? Sgranchisci le
ossa per
dieci minuti e poi riprendi» Sapevo che il dado era stato
tratto, ma
non volevo che Caterina sentisse il peso della situazione, volevo che
non si sentisse spacciata. Era ancora giovane, avrebbe potuto fare
altro nella vita, e invece aveva scelto di vendersi a me.
«Questo
è tutto ciò che ho, che ho sempre
voluto» sentenziò, quasi
come se avesse potuto leggermi la mente.
Inspirò
per poi espirare molto lentamente.
Non
dissi nulla, aspettai che lei riprendesse a dire qualcosa.
E
lei non si fece attendere che pochi minuti.
«Non
saprei cosa fare, se non esistesse. Non sarei nulla, se non potessi
scrivere – alzò gli occhi verso di me, come se in
me avesse visto
la sua sconfitta – anche adesso non sono nulla. Anche dopo
che
sarai andata via, non sarò nulla. Vero?»
Annuii
lentamente, condividevo il suo punto di vista. Non ce l'aveva fatta
da sola, con il suo potenziale, il suo talento, la sua passione; cosa
avrebbe cambiato tornare a scrivere solo perché lo avrei
permesso
io? Cosa avrebbe cambiato pagare un prezzo tanto alto – se
stessa –
affinché io diventassi la forza di cui lei necessita?
Annuì
anche lei, convenendo con se stessa, guardando quel foglio vuoto,
bianco.
D'un
tratto si alzò, si aggiustò il maglioncino di
modo che le scendesse
meglio sui fianchi e andò ad accendere la luce. L'ambiente
si riempì
di colpo di un alone bianco, intenso. Riuscii a vedere finalmente
quella stanza e a distinguere i mobili con cui era arredata, che
erano vecchi e usurati, proprio come li avevo immaginati io quando
ancora si celavano nell'oscurità – quando l'unica
cosa che mi
permetteva di immaginare quella stanza era l'odore di umido che
ristagnava.
Caterina
iniziò a scavare fra i cassettoni, apriva e chiudeva mobili,
credenze, in cerca di qualcosa.
«La
nutella è nel cassettone della vetrina» Dichiarai,
con calma.
«La
nutella mi fa schifo» Sostenne con ansia e disgusto.
«Pazzesco
– Commentai – E allora cosa stai
cercando?»
Rovistava
in una credenza, spostando bottiglie d'acqua minerale e alcune
scatole di medicinali. Mi sembrò strano trovare medicinali
in una
credenza dove venivano riposte le bibite. Si fermò e
voltò il viso
per guardarmi.
«Miele
– Mi rispose – Vorrei un cucchiaino di miele. Ma
qui in casa è
finito»
Forse
voleva davvero un po' di miele, o forse voleva soltanto perdere un
po' di tempo, il tempo necessario affinché accettasse
ciò che
sarebbe accaduto da lì a pochi minuti.
«Se
vuoi andiamo in giardino – Proposi – Magari l'aria
fresca può
esserti d'aiuto»
Chiuse
l'anta della credenza, si voltò completamente verso di me.
«No...
no! Facciamolo qui, ora. Subito» Si avvicinò
frettolosamente a me
– sbattendo una ginocchio contro una sedia. Non
batté ciglio, mi
si parò di fronte e si inginocchiò.
«Ora» sussurrò, chiudendo piano gli
occhi.
Era
troppo presto per lei, ma non sarebbe mai stata pronta del tutto,
comunque.
«Ne
sei sicura?» Chiesi per scrupolo
Provò
a rispondere, ma si trattenne. Rimase in silenzio un paio di secondi,
per poi parlare.
«Sì.
Ora»
Allungai
il braccio verso di lei, che sollevò lo sguardo sul mio viso.
«Farà
male?»
«No»
Rassicurai.
Annuì
più volte e richiuse gli occhi.
Posai
la mia mano sulla sua fronte, e il suo mondo si aprì a me.
Il
flusso dei suoi pensieri attraversò la mia pelle e
iniziò a
scorrere nelle mie vene. Fiumi neri di parole, sogni, desideri,
poesie, racconti, persone, amore, paure si riversò nel mio
sangue,
ed entrarono in me, mi riempirono.
E
nel mio corpo, nella mente, nella mia linfa, nacque l'Ispirazione.
Ero
il racconto di una bambina dai boccoli dorati che piangeva per un
bambino che la toccava; ero una ragazza che aveva venduto la sua
personalità per essere accettata, una ragazza dal bisogno
inesprimibile di essere accolta, amata, capita, che celava nel suo
cinismo tutto il dolore procuratole dal suo passato; ero una poesia
scritta su un muretto prima di entrare in classe, che parlava
d'Africa e d'Amore; ero il pianto disperato della malattia, della
confessione, della volontà di farsi male di fronte lo
specchio.
