« Allora, Christine… » esordì il patologo, quasi in sordina, all’inizio della nostra pausa di relax « Non credi che forse parlare di quanto successo a New York potrebbe farti bene? »
Quella frase mi colse del tutto alla sprovvista: mi ero premurata di fare
tutto il possibile e anche di più affinché nessuno dei miei amici a Washington
scoprisse il vero motivo del mio ritorno, e scoprire che non era servito a
nulla, trovarmi un’altra volta davanti a ciò che avevo creduto di poter lasciare
a chilometri di distanza, fu un duro colpo. Senza contare, poi, che ho sempre
odiato dover fare, più del necessario, i conti con i miei fallimenti, in
particolar modo quando essi sono pubblici. L’errata – o almeno, questo era
quanto aveva dichiarato il tribunale – identificazione di quello che la stampa
aveva chiamato “killer filosofo” per le pagine stracciate che lasciava sul luogo
dei propri crimini, e il proscioglimento del mio arrestato, appartenevano in
maniera più che vistosa ad entrambe le categorie, quindi di conseguenza l’idea
di parlarne era fuori discussione.
« No », risposi, asciutta, riafferrando al volo la teiera che chissà come
Ducky conservava da anni, intatta e senza un graffio, in sala autopsie, e che
quel suo tentativo di approccio al mio
problema mi aveva fatto scivolare tra le mani rischiando di vanificare tutte
le sue fatiche.
« È umano, sai, commettere degli errori ». Non posso dire che quella
garbata insistenza mi avesse sorpreso: conoscevo Donald Mallard da abbastanza
tempo per sapere che non si sarebbe mai arreso di fronte ad una qualsiasi
variante sul tema “non mi va di parlarne, davvero”, quindi scelsi un decoroso –
almeno tale mi sembrò, lì per lì – silenzio. Mi dedicai con grande impegno e
serietà a versare l’acqua sulla mia bustina di tè, fingendo per quanto mi era
possibile di non aver sentito. « Abigail ci ha messo meno di un’ora, a scovare
nella sua rete cibernetica che cosa non andava nella tua storia
».
Incredula, guardai materializzarsi davanti a me una via d’uscita,
lastricata d’oro. Un binomio infallibile: Indignazione e
Risentimento.
« Mi avete spiata?
»
D’accordo, ammetto di essermi sentita in colpa di fronte allo sguardo
mortificato di quell’uomo meraviglioso.
« Cerca di capire, eravamo preoccupati. Non è da te, arrivare qui con la
prospettiva di restare qualche mese e avvisare della cosa soltanto il direttore
e non gli amici… Perché quando è successo non mi hai chiamato, Christine? »
Adoravo il tono affettuoso con cui Ducky sapeva pronunciare il mio nome, e tanto
bastò a far salire le lacrime. Il risentimento, l’irritazione erano scomparsi,
lasciando il posto ad un fortissimo desiderio – piuttosto infantile – di
lasciarmi finalmente consolare.
« Perché la nostalgia era già troppo forte », ammisi. « Sarebbe stato
troppo duro, sentire la tua voce al telefono e averti così lontano
».
Ho sempre ammirato la capacità di Ducky di commuoversi senza
vergognarsene. Mio zio non ne era mai stato in grado, e men che meno poi poteva
essere un esempio di sensibilità e disponibilità alla commozione Jethro Gibbs…
Un velo umido e sottile invece era apparso negli occhi del mio più caro amico,
confermandomi nella convinzione che gli uomini come Donald Mallard dovrebbero
essere clonati per il bene dell’umanità.
« Sarei venuto a New York immediatamente, se mi avessi avvertito
dell’accaduto. Non avresti avuto nemmeno bisogno di chiedermelo ». Lo guardai,
riconoscente, mentre il mio cuore minacciava di scoppiare per il cortocircuito
emotivo che vi si era innescato: frustrazione e fallimento per i ricordi tornati
a galla, gratitudine e sconfinato affetto verso quell’amico davvero più unico
che raro… « Quindi è per questo, che non chiamavi più » proseguì lui, assorto.
Mi limitai a sospirare, e lui ne
parve molto afflitto. « Che cosa temevi? Che ti avremmo giudicato? » Fece una
brevissima pausa, salvo poi concludere, con un’espressione triste in viso « Che
io avrei potuto farlo?
