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Autore: Muser_G    03/03/2013    1 recensioni
«Ero sempre stata il nulla, senza tempo. Arrivavo da chi mi chiamava, prendevo la loro ragione e in cambio donavo ispirazione, talento, notorietà.»
Chiedo scusa per gli eventuali errori che troverete; avrei dovuto rileggerla, ma so già che se l'avessi fatto non l'avrei pubblicata!
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La osservavo.
Era seduta in maniera composta, al tavolo della cucina; al buio. In un attimo perse tutta la compostezza e la grazia, si contorse nervosamente contro lo schienale della sedia e sbuffò.
Picchiettava l'estremità della penna – la sua amata bic nera, che da anni era presente nei momenti più critici – contro un foglio bianco un po' logoro.
Forse provai pena, forse pietà. Un po' mi intenerii nell'osservare quello sguardo perso, quasi disperato; chissà da quanto tempo era lì seduta di fronte quel vecchio foglio.
«Puoi prenderti una pausa, quel foglio non andrà da nessuna parte» esordii.
Si voltò di scatto a guardarmi, per poi spalancare gli occhi, come se non si fosse accorta prima della mia presenza.
Abbozzai un sorriso, forse per calmarla.
«La carta, dico. Sarà lì da così tanto tempo che ti avrà dato prova della sua grande pazienza»
Non accennò un movimento alcuno. Sembrava impaurita, ma non osava chiedere chi fossi.
Provai quasi imbarazzo, non sapevo se continuare a parlare o se fosse stato meglio chiudere la trattativa in fretta. Dopotutto aveva un gran potenziale, ed io avevo voglia di assaporare il suo bisogno... Ma se ce l'avesse fatta da sola, non sarebbe stato molto più soddisfacente, per lei?
Continuava a fissarmi; il suo sguardo era diventato più guardingo – aveva iniziato a scrutarmi, con diffidenza.
«Sei tu che mi hai chiamata» sostenni con tranquillità.
Mosse appena le labbra, ma si bloccò. Non era ancora pronta per parlare.
Io, però, non sono paziente come la carta.
«Hai forse cambiato idea?» Alzai un sopracciglio, volevo che capisse che, trascorsi altri pochi minuti, non avrebbe più potuto tirarsi indietro.
Appoggiò entrambi gli avambracci sul tavolo, strinse le mani in pugni; la mano destra reggeva ancora la penna, ora quasi la stritolava. Agitò i pugni nervosamente contro il tavolo, si contorse un po' anche lei – combattuta tra la smania di dire qualcosa e la volontà di procedere in silenzio.
Massaggiò la superficie del tavolo con le braccia, respirava profondamente. I suoi capelli erano bellissimi: folti, ricci, ma soprattutto ribelli. Le sarebbe bastato anche iniziare a descrivere il movimento delle sue ciocche mentre respirava, per mandarmi via; ma avrebbe dovuto capirlo da sola.
Impugnò la penna e ne posizionò la punta su una falsariga del foglio. Spalancai gli occhi, trattenni il respiro, capimmo entrambe che da lì si sarebbe deciso tutto.
Sentii il peso della penna, piombo che non permetteva alla punta di scorrere liberamente sul foglio.
Lei, della quale non conoscevo ancora il nome, cominciò a tremare pesantemente. Lottò per minuti interi, iniziò a imporsi mentalmente di dover scrivere qualcosa – qualsiasi cosa – pur di mandarmi via e continuare ad essere libera.
Infine cedette. Gettò la penna contro il foglio con rabbia, sconforto. Sapeva di aver perso; non si curava minimamente di me, aveva perso contro se stessa ed era questo a farle sentire tutto il peso del fallimento.
Questo non mi vietò di gioire comunque della mia vittoria.
«Come ti chiami?» Chiesi con molta calma. Avevo spezzato il suo bisogno di silenzio e tranquillità, quindi avrebbe potuto inveire contro di me, se avessi osato provocarla.
«Caterina» rispose, rossa in viso e con il respiro corto.
«Bene, Caterina. Perché non ti prendi una pausa? Sgranchisci le ossa per dieci minuti e poi riprendi» Sapevo che il dado era stato tratto, ma non volevo che Caterina sentisse il peso della situazione, volevo che non si sentisse spacciata. Era ancora giovane, avrebbe potuto fare altro nella vita, e invece aveva scelto di vendersi a me.
