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Autore: miss potter    04/03/2013    4 recensioni
"Bisogna avere un pò di caos dentro per partorire una stella danzante." (1)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter seven






“Non sali?”
Era strano. Strano e imbarazzante. Una situazione ai limiti del paradossale, direi.
Un tempo non avrei nemmeno chiesto permesso, sarei entrato da lei senza esitazioni, lasciando le pecche sulla moquette con le Converse sporche, avrei accettato il caffè, l’idea del rosa disgustoso della carta da parati in camera sua, e poi… chissà. Il tempo e la solitudine di entrambi avrebbero fatto il proprio corso. Ma non fu quella, l’occasione.
Mary mi guardava dall’alto dei primi scalini in pietra che indirizzavano al portone scuro del suo appartamento, ai piedi dei quali mi ero fermato io col peso della pioggia e del suo sguardo perplesso su ogni centimetro del corpo.
Dovevo apparirle come un novellino, inesperto di fronte alle emozioni e alle prime esperienze affettive, incerto e zoppicante sulle braci ardenti delle possibilità e del rischio.
Sarebbe stato solo per un caffè, continuavo a ripetermi. Al massimo sarei andato in bagno, mi sarei fatto una doccia calda, lei mi avrebbe prestato un ombrello e poi via, di nuovo a casa, di nuovo immerso nell’abbandono di sempre e nella penombra della mia stanza, quella con la carta da parati verde palude e noiosa.
Non avevo nulla di cui temere, nessuno a cui rendere conto di niente, almeno una volta nella mia vita, che non fosse me stesso. Sarah, Sherlock… Sibili lontani, respiri di tempo di ciò che è stato e domande scomode a cui non volevo rispondere, almeno per un pomeriggio d’estate.
“Come no!” le sorrisi, raggiungendola in un paio di falcate davanti al portone e poi, insieme, dentro casa.
Sobrietà e tepore. Ecco i sentimenti che mi ispirarono il suo piccolo nido da libraia. Certo, la moquette bordeaux sul pavimento avrebbe avuto bisogno di una passata di aspirapolvere, le mensole di una lucidata così come il grande specchio in entrata, sul quale Mary gettò un rapido sguardo in un gesto automatico, quasi istintivo.

Non si sente all’altezza della situazione, John. Donna insicura di sé. Come potrebbe garantirti la stabilità che cerchi, eh John?

Stabilità? Uno che lavora in un ospedale psichiatrico?
Scossi la testa e le chiesi dove fosse il bagno, cercando di ignorare il fastidioso pulsare di una palpebra.
“In fondo al corridoio, sulla sinistra. Se vuoi farti una doccia, fa pure… Sei fradicio.”
“Ti ringrazio molto, davvero” dissi, strofinandomi la mani sulla camicia zuppa. “Questi vestiti…”
“Oh, non preoccuparti per quelli. Vedo cosa riesco a rimediarti. Intanto fa come fossi a casa tua.”
La osservai scomparire dietro a una porta lungo il corridoio, mentre io mi tolsi le scarpe prima di raggiungere il bagno dove mi affrettai ad aprire l’acqua della doccia.
Chiusi la porta a chiave e, spogliandomi, già mi inebriai del soffice strato di vapore che stemperò i brividi di freddo i quali, nonostante la stagione, si rincorrevano come piccole cavallette lungo la mia schiena.
Il getto d’acqua calda sulla mia pelle infreddolita agì come un perfetto calmante e non potei fare altro se non rilassarmi e godermi il momento.

Certo che ti sei ridotto proprio male, diceva la voce. Seconda volta che la vedi e già ti fai la doccia nel suo bagno… Facendo seguire un paio di schiocchi, come una lingua sul palato.

