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Autore: Angeline Farewell    05/03/2013    2 recensioni
Kim Hyde (Home & Away)/Bill Hazeldine (Suburban Shootout)
Bill è un bravo ragazzo inglese, Kim il classico bello da spiaggia australiano. Bill credeva di voler studiare teologia e andare in Africa, Kim non sa più nemmeno se può immaginare un futuro. Un incontro/scontro che può far deragliare due vite o forse, semplicemente, rimetterle nel giusto binario.
[I protagonisti di questa storia sono personaggi di due diversi telefilm: Home And Away (Kim Hyde/Chris Hemsworth) e Suburban Shootout (Bill Hazeldine/Tom Hiddleston). La storia che mi accingo a raccontare è dunque una AU - o What If?, se preferite - che comincia nel 2006, ovvero all'indomani dell'inizio dell'università per Bill e della notizia della mancata paternità (e conseguente colpo di testa) per Kim.]
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Chris Hemsworth, Nuovo personaggio, Tom Hiddleston
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2: Innocent Bystander


Quando gli Hazeldine avevano deciso di trasferirsi dal cuore di Londra ai confini più lontani della contea, Bill aveva già un piede sull’aereo che l’avrebbe portato in Africa e non si era preoccupato molto del cambiamento. Si era diplomato con il massimo dei voti in una prestigiosa scuola privata con un anno di anticipo, la sua iscrizione a Cambridge era stata accettata senza problemi e aveva davanti a lui un anno sabbatico di cui avrebbe speso la metà in missione umanitaria in Guinea.

Tutto era andato esattamente come desiderava, Padre Harthford lo aveva incoraggiato a proseguire su quella strada, nonostante la giovane età era bravo con i bambini, ci sapeva fare, era disponibile e paziente, con lui si divertivano e lo ascoltavano volentieri. E Bill era contento di poter essere utile a qualcuno, utile davvero; aveva frequentato una scuola in cui i tre quarti del corpo insegnanti era composto da religiosi e l’unico club cui si era iscritto era quello biblico, lo stesso che aveva seguito anche alle medie. In realtà non gli sarebbe dispiaciuto poter giocare a calcio, ma Padre Peenas (e guai a sbagliarne la pronuncia o peggio, ridere), che insegnava educazione fisica, non era un entusiasta degli sport di squadra, soprattutto di quelli in cui c’era da correre da un lato all’altro di un campo: aveva di sicuro superato i settant’anni e i centodieci chili, per lui era uno sport sufficiente vederli correre lungo il tracciato della pista o arbitrare durante le partite di cricket, di quelle proprio non si poteva fare a meno. E siamo inglesi, che diamine!

Pensare agli studi di Teologia era stato quasi naturale, in realtà non aveva nemmeno pensato di poter frequentare corsi diversi, perché gli sarebbe piaciuto tornare in Africa dopo la laurea e dedicarsi di nuovo alle missioni umanitarie, magari come insegnante. I suoi genitori erano molto contenti della scelta, anche se suo padre ogni tanto gli chiedeva scherzando se non fossero le prove generali per l’arcivescovado di Canterbury: in realtà temeva davvero volesse farsi prete e, per lo stesso motivo, gli chiedeva di continuo se avesse conosciuto qualche ragazza carina.

Questo, tuttavia, prima di Little Stempington. Prima di Jewel Diamond, soprattutto.

Bill era tornato a casa per le vacanze estive prima di partire per l’Università ed aveva trovato un ambiente profondamente diverso da quello di Euston cui era abituato, ma non per questo spiacevole. Little Stempington era davvero il piccolo angolo di paradiso che sua madre aveva tanto cercato, era abbastanza vicina a Londra da poter far visita ai nonni con una discreta frequenza, ben collegata ed estremamente pacifica.
Il suo primo impatto con l’aria di provincia era stato tutt’altro che tranquillo, però, perché tutto si sarebbe aspettato quel giorno, tranne di incontrare la ragazza più strana e più carina avesse mai visto. Più che un incontro era stato uno scontro, d’accordo, ma non cambia la sostanza delle cose: Jewel Diamond gli era piombata addosso e nella vita con la prepotenza di tutte le ragazzine belle, viziate e tremendamente annoiate.

