Anime & Manga > Saint Seiya
Segui la storia  |       
Autore: Scarlett Rose    06/03/2013    2 recensioni
Restauro completato. Grazie per la pazienza!
Sequel di "Aspettami, non scappare!", anche se non è necessario averla letta per seguire questa fanfiction.
Siete convinti che il difficile sia dichiararsi a chi ci piace, ma che poi la strada sia tutta in discesa?
Ebbene, forse Marin ed Aiolia potrebbero non essere d'accordo! Una fanfiction dove l'Aquila ed il Leone dovranno affrontare i grattacapi di una relazione fra Saint e non solo. Ci saranno sorrisi, lacrime, combattimenti e ricongiungimenti. Se sei un Saint, puoi permetteri di amare?
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eagle Marin, Leo Aiolia, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Salve a tutti. Prima di lasciarvi continuare, mi tocca fre una precisazione. PRIMA DELLA REVISIONE avevo fatto parlare Marin in prima persona per sottolineare stati d'animo particolarmente intensi. Mi sono però resa conto, rileggendo, che ciò crea più confusione che altro. Dunque mi scuso, ma ritorno al vecchio metodo: Aiolia viene presentato in prima persona, Marin in terza. Buona lettura a tutti!



Sentivo la delusione serpeggiare fra le stanze ricoperte di marmo che costituivano il centro amministrativo del Santuario. Sapevo che “quelli dei piani alti”, come la maggior parte degli abitanti chiamava i funzionari che lavoravano nelle mie Sale di Stato, aspettavano un mio commento o una direttiva su come procedere ora che il torneo era finito e la questione di Ippolita stava andando troppo per le lunghe.
I nostri emissari sparsi nel mondo non avevano alcuna notizia da darci in merito alle Amazzoni e tutti i miei tentativi di divinare qualcosa all’Altura delle Stelle erano caduti nel vuoto. Si stavano nascondendo, molto probabilmente dovevano organizzare un nuovo piano ora che ben due delle Sorelle erano state uccise dai miei Saint.
Mi sfuggì un sospiro dalle labbra.
Essere la dea della saggezza e delle arti mi piaceva, quello che gradivo meno era il mio secondo ruolo da dea della guerra. Le battaglie, e tutto ciò che comportavano, mi facevano inorridire. Poteva suonare falso detto dalla reincarnazione della divinità fondatrice del Santuario e dell’ordine dei Saint, ma la verità era che non passava giorno senza che pregassi per una pace duratura.
Niente più vinti e vincitori, niente più lacrime.
Oh, non intendevo certo essere ipocrita.
Ogni volta che un nemico dell’umanità si fosse profilato all’orizzonte, io avrei radunato i miei paladini e li avrei guidati all’attacco, ancora ed ancora. Per il bene supremo dovevo sporcarmi le mani con la violenza della guerra, tuttavia ciò non significava certo che ne fossi lieta o che, peggio ancora, mi piacesse. Quel genere di divertimento lo lasciavo ben volentieri a mio fratello Ares.
Quante volte avevi inviati ambasciatori e portavoce, nel tentativo di porre pace prima di un conflitto?
Era accaduto con i guerrieri di Hasgard, io stessa avevo tentato di parlamentare con Poseidone… chissà, forse le cose sarebbero andate diversamente se fossi stata più abile?
Il mio adorato nonno avrebbe detto di smetterla con i rimpianti, pensai facendo uno sforzo per rasserenarmi. Quel che contava era dare agli altri, ai fortunati che ignoravano cosa fosse il Santuario o una divinità sul piede di guerra, l’occasione di vivere felici. Mi pareva di aver sentito in un film, quando ero più giovane, una frase che ora sembrava calzarmi a pennello: il mio è un lavoro sporco, ma qualcuno lo deve pur fare.
E quindi tanto valeva che mi mettessi all’opera. Se il mio Cosmo non serviva e le Amazzoni riuscivano a sfuggire alle reti che avevo teso, dovevo usare il cervello. Dalle indagini di Aiolia e Shaka era emerso che un umano aveva resuscitato Ippolita, anche se questo strideva con la presenza di un Cosmo divino in quel luogo.