“Sta’ zitto. Zitto!”
Dovevo averlo urlato perché la voce sonora e preoccupata di Mary non tardò a farsi sentire dall’altra parte della porta.
“John? Tutto okay?”
“Sì! Benissimo. Stavo… ripassando!”
“Ripassando?”
Che idiota. Un idiota bugiardo che parla da solo. Un idiota bugiardo che parla da solo e soffre di allucinazioni uditive.
“Ehm, sì. Ripassando. Nel tempo libero faccio l’attore di teatro.”
Da dove l’attore di teatro mi fosse uscito, proprio non lo sapevo. Sapevo solo che, se Mary non mi aveva ancora liquidato, allora doveva avere una santa dentro di sé, o una grande attitudine nell’ignorare le bugie, perché io l’avrei fatto, insomma, con me stesso se fossi stato al suo posto.
“Er… D’accordo. Allora ti aspetto di là, così mi racconti delle tue performance.”
Uscii dal box doccia due minuti dopo, rosso come un pomodoro, e solo in parte – una parte davvero misera – per il calore del vapore acqueo.
Trovai un grande asciugamano appeso vicino al lavandino e mi ci avvolsi. Aprendo poi la porta, quasi non inciampai sulla piccola pila di vestiti, asciutti e puliti, accuratamente piegati e poggiati a terra.
Li raccolsi e, sfiorando la stoffa morbida e profumata della camicia, di un paio di jeans, calzini e boxer, mi ritrovai a sorridere, riflettendo sul fatto che una gentilezza del genere non mi si dimostrava dai tempi di mia madre prima dell’Afghanistan, quando tornavo dall’addestramento più fango che essere umano.
Mi vestii in fretta appallottolando i panni bagnati, e raggiunsi Mary in quella che doveva essere una cucina, composta da un tavolo piuttosto piccolo, due sedie in vimini, un piano cottura arrugginito in più punti, quattro mensole in croce, colme di alimenti in barattoli di latta a lunga conservazione, e il frigorifero. L’aroma rinvigorente del caffè mi solleticò piacevolmente il naso facendomi inspirare a fondo l’aria casalinga che, in tanti anni da ex militare scapolo, mi era mancata tanto.
La ragazza se ne stava seduta col suo cagnolino accoccolato sul grembo, che prese a fissarmi guardingo con i grandi occhi neri e sporgenti mentre mi avvicinavo.
“Ti stanno a pennello” disse Mary, una nota di malinconia nella voce e nei grandi occhi marroni.
“Grazie, ma non era necessario.”
“Oh, tranquillo. Erano del mio Todd. Puoi riportarmeli quando vuoi.”
“Una vecchia fiamma?”
Gli occhi della ragazza, solitamente allegri e di un bel color nocciola, si tinsero di un’immensa e grigia tristezza. Mi morsi la lingua per l’imbarazzo di una domanda, a quanto pare, inopportuna e per la mia solita ed innata curiosità nei confronti del mistero.
“Scu-scusa, non… sono affari miei.”
“No,” mormorò, la voce incrinata “Iraq.”
Una sola parola, una sola, prima del pianto, e quel dolore, unito ai sospiri interrotti dall’angoscia dei ricordi pesanti come un quintale di lacrime amare, lo stesso che provai ogni dannato giorno, laggiù nel deserto bollente tra i proiettili e i feriti, e che ogni tanto ancora mi invade anima e sonno, si schiantò con tutta la sua forza bruta sul cuore martoriato da cicatrici mai guarite qual era il mio, e mai prima di allora mi sentii così vicino a qualcuno, mai così totalmente compreso.
Presi posto sulla sedia di fronte a lei e non potei fare altro se non allungare una mano per appoggiarla sulla sua, tremante e chiusa a pugno, in una stretta complice e amica che voleva sapere di condoglianze e vicinanza ma che, come bene sapevo, non sarebbe mai bastata per salvarla del tutto dai suoi fantasmi, che erano i miei, come non erano bastate le sedute da Ella e le pacche di amici e parenti sulla spalla buona per me.
“Mi dispiace.”