Una
scossa percosse le mie vene , che sussultarono. Era il fiume nero che
scorreva in me a scuotermi.
Scostai
di scatto la mano folgorata dalla sua fronte sudata.
«Che
diavolo...?»
I
suoi occhi, neri ed assenti, mi spaventarono. Si alzò,
bella,
austera, vuota. L'avevo svuotata di tutto ma si oppose prima che io
potessi restituirle ciò che mi aveva chiesto chiamandomi.
Quell'universo
nero era rivolto verso di me, ma non posso dire che mi guardava. Mi
costrinse a fissarla in quel vuoto, tenendomi per un braccio.
«Sei
tu che mi hai chiamata!» Urlai, strizzando gli occhi per non
guardare.
«Chi
sei?» Ebbe il coraggio – finalmente – di
chiedere.
Non
seppi rispondere. Chi ero? Il diavolo, uno spettro? Non lo sapevo.
Ero colei che arrivava da chi aveva bisogno di ispirazione, chiedendo
in cambio non l'anima, ma la mente, la ragione.
«Chi
sei? – Tuonò – Raccontami la tua
storia!»
Provai
a dire qualcosa, gli occhi erano ancora serrati, ma non riuscii a
dire niente. Non avevo una storia, non avevo passato.
Allora
Caterina rinserrò la presa e mi strinse più
volte, facendomi male
al braccio.
«Chi
sei, Fata Nera??»
All'udire
quel nome, spalancai gli occhi. Come se avessi compreso tutto, come
se mi avessero chiamata, piena di stupore e di dubbi che non riuscii
a decifrare, perché fui risucchiata dalla materia nera dei
suoi
occhi.
E
d'un tratto sentii vita.
D'un
tratto vi fu vita, nel mio corpo.
Parlavo
alle persone, sorridevo, piangevo, credevo, constatavo, valutavo,
amavo. Ero una persona. Ero occhi, braccia, bocca, gambe; camminavo,
guardavo, mangiavo. Incontrai corpi, braccia, occhi e bocche proprio
come le mie; mi unii a voci, dita, affanni, dolori; toccai la pelle
di tantissimi individui diversi; assaggiai il sapore del miele,
denso, vischioso, dolce. Ero persona fra le persone, e fra di esse,
cercai Lei, il suo sguardo, le sue mani e mi fondetti con sudore,
lacrime, sangue, umori, labbra, denti, urla, lingue, gambe, lenzuola,
abiti, risate.
Mi
alzai da un letto e mi guardai in uno specchio. Ero Caterina.
Mi
ritrovavo a terra, madida di sudore, annaspante, senza riuscire
però
a trovare appigli per mettermi almeno a sedere.
Volsi
lentamente il volto verso la mia destra. Caterina giaceva al suolo,
priva di conoscenza.
Fu
allora, solo allora che capii. Avevo finalmente avuto una storia; non
una storia qualsiasi, ma il mio passato.
Caterina
aprì gli occhi; confusa, cercò di mettermi a
fuoco. I suoi occhi
erano tornati i soliti occhi marrone scuro, come
quelli che
avevo sempre visto, quelli che avevo sempre avuto.
«Schwarze
Fee...» sussurrò a fatica.
«Sì»
Risposi. Ero ancora stesa sul pavimento.
Provò
a dirmi qualcosa, ma era troppo stanca per parlare.
Si
addormentò, mentre io mi alzai sui gomiti.
Dalla
strada saliva un dolce profumo di cornetti. Ricordai che nel palazzo
di fronte risiedeva il forno di una pasticceria. Mi stupii, non
sentivo alcun profumo da anni, e pensare che riuscivo a dare un tempo
alle cose mi spaventò.
Ero
sempre stata il nulla, senza tempo. Arrivavo da chi mi chiamava,
prendevo la loro ragione e in cambio donavo ispirazione, talento,
notorietà.
Ora
invece avevo un nome. Schwarze Fee. Ricordavo di aver sofferto le
stesse pene di Caterina, in passato, ma non avevo nessuno a cui
rivolgermi. E ricordo. Nacqui tre anni prima, da Caterina stessa. Mi
separai da lei e divenni una creatura senza tempo. Ero io Caterina.
Ora chi c'era in lei? Perché non ero ritornata in lei, in me?
Intanto,
lei dormiva tranquilla, come se sapesse tutto. In me scorreva ancora
il suo talento, che era sempre stato in mio, ma sapevo che era una
sensazione evanescente. Ero ritornata ad essere viva, ad essere io.
Perché ero separata da lei?
Capii
che non avrei ottenuto mai una risposta. Tutto ciò che
sapevo è che
sentivo di nuovo la vita in me. Quindi aspettai di riprendere le
energie. Mi alzai, spensi la luce, mi sedetti al tavolo e iniziai a
riempire quel foglio vuoto da tre anni.