»
Senza che neppure me ne rendessi conto mi sfuggì una lacrima. Donald
Mallard mi si fece accanto, a suo agio nella tuta di plastica blu come riusciva
ad esserlo nei suoi impeccabili abiti da gentleman di rango, e mi sfiorò una
guancia fino a farmi alzare il viso verso di lui.
« Oh, tesoro, che momenti brutti devi avere passato…
»
Mi ritrovai stretta tra le sue braccia, piangendo come una sciocca
ragazzina. Ho detto in precedenza che Ducky è sempre stato la sola persona in
grado di contendersi da pari a pari con Gibbs la mia attenzione, ma credo che il
sorpasso che tanto ha sconvolto le
nostre vite sia iniziato proprio allora, nella fredda sala autopsie, mentre il
nostro tè si raffreddava ormai dimenticato su un carrello d’acciaio per i ferri
chirurgici. Quel pomeriggio irreale in cui ero rimasta immobile per non so
nemmeno quanto tempo, a singhiozzare abbracciata al più geniale dei miei
insegnanti, mentre qualcosa di irrimediabile e irrevocabile cambiava dentro
di me. Non me ne accorsi, allora,
ma la mia vita aveva appena iniziato a
capovolgersi.
Gli parlai di New York, del mio fallimento di cui ancora non riuscivo a
darmi spiegazione, degli sguardi ad un tempo compassionevoli e segretamente
soddisfatti dei miei colleghi… Tutto. Comprese le illusioni infrante e lo
sconforto feroce. Donald ascoltava. Donald capiva. Come sempre, come ogni cosa.
Poi mi mandò a fare una doccia, intimandomi pur con il consueto garbo di
prepararmi per una cena elegante, e nonostante le mie proteste alla fine l’ebbe
vinta. Quando la sua vecchia, adorabile Morgan si fermò, unica nel vasto
parcheggio deserto, scossi la testa incredula: come avevo potuto dimenticarlo?
Per curare un’anima malinconica non c’era miglior rimedio di una cena raffinata
nei sotterranei privati di un museo!
Rientrai nel mio appartamento quasi quattro ore più tardi, col cuore più
leggero ma sovrastata da un vago senso di malinconia: com’era possibile
quell’amicizia tanto profonda, quel rapporto di ineffabile tenerezza, quando a
New York non avevo una sola persona che potessi chiamare davvero amica? Sprofondai nel divano senza
cambiarmi d’abito, passando mentalmente in rassegna volti e nomi di persone
presenti nella mia vita da sempre. Conoscenti, nella migliore delle ipotesi.
Presenze transeunti, nella maggior parte dei casi. Meteore e niente
più.
Mi sentii triste.
Costrinsi il mio corpo a riemergere dal divano contro la sua volontà e mi
diressi in cucina, dove, sul pensile più alto e in una scatola di metallo che
faticava ad aprirsi – qualsiasi cosa, per combattere una tentazione – avevo
depositato al mio arrivo l’àncora dei brutti momenti. Ero ancora in piedi sulla
sedia quando squillò il telefono, ma non mi diedi certo la briga di rispondere;
dopo la serata con Ducky, dopo quell’accesso di sconforto, la possibilità di
parlare con chicchessia era categoricamente fuori
discussione.
« Chris, sei in casa? » Abby. « Dai, Chris… Mi sento stupida quando parlo
con la segreteria ». Silenzio, forse per darmi il tempo di raggiungere
l’apparecchio, ma non me ne curai. Scesi dalla sedia, aprii la scatola con le
unghie e spensi la luce. « Ah, non ci sei davvero. Bene… Ecco, io volevo…
Immagino che Ducky ti abbia detto quello che…Sì, insomma, lo sai…» Pausa, di
nuovo lunga, ma questa volta mi parve imbarazzata. Tornai al divano e mi sedetti
a gambe incrociate. Davanti a me, il pacchetto di sigarette che mi portavo
dietro nonostante non fumassi da tre mesi mi fissava con insistenza. « Volevo
scusarmi. Ma eravamo preoccupati, e così ne abbiamo parlato…E così Gibbs mi ha
chiesto di trovare delle risposte, e così io… » Piantala con questi “e così”, Abby. La
fiamma dell’accendino si rivelò, come previsto, incredibilmente
rassicurante.