“Grazie” sussurrò con gli occhi gonfi e lucidi, cercando di convincere le lacrime a tornare da dove stavano sopraggiungendo, in quel percorso segnato dall’abitudine di un ricordo ancora troppo giovane per non fare troppo male.
“Afghanistan, medico militare dei fucilieri di Sua Maestà” dissi, togliendomi le piastrine che portavo sempre intorno al collo. Porgendogliele, le affidai una parte della mia vita che sarebbe per sempre rimasta sua, nonostante tutto il resto.
Lei mi guardò con stupore e aspettativa, come un naufrago alla deriva su un pezzo di legno marcio e senza più alcuna speranza a cui aggrapparsi quando scorge un’isola lontana, e prega un dio verso cui bestemmia ogni secondo della sua vita che non sia l’ennesimo miraggio.
Quello sguardo non mi era del tutto nuovo, lo sapevo. Lo sapevo perché era lo stesso di chi viene riesumato dalle proprie ceneri e che cerca di trovare le parole per ringraziare la mano che gli viene allungata, invano. Ci riconoscevo due altre paia di occhi, i miei, e quelli di un altro mondo interiore che mi aveva graffiato lo spirito, neanche un mese prima, imprimendoci il proprio marchio di follia e corrosa passione.
Quanta miseria un uomo come me, trasparente agli occhi della gente ma soprattutto ai suoi, riesce a raccattare nella sua vita, quanta sofferenza sommata ad altra sofferenza, senza le armi, non più, per tornare a combattere, ogni maledetta volta. Si rimane senza più forze né motivazioni abbastanza valide per sopravvivere davvero e per continuare a credere che non sia la fine, non per te che hai lottato tutta una vita nel nome di ciò che pensavi fosse giusto, che ti facesse bene.
Ma, nonostante tutto, di nuovo mi stavo sentendo importante, fondamentale per qualcuno diverso da me, e, a dispetto del lieve fastidio alla gamba che attribuii al maltempo, stavo bene. Veramente.
“Grazie, John” pigolò dolce la donna, sfiorando con i polpastrelli le placchette lucide posate sul mio palmo aperto. In quel mezzo sorriso riuscii a distinguere, chiara come un’alba, la concreta possibilità per me di risorgere e di ricominciare daccapo.
Mi limitai a sorriderle, sorridere e sperare che la pioggia cessasse, prima o poi, per entrambi.
Le ore passarono tranquille, a casa Morstan. Bevemmo il caffè e parlammo della guerra, così a lungo che Mary si dimenticò della mia pseudo carriera teatrale e della mia strana abitudine di portarmi il tempo libero sotto la doccia. E io non ne avrei fatto di certo cenno.
Mi parlò di Todd, che era il suo fidanzato. Si sarebbero sposati al principio di maggio dell’anno prima, una cerimonia in grande stile, da quello che intesi: abito bianco, damigelle e ospiti, torta a cinque piani, una bella chiesa in campagna, noiosi parenti da ogni parte del paese e porcellane francesi.
Mi disse Mary che Todd la faceva sentire come una principessa, in quanto benestante di famiglia e dunque desideroso di offrire alla sua amata tutto ciò di cui lei non aveva mai goduto, avendo perso il padre in un safari in India qualche anno prima e la madre quand’era molto piccola.
Vivevano in un appartamento in centro, vicino al parco, un bel giardino, vicini facoltosi, due auto e il progetto di un figlio che, a dire di Todd, sarebbe arrivato dopo il suo ritorno dalla missione.
“Non oso immaginare come sarebbe andata se fossi rimasta incinta prima della sua scomparsa” sussurrò in un sospiro tremulo, rigirandosi la tazzina tra le dita sottili e gettandoci lo sguardo vuoto dentro.
“Terribile” convenni, imbarazzato da argomenti come matrimonio e prole che non consideravo, al momento, tra le mie priorità. Non che l’avessi mai fatto, ad esser sincero, o che avessi intenzione di farlo in futuro.