Potevo dunque pensare legittimamente che si trattasse di qualcuno che custodiva il potere di una divinità.
Avevo letto di una pratica simile da parte di alcuni olimpici, anche se non l’avevo mai vista applicata. Nel caso di Hades, Poseidone ed Eris si trattava di una presa violenta di un corpo mortale.
Nel mio, invece, ero realmente Athena, per quanto potesse suonare strano perché ero anche Saori Kido. Era una cosa difficile da spiegare, una volta ci avevo provato per rispondere ad una domanda di Shiryu in merito, ma temevo di non esserci riuscita granchè bene.
Detta in maniera spiccia, noi due eravamo una, non potevamo esistere senza l’altra, i nostri pensieri e la nostra coscienza erano fuse insieme.
Dare il proprio potere in custodia ad un mortale era la terza possibilità che una creatura divina aveva per interagire con gli esseri umani senza dover scendere dal monte Olimpo, riflettei mordendomi le labbra.
Poteva capitare che, per rinforzare un servitore in vista di una particolare missione, un dio decidesse di mandare il suo Cosmo all’umano prescelto, evitando la reincarnazione. In pratica, aleggiava su di lui manifestando la sua volontà, ma non la presenza fisica.
Era una limitazione, perché un simile potere non poteva esprimersi appieno su un corpo mortale, ed al contempo sarebbe potuto risultare troppo forte per il suo paladino.
Tamburellai con le dita sul piano di marmo, ignorando il via vai silenzioso, ma costante, di dignitari attorno a me. Inizialmente avevo scartato l’ipotesi, eppure più ci pensavo più mi sembrava verosimile.
Come Aiolia e Shaka, ormai sapevo chi era il responsabile del ritorno delle Amazzoni. Avevo sperato tanto di sbagliarmi, che si trattasse di un isolato seguace fanatico. Eppure tutto puntava a…
“Mia signora.”.
Mi voltai verso l’ancella che mi aveva chiamata, cercando di dominare l’inquietudine che solo pensare a chi poteva volere il male dei miei Silver Saint aveva scatenato.
“Dimmi pure, Tia.”
“Il nobile Shaka della Vergine chiede udienza.”.
Ordinai di farlo passare, segretamente contenta di avere qualcuno a cui esternare le mie considerazioni. Ero fermamente convinta che, in momenti di stallo, un punto di vista differente fosse una benedizione. Feci uscire tutti ed ordinai che nessuno entrasse fino a nuovo ordine.
Anziché raggiungere la Sala del Trono, un po’ troppo austera per un colloquio a quattr’occhi, lo attesi in piedi sulla terrazza che dominava il Santuario, consentendo alla vista di spaziare fino al mare scintillante sotto il cielo azzurro.
“Grazie per avermi concesso udienza, dea Athena.”.
Sorrisi al giovane inginocchiato e gli feci cenno di alzarsi e raggiungermi. Si mantenne un passo dietro a me, e sebbene non tradisse alcuna emozione capii che il mio personale belvedere gli piaceva.
“Cosa ti ha condotto qui, Saint della Vergine?”.
“Mia signora, ho riflettuto a lungo e credo sia il caso di riconsiderare la decisione di tenere i Silver Saint all’oscuro. Ormai è assodato che sono loro il bersaglio del nostro misterioso nemico e credo sia necessario che possano difendersi. Senza contrare che ormai stanno circolando delle voci... il fatto che li abbiate richiamati al Santuario…”
“…ha dato sentore di qualcosa che non va. Lo so bene,” lo interruppi, offrendo il volto alla brezza marina “così come so che se davvero il mandante delle azioni di Ippolita è chi pensiamo, la situazione rischia di essere ingestibile.”
“Credo ci convenga prendere atto della cosa.”
Lo fissai, mentre la mia veste candida fluttuava attorno a me “Se posso essere sincera, Shaka, speravo tanto che la pace conquistata versando tanto  sangue fosse più duratura.”.
