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Autore: Slytherin Nikla    20/09/2007    2 recensioni
Premetto che è un tentativo, nato da mesi e mesi di fantasticherie sul mio telefilm preferito: una ragazza cresciuta in polizia torna, dopo una brutta esperienza, a ricaricare le pile nell'Agenzia Governativa dove il suo Maestro regna sovrano.
Genere: Generale, Romantico, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Donald Mallard, Leroy Jethro Gibbs
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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« Allora, Christine… » esordì il patologo, quasi in sordina, all’inizio della nostra pausa di relax « Non credi che forse parlare di quanto successo a New York potrebbe farti bene? »

Quella frase mi colse del tutto alla sprovvista: mi ero premurata di fare tutto il possibile e anche di più affinché nessuno dei miei amici a Washington scoprisse il vero motivo del mio ritorno, e scoprire che non era servito a nulla, trovarmi un’altra volta davanti a ciò che avevo creduto di poter lasciare a chilometri di distanza, fu un duro colpo. Senza contare, poi, che ho sempre odiato dover fare, più del necessario, i conti con i miei fallimenti, in particolar modo quando essi sono pubblici. L’errata – o almeno, questo era quanto aveva dichiarato il tribunale – identificazione di quello che la stampa aveva chiamato “killer filosofo” per le pagine stracciate che lasciava sul luogo dei propri crimini, e il proscioglimento del mio arrestato, appartenevano in maniera più che vistosa ad entrambe le categorie, quindi di conseguenza l’idea di parlarne era fuori discussione.

« No », risposi, asciutta, riafferrando al volo la teiera che chissà come Ducky conservava da anni, intatta e senza un graffio, in sala autopsie, e che quel suo tentativo di approccio al mio problema mi aveva fatto scivolare tra le mani rischiando di vanificare tutte le sue fatiche.

« È umano, sai, commettere degli errori ». Non posso dire che quella garbata insistenza mi avesse sorpreso: conoscevo Donald Mallard da abbastanza tempo per sapere che non si sarebbe mai arreso di fronte ad una qualsiasi variante sul tema “non mi va di parlarne, davvero”, quindi scelsi un decoroso – almeno tale mi sembrò, lì per lì – silenzio. Mi dedicai con grande impegno e serietà a versare l’acqua sulla mia bustina di tè, fingendo per quanto mi era possibile di non aver sentito. « Abigail ci ha messo meno di un’ora, a scovare nella sua rete cibernetica che cosa non andava nella tua storia ».

Incredula, guardai materializzarsi davanti a me una via d’uscita, lastricata d’oro. Un binomio infallibile: Indignazione e Risentimento.

« Mi avete spiata? »

D’accordo, ammetto di essermi sentita in colpa di fronte allo sguardo mortificato di quell’uomo meraviglioso.

« Cerca di capire, eravamo preoccupati. Non è da te, arrivare qui con la prospettiva di restare qualche mese e avvisare della cosa soltanto il direttore e non gli amici… Perché quando è successo non mi hai chiamato, Christine? » Adoravo il tono affettuoso con cui Ducky sapeva pronunciare il mio nome, e tanto bastò a far salire le lacrime. Il risentimento, l’irritazione erano scomparsi, lasciando il posto ad un fortissimo desiderio – piuttosto infantile – di lasciarmi finalmente consolare.

« Perché la nostalgia era già troppo forte », ammisi. « Sarebbe stato troppo duro, sentire la tua voce al telefono e averti così lontano ».

Ho sempre ammirato la capacità di Ducky di commuoversi senza vergognarsene. Mio zio non ne era mai stato in grado, e men che meno poi poteva essere un esempio di sensibilità e disponibilità alla commozione Jethro Gibbs… Un velo umido e sottile invece era apparso negli occhi del mio più caro amico, confermandomi nella convinzione che gli uomini come Donald Mallard dovrebbero essere clonati per il bene dell’umanità.