La guerra ti cambia, nel profondo. E forse nel campo di battaglia ci si lascia sempre qualcosa di più che qualche lembo di pelle e gli anni più belli della giovinezza. Ci si dimentica di essere uomini, di avere dei sentimenti, dei bisogni e delle aspirazioni che vanno oltre al semplice restare vivi fino al prossimo tramonto o cercare di non farsi mangiare vivo da zanzare grosse come palline da cricket durante la guardia di notte.
Dal mio ritorno a Londra, la realtà mi stava presentando un conto straordinariamente più salato del previsto, e quelle cifre mi perseguitavano ovunque fossi, qualsiasi cosa stessi facendo, galleggiando in fondo alla mia tazza di caffè o negli occhi delle persone che si accingevano a far parte di quel frammento superstite della mia esistenza.
“Ti sembrerò una stupida ma non sono riuscita a separarmene” disse, sorridendo all’indirizzo degli indumenti che indossavo.
“Non eri costretta. Potevo dare una strizzatina ai miei e rimetterli.”
“Oh, non essere sciocco. E poi è passato un anno. Dovrò pur farmene una ragione.”
La guardai con biasimo e scossi la testa, senza tuttavia riuscire a mantenere il contatto visivo.
“Credo che non ci sia nulla di ragionevole nella morte di un nostro caro. Quando si perde qualcuno che si ama, beh… con lui, o con lei, se ne va una parte di noi stessi. E non penso sia possibile recuperarla. Si può solamente cercare di andare avanti, ricordando l’affetto, l’amore profondo che si è provato per quella persona che, nonostante l’assenza corporea, sarà sempre viva dentro di noi. Il ricordo non svanisce, mai. Per questo credo che la gente preghi. Per ripescare dentro di sé quella forza che non è del corpo, necessaria per andare avanti, per non… morire.”
Percepii l’ombra di un sorriso e il veloce transito di un sospiro bussare alla porta delle mie palpebre abbassate.
“Sei credente, John?”
“Dio? Beh, sai, quando torni dalla guerra Dio è l’ultima cosa a cui hai bisogno di credere. Perché se davvero esistesse, fidati, dovrebbe avere una scusa molto buona.”
“Allora in cosa credi?”
“Nell’umanità. Nello straordinario potere dell’uomo, stolto, malvagio il più delle volte ma, nonostante tutto, il più meraviglioso tra tutti gli esseri viventi, capace di pensare e scegliere, che combatte per rimediare ai propri errori ogni giorno, nonostante tutto.”
Da quanto tempo non affrontavo discorsi del genere? Mi pareva che fossero secoli. Forse, dai tempi della parrocchia quand’ero a scuola, o dalle nottate passate in bianco ad assistere mia sorella con la testa affondata nel water.
Mi pareva di conoscerla da una vita, Mary, di averci sempre parlato e che fosse l’amica che non conobbi mai, la persona speciale con la quale puoi parlare di tutto e di più perché condivide le tue stesse esperienze, le tue stesse aspirazioni, qualche sogno e più di qualche paura, e tutto il dolore che si possa immaginare.
Con lei mi sentivo libero, spensierato, e tutta la fatica della giornata, il rumore della pioggia e i pensieri sbagliati rimanevano fuori, oltre il vetro appannato della cucina, dietro le palpebre, fuori dagli occhi e lontano dal cuore.
Quel pomeriggio, James Moriarty, Sherlock Holmes e le sue manie, le carte del mio prepensionamento, Catullo… tutto era scolorito insieme alle luci del giorno e, con loro, lo scorrere del tempo.
Parlammo, parlammo ancora, io e lei, fino a che non si fece scuro e il mio caffè si raffreddò.
La ringraziai, baciandola su una guancia, e sorrisi quando notai il repentino arrossarsi delle sue gote al mio gesto, una ragazzina dai capelli di fuoco appoggiata allo stipite del portone di casa mentre si tormenta il lembo della maglietta e struscia un piede per terra.
“Grazie, Mary. Ti sarò per sempre riconoscente.”
“I vestiti te li lavo e quando ci vediamo te li ridò.”