«Questo è tutto ciò che ho, che ho sempre voluto» sentenziò, quasi come se avesse potuto leggermi la mente.
Inspirò per poi espirare molto lentamente.
Non dissi nulla, aspettai che lei riprendesse a dire qualcosa.
E lei non si fece attendere che pochi minuti.
«Non saprei cosa fare, se non esistesse. Non sarei nulla, se non potessi scrivere – alzò gli occhi verso di me, come se in me avesse visto la sua sconfitta – anche adesso non sono nulla. Anche dopo che sarai andata via, non sarò nulla. Vero?»
Annuii lentamente, condividevo il suo punto di vista. Non ce l'aveva fatta da sola, con il suo potenziale, il suo talento, la sua passione; cosa avrebbe cambiato tornare a scrivere solo perché lo avrei permesso io? Cosa avrebbe cambiato pagare un prezzo tanto alto – se stessa – affinché io diventassi la forza di cui lei necessita?
Annuì anche lei, convenendo con se stessa, guardando quel foglio vuoto, bianco.
D'un tratto si alzò, si aggiustò il maglioncino di modo che le scendesse meglio sui fianchi e andò ad accendere la luce. L'ambiente si riempì di colpo di un alone bianco, intenso. Riuscii a vedere finalmente quella stanza e a distinguere i mobili con cui era arredata, che erano vecchi e usurati, proprio come li avevo immaginati io quando ancora si celavano nell'oscurità – quando l'unica cosa che mi permetteva di immaginare quella stanza era l'odore di umido che ristagnava.
Caterina iniziò a scavare fra i cassettoni, apriva e chiudeva mobili, credenze, in cerca di qualcosa.
«La nutella è nel cassettone della vetrina» Dichiarai, con calma.
«La nutella mi fa schifo» Sostenne con ansia e disgusto.
«Pazzesco – Commentai – E allora cosa stai cercando?»
Rovistava in una credenza, spostando bottiglie d'acqua minerale e alcune scatole di medicinali. Mi sembrò strano trovare medicinali in una credenza dove venivano riposte le bibite. Si fermò e voltò il viso per guardarmi.
«Miele – Mi rispose – Vorrei un cucchiaino di miele. Ma qui in casa è finito»
Forse voleva davvero un po' di miele, o forse voleva soltanto perdere un po' di tempo, il tempo necessario affinché accettasse ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi minuti.
«Se vuoi andiamo in giardino – Proposi – Magari l'aria fresca può esserti d'aiuto»
Chiuse l'anta della credenza, si voltò completamente verso di me.
«No... no! Facciamolo qui, ora. Subito» Si avvicinò frettolosamente a me – sbattendo una ginocchio contro una sedia. Non batté ciglio, mi si parò di fronte e si inginocchiò.
«Ora» sussurrò, chiudendo piano gli occhi.
Era troppo presto per lei, ma non sarebbe mai stata pronta del tutto, comunque.
«Ne sei sicura?» Chiesi per scrupolo
Provò a rispondere, ma si trattenne. Rimase in silenzio un paio di secondi, per poi parlare.
«Sì. Ora»
Allungai il braccio verso di lei, che sollevò lo sguardo sul mio viso.
«Farà male?»
«No» Rassicurai.
Annuì più volte e richiuse gli occhi.
Posai la mia mano sulla sua fronte, e il suo mondo si aprì a me.
Il flusso dei suoi pensieri attraversò la mia pelle e iniziò a scorrere nelle mie vene. Fiumi neri di parole, sogni, desideri, poesie, racconti, persone, amore, paure si riversò nel mio sangue, ed entrarono in me, mi riempirono.
E nel mio corpo, nella mente, nella mia linfa, nacque l'Ispirazione.
Ero il racconto di una bambina dai boccoli dorati che piangeva per un bambino che la toccava; ero una ragazza che aveva venduto la sua personalità per essere accettata, una ragazza dal bisogno inesprimibile di essere accolta, amata, capita, che celava nel suo cinismo tutto il dolore procuratole dal suo passato; ero una poesia scritta su un muretto prima di entrare in classe, che parlava d'Africa e d'Amore; ero il pianto disperato della malattia, della confessione, della volontà di farsi male di fronte lo specchio.
Una scossa percosse le mie vene , che sussultarono. Era il fiume nero che scorreva in me a scuotermi.
Scostai di scatto la mano folgorata dalla sua fronte sudata.
«Che diavolo...?»