L’unica ragazza Bill avesse avuto risaliva ai suoi dodici anni, le tre settimane più imbarazzanti e imbarazzate della sua vita. Olivia aveva la sua stessa età ma sembrava sua madre, non perché sembrasse più grande lei, ma perché lui sembrava ancora uno studente delle elementari. Frequentavano il club biblico insieme e si erano conosciuti lì, ma la loro relazione non aveva retto alla scoperta da parte della ragazza dei Five e Sean Conlon: dopo un ultimo bacio umidiccio – e a labbra serrate – Olivia aveva detto addio a Bill e al club biblico, per passare a quello decisamente più invitante delle fan girl.

Bill l’aveva presa con filosofia, un po’ perché Olivia aveva sempre preteso di tenergli la mano in pubblico e la cosa lo imbarazzava a morte, un po’ perché, all’epoca, davvero non sapeva cosa farci con una fidanzata. Ad essere onesti non sapeva bene nemmeno come maneggiare Jewel, in questo le cose non erano poi tanto cambiate da che aveva dodici anni: per fortuna la piccola di casa Diamond aveva le idee decisamente più chiare di lui.

Jewel gli si era imposta senza possibilità di scampo: aveva deciso immediatamente Bill le piacesse troppo per lasciarselo scappare. Sapeva di essere bella, ma il suo ego avrebbe comunque cancellato gli eventuali difetti mostrati dallo specchio, forte anche dei consigli della zia Hilary, che non le aveva mai lesinato suggerimenti su trucco e lunghezza delle gonne. Che suo padre non approvava poi tanto, ma da quando gli uomini ne capiscono di moda? Il gioiello di casa aveva appreso bene la lezione mai impartita di Camilla Diamond: la bellezza è un’arma che va curata e preservata, ma soprattutto usata, per ottenere dagli uomini e dalla vita quel che si desidera.
Jewel aveva diciotto anni e non ne poteva più di stare sola in un paesino sperduto ai confini del divertimento vero, di quella Londra mitizzata e mai vissuta, era stanca di vivere all’ombra della Milly-cara-e-perfetta, impeccabile e gentile in pubblico, stronza totale a porte chiuse. Era stufa di essere ancora vergine, soprattutto, perché aveva diciotto anni e non aveva mai avuto un fidanzato, e quanto era patetico tutto ciò? Ma se c’era una cosa su cui dissentiva dalla zia Hilary era quella, perché Jewel era una principessa e voleva una favola: voleva l’Amore, quello con la maiuscola, e l’istruttore di tennis con i polpacci enormi che approfittava delle lezioni per toccarle il culo di certo non era un principe.
Bill, invece, aveva i riccioli biondi e gli occhi azzurri, era alto e flessuoso come un giunco o uno di quei modelli su cui sua zia Hilary imprecava sempre, perché a lei piaceva un certo Marcus Schenkenberg, ma di addominali come quelli se ne vedevano sempre meno sulle riviste.

Bill era la cosa più eccitante arrivata a Little Stempington da anni, scoprire che le loro madri non erano poi così amiche come volevano far credere aveva solo motivato Jewel ancora di più, perché cos’altro avrebbe potuto rendere la sua battaglia per l’emancipazione (sessuale) più elettrizzante di una storia alla Romeo e Giulietta? Lei, che sarebbe diventata un’attrice famosissima, di sicuro si sentiva portata per il ruolo della bella Capuleti. Bisognava solo convincere Romeo a fare la sua parte.
Il problema era non fosse così facile come aveva inizialmente pensato, perché non solo Bill era davvero il bravo ragazzo che tutti credevano, ma ci si mettevano di mezzo anche sua madre e quelle vecchie matte delle sue amiche e vicine: da sei mesi a quella parte – dall’arrivo degli Hazeldine, più o meno – Little Stempington era diventata un porto di mare e un caos infernale, quasi gli abitanti si fossero decisi a scollarsi di dosso quell’odiosa patina di rispettabilità e noia che li contraddistingueva. E Jewel ne sarebbe stata anche contenta se la tempistica non fosse stata pessima: Bill era timido e andava lavorato agli angoli, corteggiato senza che se ne accorgesse, o avrebbe finito per partire per l’università prima che si fossero scambiati il pegno d’amore. Jewel aveva deciso che avrebbero perso la verginità insieme e così sarebbe stato, lei otteneva sempre quello che voleva. A parte l’auto nuova, ma quella era un’altra storia ed era tutta colpa di sua madre.