Ah, quindi per lei è già scontato che vi rivedrete?

“Certo.”


 
John, ho bisogno di te. SH

Sono in ambulatorio. O James ti ha tagliato le gambe oltre che la lingua?

Vieni qui e basta. Per favore. SH

Scusa ma ho da fare al momento.

John… SH

Era da qualche giorno, dopo l’accaduto nell’ufficio di Moriarty, che non avevo espresso né il desiderio né la voglia di vederlo.
Mi sarei rivisto con Mary, l’indomani, magari per una spremuta al bar, e avremo passeggiato per Hyde Park, mano nella mano (?), parlando delle montagne del Tibet. Così, quei messaggi dal vago ed insignificante tono languido e adulatore non fecero breccia dove, forse, speravano di colpire e dove, molto probabilmente, non era rimasto più posto, soprattutto per i capricci di un ragazzino viziato quale si comportava Sherlock Holmes e no, non me ne sarei pentito.
Fatto sta che, di comune accordo col mio senso della coerenza in ferie stabili, quando avvertii il leggero fastidio allo stomaco che solitamente le persone definiscono senso di colpa, smisi di camuffarlo da indigestione spostando l’attenzione sul pupazzetto antistress sulla mia scrivania che cominciai a infilzare con la punta della penna, accompagnando, qualche secondo dopo, la fuoriuscita delle palline tossiche dalla pancia del suddetto con una maledizione auto inferta e la strana voglia di una sbornia. Di quelle potenti, possibilmente, che ti fanno dimenticare nome e data di nascita per due giorni di seguito.
Perché dovessi sentirmi in colpa, beh, questo lo ignoravo. Dopotutto non ero stato io quello a drogarlo fino a ridurre la sua amata capacità cognitiva a quella di uno lavandino intasato.
Fissai il display, incerto sul da farsi e da dirsi, le dita cementificate sui tasti del telefono per un tempo indefinito prima di scrollare il capo e sospirare tutta l’indignazione che provavo verso il mio esiguo senso per la coerenza.
“Al diavolo…”
Abbandonai le cartelle cliniche e l’ambulatorio, precipitandomi verso le camere e dandomi dello stupido per aver, inconsciamente, sputato sul sacrosanto giuramento di Ippocrate ignorando la richiesta di aiuto di un paziente. Un paziente piuttosto esigente, per lo più.
Che poi era aiuto ciò che Sherlock Holmes andava cercando e in nome del quale mi stava facendo guadagnare un abbonamento di una decina di sedute dalla terapista?
“Sherlock?” chiamai col fiatone, bussando a pieno pugno al numero 221.
Nessuna risposta.
Mentre aumentai la potenza delle bussate e il tono della mia voce, cominciai anche ad elaborare una ventina di avvenimenti macabri che sarebbero potuti accadere nei trenta scarsi secondi che mi ci vollero per raggiungere la sua porta.
“Sherlock!” urlai ad un tratto, abbassando con forza la maniglia ed entrando come un uragano a piena portata nella stanza, poco più che una cella con un tavolino, un armadio e, sotto la finestra sbarrata, un letto sul quale era steso supino il sociopatico.
“John, qual è il tuo problema?” chiese questi quasi sottovoce, infingardo, gli occhi chiusi e le mani giunte sotto il mento.
Riecco il prurito alle mani. Ma questa volta l’avrei volentieri scaricato su quegli zigomi affilati senza pormi alcuna remora, nossignore.
Cercando di controllare il palpabile cambiamento del colorito della mia faccia, mi chiusi la porta alle spalle, inspirando ed espirando per cercare di riacquistare il mio equilibrio psicofisico in lento e doloroso sgretolamento.
“Qual è il mio problema?! Sherlock, mi hai fatto preoccupare!” esclamai, sbattendogli in faccia il cellulare.
Il mio paziente sbuffò roteando gli occhi da dietro le palpebre chiuse, come un adolescente di fronte all’ennesima ramanzina della madre che si lamenta per il disordine della sua stanza. In effetti era un disastro, la sua stanza, ma non dissi niente. Il disastro che mi preoccupava maggiormente interessava la sua mente.
L’immaturo in questione si tirò su a sedere incrociando le gambe sul materasso e mi spalancò gli occhi addosso, inquisitorio, ricominciando a scannerizzarmi con lo sguardo.
“Che c’è?” chiesi, allargando le braccia.
“Come si chiama?”
“Ma chi, scusa?!”
“La numero due.”
“La numero… Senti, non so dove tu voglia andare a parare ma…”
“Oh, io penso che tu lo sappia molto bene, dottore.”
“Aspetta… Sono affari tuoi? Oh, già. NO!”
Sherlock scosse la testa prendendo a grattandosela con entrambe le mani come se stesse ragionando su un problema matematico particolarmente complicato, o se avesse la testa infestata da chissà che colonia di insetti emofagi, affondando infine il viso nei palmi e trincerandosi dietro ad un silenzio per me snervante.