I suoi occhi, neri ed assenti, mi spaventarono. Si alzò, bella, austera, vuota. L'avevo svuotata di tutto ma si oppose prima che io potessi restituirle ciò che mi aveva chiesto chiamandomi.
Quell'universo nero era rivolto verso di me, ma non posso dire che mi guardava. Mi costrinse a fissarla in quel vuoto, tenendomi per un braccio.
«Sei tu che mi hai chiamata!» Urlai, strizzando gli occhi per non guardare.
«Chi sei?» Ebbe il coraggio – finalmente – di chiedere.
Non seppi rispondere. Chi ero? Il diavolo, uno spettro? Non lo sapevo. Ero colei che arrivava da chi aveva bisogno di ispirazione, chiedendo in cambio non l'anima, ma la mente, la ragione.
«Chi sei? – Tuonò – Raccontami la tua storia!»
Provai a dire qualcosa, gli occhi erano ancora serrati, ma non riuscii a dire niente. Non avevo una storia, non avevo passato.
Allora Caterina rinserrò la presa e mi strinse più volte, facendomi male al braccio.
«Chi sei, Fata Nera??»
All'udire quel nome, spalancai gli occhi. Come se avessi compreso tutto, come se mi avessero chiamata, piena di stupore e di dubbi che non riuscii a decifrare, perché fui risucchiata dalla materia nera dei suoi occhi.
E d'un tratto sentii vita.
D'un tratto vi fu vita, nel mio corpo.
Parlavo alle persone, sorridevo, piangevo, credevo, constatavo, valutavo, amavo. Ero una persona. Ero occhi, braccia, bocca, gambe; camminavo, guardavo, mangiavo. Incontrai corpi, braccia, occhi e bocche proprio come le mie; mi unii a voci, dita, affanni, dolori; toccai la pelle di tantissimi individui diversi; assaggiai il sapore del miele, denso, vischioso, dolce. Ero persona fra le persone, e fra di esse, cercai Lei, il suo sguardo, le sue mani e mi fondetti con sudore, lacrime, sangue, umori, labbra, denti, urla, lingue, gambe, lenzuola, abiti, risate.
Mi alzai da un letto e mi guardai in uno specchio. Ero Caterina.

Mi ritrovavo a terra, madida di sudore, annaspante, senza riuscire però a trovare appigli per mettermi almeno a sedere.
Volsi lentamente il volto verso la mia destra. Caterina giaceva al suolo, priva di conoscenza.
Fu allora, solo allora che capii. Avevo finalmente avuto una storia; non una storia qualsiasi, ma il mio passato.
Caterina aprì gli occhi; confusa, cercò di mettermi a fuoco. I suoi occhi erano tornati i soliti occhi marrone scuro, come quelli che avevo sempre visto, quelli che avevo sempre avuto.
«Schwarze Fee...» sussurrò a fatica.
«Sì» Risposi. Ero ancora stesa sul pavimento.
Provò a dirmi qualcosa, ma era troppo stanca per parlare.
Si addormentò, mentre io mi alzai sui gomiti.
Dalla strada saliva un dolce profumo di cornetti. Ricordai che nel palazzo di fronte risiedeva il forno di una pasticceria. Mi stupii, non sentivo alcun profumo da anni, e pensare che riuscivo a dare un tempo alle cose mi spaventò.
Ero sempre stata il nulla, senza tempo. Arrivavo da chi mi chiamava, prendevo la loro ragione e in cambio donavo ispirazione, talento, notorietà.
Ora invece avevo un nome. Schwarze Fee. Ricordavo di aver sofferto le stesse pene di Caterina, in passato, ma non avevo nessuno a cui rivolgermi. E ricordo. Nacqui tre anni prima, da Caterina stessa. Mi separai da lei e divenni una creatura senza tempo. Ero io Caterina. Ora chi c'era in lei? Perché non ero ritornata in lei, in me?
Intanto, lei dormiva tranquilla, come se sapesse tutto. In me scorreva ancora il suo talento, che era sempre stato in mio, ma sapevo che era una sensazione evanescente. Ero ritornata ad essere viva, ad essere io. Perché ero separata da lei?
Capii che non avrei ottenuto mai una risposta. Tutto ciò che sapevo è che sentivo di nuovo la vita in me. Quindi aspettai di riprendere le energie. Mi alzai, spensi la luce, mi sedetti al tavolo e iniziai a riempire quel foglio vuoto da tre anni.

   
 
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