Quando Joyce Hazeldine aveva quasi rischiato la vita, incastrata in un traffico internazionale di ormoni illegali, non era stata solo la vita tranquilla di Little Stempington a subire uno scossone, ma anche e soprattutto quella degli Hazeldine stessi: se Jeremy aveva temuto di aver perso sua moglie per un casanova francese e suo figlio per una canna, Bill era già proiettato nello stadio depressivo del novello figlio di divorziati.
Scoprire che sua madre era invece una povera vittima delle circostanze e non aveva alcuna intenzione di scappare con un francese con la lingua e le mani lunghe, gli aveva fatto chiudere un occhio su tutto, sul comportamento strano delle casalinghe di Little Stempington, sul fatto la dolce Joyce sembrasse tanto a proprio agio con le armi, aveva evitato persino di chiedersi come avesse fatto sua madre – e le sue amiche, ovviamente – ad incontrare quel brutto ceffo pervertito.
Era così felice di non rischiare più di dover scegliere da chi tornare a casa la domenica che aveva chiuso un occhio persino sulle strane richieste di Jewel che pretendeva s’incontrassero in luoghi e in orari sempre più assurdi, come se quel pomeriggio a cercare di decidere se fosse arrivato o meno il momento di fare sesso mentre erano in un confessionale non fosse stato abbastanza. Per Bill sicuramente era stata un’esperienza da non ripetere.

Il fatto era fosse difficile resistere a Jewel quando lo guardava in un certo modo, quando gli prendeva la mano mentre passeggiavano, o gli appoggiava la testa su una spalla mentre chiacchieravano. Era decisamente la ragazza più carina conoscesse ed il trucco pesante che utilizzava non c’entrava nulla. Solo che aveva anche un po’ paura di lei, perché non sapeva mai come prendere certe sue uscite, di certo non sapeva come reagire alle sue avances più esplicite.
Ma entro pochi mesi sarebbe partito per Cambridge, e poi? Come avrebbero proseguito? Jewel non aveva alcuna intenzione di proseguire gli studi, pensava già di essere un’attrice, anche se aveva partecipato ad una sola produzione scolastica al college (tra l’altro stroncata duramente dal giornale cittadino, ma si era guardato bene dal far capire a Jewel che ne era a conoscenza), e non voleva saperne di prendere lezioni. Bill aveva provato e riprovato a farle cambiare idea parlandole degli splendidi teatri che avrebbe potuto calcare a Cambridge, arrivando addirittura a dirle che avrebbero potuto prendere una casetta insieme, vivere insieme. Inutile dire Jewel si fosse soffermata solo su quell’ultimo aspetto, quello che a Bill faceva meno gola a dirla tutta. Perché lui aveva sempre intenzione di laurearsi, non sapeva più se in teologia, ma comunque laurearsi: Jewel sarebbe stata una distrazione fatale che non sapeva e probabilmente non avrebbe mai saputo come gestire.

Erano ormai gli inizi di settembre quando, dopo una sessione sfiancante di petting in cui non era nemmeno arrivato a sbottonarsi i pantaloni – ma le aveva slacciato il reggiseno, per quel che poteva valere -, Jewel aveva preso di petto il problema e l’aveva messo di fronte alla realtà, nella forma di un quadratino azzurro lucido. E a Bill era quasi preso un colpo perché Jewel sembrava proprio non voler capire che sì, voleva fare sesso con lei – eccome se voleva – ma voleva anche fosse importante. Bill non aveva mai avuto fretta di grattarsi certe voglie, prima di Jewel non ricordava nemmeno di averne mai avute. Nemmeno per la bella fotografa francese conosciuta in Guinea, quella che Jewel gli aveva assicurato dovesse essere per forza lesbica, perché le ragazze francesi con grosse macchine fotografiche lo sono sempre, lo avevano detto su Discovery Channel. Sarà.