Niente insetti, nessuna equazione. Solo pensieri, enigmi, labirinti incorporei ma impenetrabili, eretti a difesa di un cervello essenzialmente fragile, in continua attività, sepolti dalla matassa di boccoli neri e dalla freddezza che andava ad intermittenza col tormento.
“Scusami, starei parlando con te.”
“John, mio fratello paga una somma non da poco per tenermi rinchiuso qui dentro e non vedo che altri espedienti possa trarre, se non farmi gli affari degli altri, per evitare di essere mangiato vivo dalla noia… o dal mio vicino di stanza.”
“Matthew non ha niente che non va,” sospirai “rifugia nel cibo per controllare la depressione e non vedo perché dovrebbe scegliere il mucchietto d’ossa che sei come pranzo. E poi non mi pare che rinchiuso sia la parola più adatta visto e considerato che non fai altro che importunare il mio staff e gli altri pazienti gironzolando ovunque come un… gattino in pena!”
Sherlock sollevò il capo di scatto infilzandomi con le lame che aveva al posto delle pupille, assumendo un cipiglio tra lo sconcertato e il leggero disorientamento. Il verdazzurro, l’ambra e il blu erano tornati a perseguitarmi, risplendendo vivi e frizzanti nel girotondo delle iridi, e la ruga in mezzo alle sopracciglia traduceva alla perfezione i cigolii degli infaticabili ingranaggi della macchina complessa e incomprensibile residente nella sua scatola cranica.
Gli ci volle qualche secondo prima di riaprire bocca.
“Gattino, John?”
“È semplicemente un modo di dire, Sherlock… Io…”
“Ti sembro forse un gattino?” ripeté cambiando posizione e accucciandosi sul letto, le mani aperte davanti alle ginocchia piegate.
Un morbido, bellissimo gattino nero, sì…
“No!”
“Se non pensassi che io lo sembri allora non avresti di certo detto che lo sembro, visto che a detta tua non pensi che io lo sia.”
Un orrendo e martellante mal di testa mi colse alla sprovvista mentre cercavo di capire cosa mi stesse dicendo quell’ammasso umano di insensatezze e capelli scuri che mi fissava curioso come una lince sul punto di balzare sulla sua ignara preda, pulsazione alimentata dal fatto che ora il colore dei suoi occhi sembrava aver acquistato una consistenza lattiginosa. Menta e latte.
“È così” mi limitai a dire, massaggiandomi una tempia e cercando di mantenere la lucidità di fronte ad un gattonante Sherlock Holmes armato di uno dei suoi tanti sorrisi a metà che serbavano il potere di mandare letteralmente in vacca il senso del giudizio e della percezione del reale a qualsiasi essere vivente dotato di occhi.
Si avvicinò a me, lento e calcolatore, arrampicandosi coi palmi lungo il mio petto, dove le sue dita trovarono ben presto terreno fertile per iniziare una danza fatta di sfioramenti e carezze, apparentemente senza significato, che finsi che non mi procurassero alcuna reazione. In quel momento mi ricordò molto il persiano grigio di mia cugina Beth, che a Natale aveva deciso di stabilirsi sulle mie cosce inaugurando una lunghissima sessione di danza del latte sul mio addome, causando la presenza di peli lunghi come spaghetti sul mio maglione preferito per circa un mese e mezzo.
“Sherlock…” mormorai già in debito d’ossigeno e di pensieri razionali e del tutto puliti che non riguardassero felini, letto, Sherlock, graffiare, Sherlock e ancora letto, alternando lo sguardo tra quelle dita da musicista, pericolosamente prossime ai bottoni della camicia, e i suoi occhi di smeraldo, finalmente alla stessa altezza dei miei.
“Chiedimelo” sussurrò, quasi in un lamento, mentre prese ad accarezzarmi i pettorali e poi a scendere, giù, dallo sterno fino ai muscoli addominali che mi si contrassero di riflesso.
“C-cosa?” balbettai facendo incontrare le sue mani con le mie, le cui dita andarono ad allacciarsi ai suoi polsi ossuti e mobili.
“Come faccio a sapere della numero due.”
“Come fai a… a sapere di Mary?”
“Mary… Nome comune, noioso. Vediamo…”
Sussultai, pietrificato ed incapace di sottrarmi da quelle attenzioni che di innocente non avevano proprio niente, quelle dolci e malate attenzioni che stavano trasformandosi nella mia assuefazione più dolce, soprattutto quando le manovre di Sherlock si spostarono al nodo della mia cravatta, allentandolo.
“Siamo più eleganti del solito, dottor Watson. Camicia di cotone, stranamente monocroma, di un azzurrino piuttosto sciatto. Forse qualcuno ti ha convinto, toppando completamente, che i colori pallidi e sobri si intonino alla tua persona” disse facendo scorrere un indice lungo i primi bottoni, che scivolarono fuori dalle proprie asole con la stessa facilità della melassa in un barile che viene accidentalmente rovesciato.