Le porte dell’ascensore avevano fatto a malapena in tempo ad aprirsi di
qualche centimetro che subito si richiusero alla svelta dopo che una massa
indistinta – un corpo, e subito individuai di chi – mi aveva quasi travolto nel
fare il proprio frettoloso ingresso. La corrente si
interruppe.
« Prevedibile, Gibbs »
« Non si può dire altrettanto del tuo comportamento ». Mi limitai ad
un’alzata di spalle: tentare di protestare, o peggio di giustificarmi, con Gibbs
sarebbe stato oltremodo stupido. « Tutti facciamo degli errori
».
« Io non ho sbagliato! », gli
gridai, cosa che avevo desiderato fare sin dal primo istante di quell’incubo
iniziato a New York venti giorni prima. Avevo colpito con forza la parete
metallica, che reagì con impassibilità al mio gesto esasperato e
furente.
« Stavo parlando dei tuoi colleghi. E del giudice » aveva proseguito con
calma, senza scomporsi di un millimetro di fronte alla mia
reazione.
« Ah. Scusa, Jethro, io… »
« Mai scusarsi. Quella stupida
città ti ha proprio indebolito, Chris: per questo loro hanno vinto, e tu sei
scappata »
« Non – sono – scappata »
« Non hai detto ad anima viva dove stavi andando. Sei venuta qui
avvisando soltanto il direttore. Hai nascosto a tutti quanti l’esito del caso
che credi ti abbia distrutto. Posso continuare l’elenco, se vuoi…
»
« Lascia perdere ». Mi limitai a quelle parole per poi rifugiarmi nel
silenzio, che in quei giorni sembrava esser diventato il mio sport preferito, ma
ancora una volta quel mio mutismo che tanto mi sembrava eroico non diede cenno
di avere la minima presa. Dopo Ducky, Gibbs.
« Tu hai mollato, Christine ».
Mi colpì molto che avesse scelto di usare il mio nome per esteso: da
sempre ero soltanto “Chris”, per tutti eccetto che per Ducky, ed era strano che
Gibbs si fosse comportato così… Ma ciò non toglieva affatto che il suono di
quelle parole era orribile.
« Non mi pare che tua abbia fatto diversamente » replicai, dura e
velenosa; Leroy Jethro Gibbs mi rivolse un sorriso
vago.
« Concesso. Ma come vedi sono tornato indietro…
»
« Be’, sta’ pur certo che io non lo farò! »
Per un attimo credetti di essermi guadagnata uno scappellotto, ma alla
fine il mio storico maestro – mosso da una delicatezza che ancora non potevo
capire – lasciò correre.
« Se il senso di questa frase è “Non tornerò a lavorare a New York”,
posso essere d’accordo. Se invece è “Non intendo riaprire quel maledetto caso”,
mi dispiace, ma dovrò proprio darti lo scappellotto che meritavi prima. Più un
altro »
« Non avrei ragione di riaprire quel caso, Gibbs, ormai il mio indiziato
è stato assolto e per la stampa sono nient’altro che una raccomandata che ha
fatto strada solo per un cognome importante e un padre morto sul campo da
poliziotto modello ».
Gli occhi meravigliosamente blu dell’uomo davanti a me ammiccarono,
mentre riattivava la corrente dell’ascensore e le porte scorrevoli si aprivano
sull’open space
dell’ufficio.
« Non sei una raccomandata e lo sanno tutti, altrimenti non saresti
sopravvissuta con me. Quanto al riaprire il caso… » Sorriso abbagliante, uno di
quelli che spiegava senza la minima fatica come avesse fatto a collezionare ben
quattro matrimoni, più Jen e chissà quante altre. « Temo proprio che non potrai
fare altrimenti ».
Sul grande monitor davanti a me, il corpo senza vita di un sottotenente
giaceva scomposto sull’asfalto, in mezzo ad una pozza di sangue, e decine di
fogli di carta appallottolati erano disposti a ventaglio tutt’intorno. La
schiena mi si coprì di sudore gelato.
« Kant », si limitò ad informarmi McGee, facendo scivolare verso di me
una sedia perché potessi riavermi dallo choc.