« Sarei venuto a New York immediatamente, se mi avessi avvertito dell’accaduto. Non avresti avuto nemmeno bisogno di chiedermelo ». Lo guardai, riconoscente, mentre il mio cuore minacciava di scoppiare per il cortocircuito emotivo che vi si era innescato: frustrazione e fallimento per i ricordi tornati a galla, gratitudine e sconfinato affetto verso quell’amico davvero più unico che raro… « Quindi è per questo, che non chiamavi più » proseguì lui, assorto. Mi limitai a sospirare, e lui  ne parve molto afflitto. « Che cosa temevi? Che ti avremmo giudicato? » Fece una brevissima pausa, salvo poi concludere, con un’espressione triste in viso « Che io avrei potuto farlo? »

Senza che neppure me ne rendessi conto mi sfuggì una lacrima. Donald Mallard mi si fece accanto, a suo agio nella tuta di plastica blu come riusciva ad esserlo nei suoi impeccabili abiti da gentleman di rango, e mi sfiorò una guancia fino a farmi alzare il viso verso di lui.

« Oh, tesoro, che momenti brutti devi avere passato… »

Mi ritrovai stretta tra le sue braccia, piangendo come una sciocca ragazzina. Ho detto in precedenza che Ducky è sempre stato la sola persona in grado di contendersi da pari a pari con Gibbs la mia attenzione, ma credo che il sorpasso che tanto ha sconvolto le nostre vite sia iniziato proprio allora, nella fredda sala autopsie, mentre il nostro tè si raffreddava ormai dimenticato su un carrello d’acciaio per i ferri chirurgici. Quel pomeriggio irreale in cui ero rimasta immobile per non so nemmeno quanto tempo, a singhiozzare abbracciata al più geniale dei miei insegnanti, mentre qualcosa di irrimediabile e irrevocabile cambiava dentro di  me. Non me ne accorsi, allora, ma la mia vita aveva appena iniziato a capovolgersi.

Gli parlai di New York, del mio fallimento di cui ancora non riuscivo a darmi spiegazione, degli sguardi ad un tempo compassionevoli e segretamente soddisfatti dei miei colleghi… Tutto. Comprese le illusioni infrante e lo sconforto feroce. Donald ascoltava. Donald capiva. Come sempre, come ogni cosa. Poi mi mandò a fare una doccia, intimandomi pur con il consueto garbo di prepararmi per una cena elegante, e nonostante le mie proteste alla fine l’ebbe vinta. Quando la sua vecchia, adorabile Morgan si fermò, unica nel vasto parcheggio deserto, scossi la testa incredula: come avevo potuto dimenticarlo? Per curare un’anima malinconica non c’era miglior rimedio di una cena raffinata nei sotterranei privati di un museo!

 

Rientrai nel mio appartamento quasi quattro ore più tardi, col cuore più leggero ma sovrastata da un vago senso di malinconia: com’era possibile quell’amicizia tanto profonda, quel rapporto di ineffabile tenerezza, quando a New York non avevo una sola persona che potessi chiamare davvero amica? Sprofondai nel divano senza cambiarmi d’abito, passando mentalmente in rassegna volti e nomi di persone presenti nella mia vita da sempre. Conoscenti, nella migliore delle ipotesi. Presenze transeunti, nella maggior parte dei casi. Meteore e niente più.

Mi sentii triste.

Costrinsi il mio corpo a riemergere dal divano contro la sua volontà e mi diressi in cucina, dove, sul pensile più alto e in una scatola di metallo che faticava ad aprirsi – qualsiasi cosa, per combattere una tentazione – avevo depositato al mio arrivo l’àncora dei brutti momenti. Ero ancora in piedi sulla sedia quando squillò il telefono, ma non mi diedi certo la briga di rispondere; dopo la serata con Ducky, dopo quell’accesso di sconforto, la possibilità di parlare con chicchessia era categoricamente fuori discussione.

« Chris, sei in casa? » Abby. « Dai, Chris… Mi sento stupida quando parlo con la segreteria ». Silenzio, forse per darmi il tempo di raggiungere l’apparecchio, ma non me ne curai. Scesi dalla sedia, aprii la scatola con le unghie e spensi la luce. « Ah, non ci sei davvero. Bene… Ecco, io volevo… Immagino che Ducky ti abbia detto quello che…Sì, insomma, lo sai…» Pausa, di nuovo lunga, ma questa volta mi parve imbarazzata. Tornai al divano e mi sedetti a gambe incrociate. Davanti a me, il pacchetto di sigarette che mi portavo dietro nonostante non fumassi da tre mesi mi fissava con insistenza. « Volevo scusarmi. Ma eravamo preoccupati, e così ne abbiamo parlato…E così Gibbs mi ha chiesto di trovare delle risposte, e così io… » Piantala con questi “e così”, Abby. La fiamma dell’accendino si rivelò, come previsto, incredibilmente rassicurante.