“Forse, l’unico modo per farti cambiare idea sulla tua bislacca concezione dell’estetica nel vestiario è farti provare un’alternativa alle solite camicie a quadretti scozzesi e righe da carcerato. E no, non mi sto riferendo a una commessa. Troppo banale oltre che essenzialmente stupido visto che, col tuo attuale stipendio, non puoi permetterti di rifarti il guardaroba solo perché la sciacquetta di turno ti sbatte le ciglia. Infatti, a giudicare dal filo di colore leggermente diverso con cui è stato cucito il secondo bottone, questa qui non è nuova. Dunque, un prestito. Pioveva, quel giorno, quando te ne sei andato prima dall’ospedale per chissà dove senza portarti dietro un ombrello. Vi siete incontrati, sei salito da lei e ti ha prestato una camicia che aveva in casa. Una vedova? Altrimenti non terrebbe da parte le camicie dell’uomo con cui ha rotto, soprattutto se è una che non si fa problemi a far salire gente in casa come se nulla fosse…”
Nell’esiguo spazio che la ragione riuscì a ricavarsi nell’indicibile casino che popolava il mio cervello, alimentato dallo scorrere veloce e impeccabile di quelle parole soffiate a pochi centimetri dal mio orecchio, in quel momento trovai la forza di reagire e di tappargli la bocca con una mano e bloccargli un polso con l’altra.
Aveva dedotto gli avvenimenti dell’ultima settimana dalla camicia che indossavo, regalatami da Sarah, che avevo messo sì e no due volte appunto per il colore poco originale.
Non avevo segreti per Sherlock Holmes, non potevo averne e, forse, non volevo affatto averne per lui. Ero un libro aperto nelle mani di un premio Nobel per la letteratura, e mi stava sfogliando pagina per pagina un giorno dopo l’altro.
“Non è vedova, genietto dei miei stivali. Non ha avuto il tempo di sposarsi perché l’Iraq le ha portato via l’uomo che amava. Contento?”
“In parte.”
L’aria di sfida e pallida eccitazione nei suoi occhi, il sorriso petulante sulle labbra socchiuse e non proprio a distanza di sicurezza dalle mie, mi avrebbero dovuto far ribollire il sangue nelle vene e spronare a fare qualcosa, non importa cosa, per dargli una lezione una volta per tutte.
“Ti eccita tutto questo, hm? Ti eccito io, con la mia trasparenza e mediocrità. Ti eccita il fatto di sapere di avere sempre il coltello dalla parte del manico, in qualunque situazione, e di essere sempre all’altezza di ogni enigma…”
Non mi accorsi di avere ringhiato, non prima di vedere l’immagine dei miei occhi, due fessure di paura e rabbia verso quella mente affascinante come poche ne esistono al mondo alla quale stavo facendo più fatica del previsto ad abituarmi, riflessa nei suoi.
Mollai di scatto la presa sui suoi polsi e lasciai che le ultime scariche di collera mi scivolassero via di dosso insieme ai polpastrelli di Sherlock, inabissato nella silenziosa contemplazione del sottoscritto.
“Cosa vuoi da me, Sherlock?” chiesi a un certo punto, nell’esasperazione più totale.
Passandomi una mano sulla fronte, mi accorsi di essere leggermente sudato.
“Una storia” disse con naturalezza.
“Una storia?”
“Una storia, John. Raccontami una storia.”
Con la stessa lentezza con la quale si era appropinquato a me, si allontanò appoggiando la schiena alla testiera in ferro del letto, raccogliendo le ginocchia al petto e stringendosele con le braccia come un bambino spaventato o troppo annoiato. In questa posizione, si mise in attesa.
“Veramente non ne conosco molte.”
“Smettila di pensare, John. Parla. Mi piace la tua voce.”
Non potendo contemplare l’esistenza di qualsivoglia alternativa, non potei fare altro se non accontentarlo, prendendo posto accanto a lui sul comodo materasso e raccogliendo le mani in grembo.
“Mia madre mi raccontava sempre la favola dell’usignolo e della rosa, quando da piccolo non riuscivo ad addormentarmi.”
“Ti ascolto.”
Ci guardammo intensamente per un istante e dai suoi occhi, carichi di genuina aspettativa, trassi il coraggio di condividere uno dei ricordi più belli che serbavo di mia madre, che adorava le favole e Oscar Wilde.
“Un tempo, viveva uno studente. Studiava filosofia ed era innamorato della figlia del ciambellano, la ragazza più bella e piena di grazia che avesse mai visto.
Di lì a poco si sarebbe tenuto un ballo, occasione che lo studente avrebbe sfruttato per dichiararsi alla ragazza dei suoi sogni. Ma, ahimè, quest’ultima aveva giurato che avrebbe ballato solo con colui il quale le avrebbe portato in dono una rosa rossa.