Sapevo di averlo colto di sorpresa, il Saint della Vergine non vantava tra le sue virtù una particolare empatia con il prossimo, eppure non avevo potuto trattenermi dall’esternare la mia amarezza. Ero una dea dal cuore umano, dopotutto. Il guerriero tacque per qualche istante, poi si sistemò meglio l’elmo sottobraccio “Mia signora, temo che la pace sia una bene tanto prezioso quanto fragile, tra gli dei come tra i mortali. Per questo il Santuario è stato eretto, noi siamo ciò che si frappone fra il caos e la giustizia.”.
Poi fu lui a prendermi in contropiede.
Sorrise e prese la mia mano, portandosela alle labbra “Non siate inquieta, dea Athena. Non c’è gioia maggiore che servire la giustizia e noi siamo nati per questo. Sapere che ci amate a tal punto è la nostra forza.”
“Grazie, mio Saint.” dissi, cercando di dominare la commozione “Allora, tanto vale che lo dica ad alta voce : rischiamo una guerra con Hera, la regina degli dei.”.

*

La notizia non era lunga più di qualche riga e se ne stava schiacciata tra la cronaca di una tentata rapina in una gioielleria e la pubblicità per un dentifricio.
Marin sedette al tavolo della colazione, poggiandovi sopra il quotidiano proveniente da Tokyo. Vista la moltitudine di etnie che s’incrociavano al Santuario, non era affatto difficile reperire giornali, libri e riviste scritti nelle varie lingue che rimbombavano nell’aria.
Scorse rapidamente il trafiletto, sorseggiando una tazza di caffè senza zucchero.
“ Nottetempo ignoti si sono introdotti all’Istituto per l’Infanzia della Divina Misericordia, nel quartiere di ******, periferia ovest di Tokyo, mettendone a soqquadro l’archivio e danneggiando arredi e suppellettili per poche migliaia di yen. Secondo la polizia, i ladri cercavano denaro contante oppure si è trattato di un gruppo di vandali, che comunque sono fuggiti non appena il custode li ha notati ed ha dato l’allarme.”
Marin lasciò che le parole sfumassero davanti ai suoi occhi, mentre rifletteva appoggiando il mento su una mano, come spesso faceva senza accorgersene quando si concentrava intensamente su un pensiero.
“I casi della vita!” pensò. Giusto qualche sera prima aveva raccontato ad Aiolia del periodo trascorso in quell’istituto ed ora leggeva una notizia che lo riguardava. Certo che irrompere in un edificio pieno solo di donne e bambini era un atto di pura vigliaccheria, rifletté aggrottando le sopracciglia e dando un morso ad un biscotto.
Da anni non tornava più in Giappone e quando Seiya era ancora con lei si era stupito che continuasse a comprare libri e quotidiani scritti in lingua nipponica. Marin gli aveva raccontato dell’importanza di non dimenticare le proprie origini, approfittando dell’occasione per inculcargli l’ennesima lezione. Seiya era stato un discepolo a dir poco irrequieto, che non capiva perché avesse dovuto separarsi dall’amata sorella Seika, per essere scaraventato in un mondo duro e spietato qual’era quello dei Saint.
Quando si erano conosciuti lui era un bimbetto di otto anni e lei una ragazzina di poco più grande. Tuttvia, al Santuario l’età non aveva un gran peso, in quel microcosmo nascosto contavano altri fattori, prima fra tutti la tempra che consentiva di sopravvivere agli allenamenti massacranti ed alle prove al limite delle umane possibilità. A quindici anni potevi essere abbastanza grande da avere una tua Cloth e un tuo allievo oppure troppo poco per smettere di prenderle in addestramento.
La sacerdotessa aveva nascosto bene il nervosismo dovuto al suo primo incarico ufficiale dopo l’investitura, avvenuta appena nove giorni prima dell’arrivo del suo allievo.
Anzi, del suo primo allievo.
Quando le avevano comunicato che le era stato assegnato un giapponese aveva visto la cosa per quel che era: un tentativo di umiliarla, dietro al quale c’era probabilmente lo zampino di Shaina, ai tempi sua acerrima nemica.
Quanti cambiamenti portava il tempo!