Era scoppiato il Dramma. Jewel l’aveva accusato di qualunque cosa, di non amarla abbastanza, di non amarla per niente, di considerarla brutta, di avere un’altra ragazza. Aveva provato a spiegarle il suo punto di vista, aveva provato a spiegarle che voleva qualcosa di più da lei, da loro, ma Jewel era fuori di sé e non lo ascoltava più, gli aveva lanciato contro il profilattico e lo aveva sbattuto fuori di casa senza nemmeno dargli il tempo di abbottonarsi la camicia.
E non era stato piacevole ritrovarsi a torso nudo in un salotto pieno di signore di mezza età che avevano preso a guardarlo come se si fosse aperta la stagione della caccia. Il pacchettino azzurro che gli era rimasto incastrato tra i riccioli non era stato d’aiuto, soprattutto perché era stata proprio la signora Diamond a fargli notare fosse lì, ma il peggio era stato essere avvicinato dalla signora Davenport che, per l’ennesima volta, si era offerta di aiutarlo, come avrebbe aiutato gli altri ragazzi che aspettavano fuori in giardino. Qualunque cosa avesse voluto dire.

Era tornato a casa di corsa e con la coda tra le gambe, era deluso e triste, perché lui a Jewel voleva bene davvero e sognava di portarla in Africa con lui per insegnare ai bambini a leggere e scrivere e lavarsi le mani prima di mangiare, mentre Jewel sembrava non riuscire a capire che non serviva a niente fosse per entrambi la prima volta se sarebbe stata anche l’unica.
Una volta nella sua camera aveva provato a chiamarla, ma lei aveva prevedibilmente spento il cellulare. Cosa fare se non lasciarla sfogare? Le voleva bene, ma ormai aveva imparato fosse anche esageratamente melodrammatica in ogni sua reazione, quindi sapeva di non dover prendere sul serio le sue minacce di suicidio. Era preoccupato comunque, però.
Si chiese se la signora Diamond fosse andata a parlare con sua figlia dopo la loro imbarazzante scenetta, se la signora Davenport – la cara zia Hilary – fosse salita a consolare Jewel. Chissà cosa avevano pensato di lui! Bill sperò vivamente Jewel non avesse raccontato tutto alle due signore, o sarebbe morto d’imbarazzo, un po’ voleva morire anche in quel momento, finanche nel dubbio.

Bill aveva lasciato passassero tre giorni prima di provare a richiamare Jewel. Aveva pensato fossero sufficienti a farle smaltire la rabbia, magari a farle vedere le cose da un punto di vista diverso. Era sicuro a quel punto sarebbe stata pronta ad ascoltarlo con più pazienza e tutto sarebbe tornato come prima, sarebbero andati a prendersi un gelato e si sarebbero baciati su una panchina del parco. Quindi, quando era andato a correre per schiarirsi la mente prima di andarla a trovare, non si era spettato di trovarla davvero seduta su una panchina del parco. O meglio, seduta sulle ginocchia di un tizio che era seduto sulla panchina. Un tizio che aveva l’aria di essere uscito da una rivista, come i ragazzi che aspettavano chissà cosa nel giardino di casa Diamond proprio tre giorni prima. Anzi, era davvero uno dei tipi che aspettavano in giardino.

“Jewel…” non era riuscito ad evitare quel rantolo strozzato, ma come avrebbe dovuto reagire? La sua fidanzata stava baciando un altro, un ragazzo più grande più bello più tutto di lui e gli veniva solo da piangere.

“Bill.” Si erano girati entrambi a guardarlo, ma nessuno dei due si era spostato di un millimetro dalla posizione in cui erano. Jewel era evidentemente ancora arrabbiata con lui, ma era davvero necessario quel teatrino?

“Jewel, che cosa stai…”

“Niente che ti riguardi, ormai! Alex e io stiamo insieme, me l’ha presentato zia Hilary e lei che ne capisce di uomini. Non ha i paraocchi come te, non ha paura di trattarmi come una donna, lui!”

“Ma… Ma sono passati solo tre giorni…” E il suo grande amore era finito giù per lo scarico. Gli veniva davvero da piangere e lo sguardo accusatorio di Jewel non lo aiutava.