Così, lo studente di filosofia abbandonò i suoi libri per dedicarsi alla ricerca della rosa da regalare alla ragazza. Scandagliò il suo giardino, tutte le aiole e tutti i roseti, ma invano. Non riuscì a trovare una sola rosa rossa in tutto il giardino. Pianse a lungo, il giovane, finché un usignolo non lo udì.
‘Perché piange?’ chiedevano i fiori…”
“John, andiamo, i fiori non possono parlare.”
“Sherlock…”
“Okay, okay. Continua.”
“Dicevo… ‘Perché piange?’ chiesero i fiori e gli altri animali del giardino.
‘Per una rosa rossa’ rispose l’usignolo.
Non badò alle risate e agli scherni dei compagni perché soffriva per lo studente come non aveva mai sofferto per nessuno. Sbatté le ali marroni e volò sopra gli alberi, fino ad un roseto dove si posò con grazia.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’ chiese l’usignolo.
‘Le mie rose sono bianche, bianche come la spuma del mare, più bianche della neve sulle montagne. Se ti rivolgi a mio fratello, laggiù, lui forse ti darà ciò che cerchi’ rispose il cespuglio.
L’usignolo volò vicino alla vecchia meridiana dove cresceva il roseto raccomandatogli e gli si posò sopra.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’ lo pregò l’usignolo.
Ma il responso fu sempre lo stesso.
‘Le mie rose sono gialle, gialle come i capelli della ninfa marina che siede vicino al trono d'ambra, e più gialle dell'asfodelo che spunta nel prato prima che il giardiniere giunga con la sua falce. Ma vai da mio fratello che cresce vicino alla finestra dello studente, e forse lui ti darà quello che desideri’.
L’usignolo volò vicino al roseto indicatogli e ripeté la richiesta.
‘Dammi una rosa rossa, in cambio ti canterò la mia più dolce canzone’.
‘Le mie rose sono rosse, rosse come le zampe della colomba e più rosse dei grandi ventagli di corallo che ondeggiano nelle caverne dell'oceano. Ma l'inverno mi ha gelato le vene e fatto cadere i miei germogli, e la tempesta ha spezzato i miei rami, e io non avrò più rose per quest'anno’.
‘Una sola rosa rossa mi basta, solo una rosa rossa!’ insistette l’usignolo. ‘Non c'è nessun modo per averla?’
‘Un modo c’è’ disse il cespuglio ‘ma è così terribile che non oso parlartene...’”
Venni improvvisamente interrotto nel mio racconto da due secchi colpi sulla porta ai quali seguì un improperio da parte di Sherlock.
“Non ci interessa, grazie!” esclamò adombrandosi.
“Controllo” annunciò l’infermiere di reparto facendo capolino da dietro la porta.
Trasalimmo entrambi.
“Dottore…?”
Passando attraverso tutte le gradazioni di rosso in viso come un ragazzino colto con le dita nel barattolo di marmellata, balzai in piedi, lì per lì non sapendo come giustificare la mia presenza in camera di Sherlock, raggomitolato su se stesso e con un’espressione decisamente contrariata sul volto. Sapevo solo che paziente più letto sfatto più il sottoscritto con cravatta allentata e camicia sbottonata non era proprio ciò avrei definito “situazione a mio favore”.
“Si tolga quell’espressione ebete dalla faccia, la rende più stupido di quanto non sia già. Il dottor Watson deve finire il racconto dell’uccello e dei fiori parlanti.”
“F-fiori parlanti?” balbettò l’infermiere, pietrificato sulla soglia.
Oh, certo. Perché è assolutamente normale che un medico, in un ospedale psichiatrico, diletti i propri pazienti con storielle di animali e piante con facoltà di proferire verbo. Davvero un’ottima cura per facilitare loro il ritorno alla realtà delle cose.
Esibii uno dei sorrisi più accondiscendenti del repertorio, un repertorio piuttosto limitato, e mi affrettai a uscire dalla stanza portandomi dietro l’inserviente.
“Allora, signor Holmes, continueremo la nostra sessione di “racconta il tuo sogno ricorrente” domani! Arrivederci” lo salutai, accompagnato dall’improvviso corrucciarsi della sua fronte e, molto probabilmente, da qualche commento circa la mia, di sanità mentale, e sul fatto che lui non sogna perché, semplicemente, non contempla il riposo notturno tra le sue principali attività vitali.
Mi chiusi la porta alle spalle tirando un sospiro di sollievo, e cercai di ignorare l’espressione, decisamente inebetita, del ragazzo occhialuto al mio fianco.
“Fiori parlanti, dottor Watson?”
“Oh Tom, non ci scommetteresti un penny. Sono dappertutto!” 







Author's Corner:

Chiedo perdono per il delirio dell'ultima settimana nel scrivere questo capitolo.
"The nightingale and the rose", by the love of my life, alias Oscar Wilde. Se non l'avete già fatto, leggetela perchè merita, come del resto tutte le sue favole. Anzi NO! Non fatelo. Vi rovinereste la sorpresa =)
Pazza me vi dà appuntamento al capitolo otto.
Hugs,

miss potter xx

  
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