 

Le porte dell’ascensore avevano fatto a malapena in tempo ad aprirsi di qualche centimetro che subito si richiusero alla svelta dopo che una massa indistinta – un corpo, e subito individuai di chi – mi aveva quasi travolto nel fare il proprio frettoloso ingresso. La corrente si interruppe.

« Prevedibile, Gibbs »

« Non si può dire altrettanto del tuo comportamento ». Mi limitai ad un’alzata di spalle: tentare di protestare, o peggio di giustificarmi, con Gibbs sarebbe stato oltremodo stupido. « Tutti facciamo degli errori ».

« Io non ho sbagliato! », gli gridai, cosa che avevo desiderato fare sin dal primo istante di quell’incubo iniziato a New York venti giorni prima. Avevo colpito con forza la parete metallica, che reagì con impassibilità al mio gesto esasperato e furente.

« Stavo parlando dei tuoi colleghi. E del giudice » aveva proseguito con calma, senza scomporsi di un millimetro di fronte alla mia reazione.

« Ah. Scusa, Jethro, io… »

« Mai scusarsi. Quella stupida città ti ha proprio indebolito, Chris: per questo loro hanno vinto, e tu sei scappata »

« Non – sono – scappata »

« Non hai detto ad anima viva dove stavi andando. Sei venuta qui avvisando soltanto il direttore. Hai nascosto a tutti quanti l’esito del caso che credi ti abbia distrutto. Posso continuare l’elenco, se vuoi… »

« Lascia perdere ». Mi limitai a quelle parole per poi rifugiarmi nel silenzio, che in quei giorni sembrava esser diventato il mio sport preferito, ma ancora una volta quel mio mutismo che tanto mi sembrava eroico non diede cenno di avere la minima presa. Dopo Ducky, Gibbs.

« Tu hai mollato, Christine ».

Mi colpì molto che avesse scelto di usare il mio nome per esteso: da sempre ero soltanto “Chris”, per tutti eccetto che per Ducky, ed era strano che Gibbs si fosse comportato così… Ma ciò non toglieva affatto che il suono di quelle parole era orribile.

« Non mi pare che tua abbia fatto diversamente » replicai, dura e velenosa; Leroy Jethro Gibbs mi rivolse un sorriso vago.

« Concesso. Ma come vedi sono tornato indietro… »

« Be’, sta’ pur certo che io non lo farò! »

Per un attimo credetti di essermi guadagnata uno scappellotto, ma alla fine il mio storico maestro – mosso da una delicatezza che ancora non potevo capire – lasciò correre.

« Se il senso di questa frase è “Non tornerò a lavorare a New York”, posso essere d’accordo. Se invece è “Non intendo riaprire quel maledetto caso”, mi dispiace, ma dovrò proprio darti lo scappellotto che meritavi prima. Più un altro »

« Non avrei ragione di riaprire quel caso, Gibbs, ormai il mio indiziato è stato assolto e per la stampa sono nient’altro che una raccomandata che ha fatto strada solo per un cognome importante e un padre morto sul campo da poliziotto modello ».

Gli occhi meravigliosamente blu dell’uomo davanti a me ammiccarono, mentre riattivava la corrente dell’ascensore e le porte scorrevoli si aprivano sull’open space dell’ufficio.

« Non sei una raccomandata e lo sanno tutti, altrimenti non saresti sopravvissuta con me. Quanto al riaprire il caso… » Sorriso abbagliante, uno di quelli che spiegava senza la minima fatica come avesse fatto a collezionare ben quattro matrimoni, più Jen e chissà quante altre. « Temo proprio che non potrai fare altrimenti ».

Sul grande monitor davanti a me, il corpo senza vita di un sottotenente giaceva scomposto sull’asfalto, in mezzo ad una pozza di sangue, e decine di fogli di carta appallottolati erano disposti a ventaglio tutt’intorno. La schiena mi si coprì di sudore gelato.

« Kant », si limitò ad informarmi McGee, facendo scivolare verso di me una sedia perché potessi riavermi dallo choc.

 

  
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