“Mi dispiace, bello, avresti dovuto tenertela stretta un po’ meglio. La settimana prossima ci trasferiamo a Londra, io lavoro lì.” Alex sembrava quasi volersi scusare con lui, era un po’ in imbarazzo, era evidente non avesse inteso mettersi di mezzo nel loro rapporto, ma era capitato: era preso da Jewel ed era palese, solo che quell’Alex – a differenza di Bill – sembrava sapere anche bene come maneggiarla. E quel pensiero rischiò davvero di farlo sciogliere in lacrime davanti ad entrambi, perché aveva diciannove anni e la sua prima fidanzata, il suo primo amore l’aveva scaricato e sostituito con umiliante facilità.

Si era voltato ed aveva ripreso a correre nella direzione da cui era venuto, poi fuori dal parco e fino a casa. Si era chiuso in camera e ci aveva provato davvero a piangere, ma non ci era riuscito, si sentiva troppo umiliato e triste e arrabbiato e stupito: tra tutti gli scenari possibili, quello che gli si era presentato davanti al parco era di sicuro tra quelli che non aveva mai preso in considerazione. Nel suo piccolo mondo perfetto c’erano solo lui e Jewel, le loro famiglie come contorno, Little Stempington – magari Cambridge – come cornice. Forse era vero che aveva una visuale limitata, che era ancora solo un ragazzino, che un viaggio in un altro continente non gli era servito a crescere nemmeno un po’. Forse Jewel aveva fatto bene a liberarsi di lui, gli uomini si dovrebbero comportare da uomini, non da ragazzini spaventati.

Nelle due settimane successive quasi non era uscito di casa, nonostante i continui tentativi di sua madre che sembrava di nuovo sul piede di guerra dopo l’arresto della sua amica Barbara, e ancora non riusciva a credere quella vecchia stramba fosse una criminale. Suo padre aveva cercato di consolarlo in modo discreto, ma prendendo il discorso talmente alla larga che persino per Bill non era stato difficile stornare l’attenzione su tutt’altro, finendo così a parlare dell’Arsenal.

Non aveva voglia di parlarne con i suoi genitori e, per la prima volta, si rese conto che non aveva davvero nessuno con cui parlare. L’orribile verità era non avesse amici. Conosceva tantissime persone, tantissimi ragazzi, era rimasto in contatto con i suoi vecchi compagni di scuola, persino con qualche professore, con il parroco, con gli altri volontari che avevano preso parte alla missione umanitaria con il suo gruppo. Ma nessuno di loro poteva considerarlo amico, nessuno di loro si era mai confidato con lui, né lui l’aveva fatto con loro. E le confessioni con il prete di certo non contavano. Per la prima volta in vita sua si rese conto di non essere mai riuscito a farsi degli amici veri: non proprio un pensiero confortante in vista della partenza per l’università.

Sulla pensilina, mentre aspettava il treno che l’avrebbe portato ad appena un paio d’ore da Little Stempington - e da Jewel, che ormai era già a Londra con il suo Alex a tentare la carriera di attrice. E no, non era così ipocrita da fingersi contento per lei, nemmeno tra sé – simulò un’allegria ed un ottimismo che non provava per niente, ma i suoi genitori si erano preoccupati abbastanza per lui e non poteva e non voleva farsi consolare come un bambino. Aveva preferito evitare di dire loro che aveva rinunciato agli studi di teologia, a quel punto gli sembravano la scelta più stupida potesse fare: era stato abbastanza fortunato da riuscire a rientrare nella classe di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, di sicuro sarebbe stato molto più utile in Africa.
I suoi genitori gli avrebbero spedito il resto delle sue cose nei giorni successivi, compresa la sua bicicletta, così da potersi spostare più agevolmente in una cittadina comunque più piccola di Little Stempington. Ma aveva ancora due settimane prima dell’inizio dei corsi, non aveva fretta.

Aveva aspettato l’inizio dell’università con ansia per mesi, per anni anche, ma mentre guardava fuori dal finestrino del treno che lo stava portando a destinazione non riusciva a pensare a nulla, si limitava a contare le gocce di pioggia che picchiettavano ritmicamente contro il vetro, come se non avesse prospettive, niente che lo attendesse.

Non era una sensazione piacevole.

   
 
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