Nessuno l’avrebbe mai detto apertamente, tuttavia era una convinzione radicata, all’epoca, che solo gli europei potessero aspirare ad una Cloth. E certo una donna orientale, senza alcun antico lignaggio a giustificare in parte la cosa, assurta a Silver Saint, rappresentava un bello schiaffo morale.
Non l’aveva mai confessato a nessuno, pensò la ragazza, ma Seiya l’aveva conquistata fin dal primo sguardo, quando un attendente l’aveva scortato da lei lasciandoglielo in custodia senza troppe cerimonie. Il bambino aveva chiuso i pugni, tenendo le braccia rigide lungo i fianchi e l’aveva fissata alzando orgogliosamente il faccino.
Si erano studiati per un po’ in silenzio, circospetti.
“Come ti chiami?” si era infine decisa a chiedergli.
“Seiya.”
“Quanti anni hai?”
“Otto. E tu?” aveva aggiunto, quasi borbottando.
Si vedeva che doveva aver pianto da poco, eppure sembrava deciso a strozzarsi piuttosto che farsi vedere intimidito. Marin aveva apprezzato, sembrava un buon punto di partenza una simile spina dorsale in un esserino così giovane.
“Non spetta a te porre le domande, Seiya, a meno che non riguardino il tuo addestramento. Sai perché sei qui, vero?”
“A Villa Kido mi hanno detto che devo sopravvivere e conquistare una delle…delle…”
“Si chiamano Cloth. Imparalo, perché qui al Santuario della dea Athena pur di riceverne una si è disposti a tutto, perfino a mettere in gioco la propria vita. Per ogni armatura ci sono decine e decine di pretendenti, tuttavia solo uno di loro sarà il prescelto dalla costellazione che protegge ed infonde forza alla Cloth a cui ha donato il suo nome.”.
Il bambino l’aveva fissata per qualche istante, ammorbidendo leggermente la posa contratta degli arti “La famiglia Kido mi ha promesso che avrei potuto stare insieme a mia sorella, se fossi tornato con una… Cloth.”.
Marin l’aveva trafitto con un’occhiata severa, perfettamente percepibile anche da dietro la maschera argentea “Non si aspira a diventare Saint per profitto personale. Servire lealmente Athena, la dea della giustizia, e garantire la pace nel mondo è la nostra ricompensa.”.
Seiya era sbiancato “Io voglio solo riabbracciare Seika, mia sorella!”
“Non piagnucolare. Non ho detto che non potrai mai più rivederla. Se sopravvivrai, chi può dirlo? Potresti avere un’occasione per realizzare il tuo sogno.”.
Seiya, per la prima volta, le aveva sorriso con quella punta di spavalderia che sarebbe poi diventata il suo marchio di fabbrica “Mi impegnerò. Ho giurato che sarei tornato in Giappone vincitore.”.
Fedele alla promessa che aveva fatto a se stessa e ad Aiolia, decisa a tirar fuori un Saint da quel bambino cocciuto, Marin era diventata un’istruttrice severa e dura. Anche troppo. Solo il tempo le aveva insegnato che essere dei buoni maestri non significava essere insensibili come una pietra.
Per insegnare aveva dovuto imparare ad ascoltare. Scegliere quando mostrarsi inflessibile e quando concedergli un attimo di tregua per raccogliere le idee. Un giorno, circa un anno dopo il suo arrivo, mentre se ne stavano seduti su una roccia al limitare dei campi di addestramento a mangiare pane e formaggio feta, Seiya l’aveva fissata la sua aria da monello “Credi che riuscirò a diventare un Saint come te?”
“Solo tu potrai dare una risposta a questa domanda.”.
Vedendolo rabbuiarsi Marin rimase ad aspettare una reazione. Era da quella che si sarebbe intravisto il tipo d’uomo che avrebbe potuto diventare un giorno.
Ingoiando tutto d’un pezzo il pane avanzato, Seiya era saltato giù dalla roccia e si era voltato sorridendo “Allora andiamo. Ci sono altri bambini della mia età che spaccano già i sassi. Voglio impararlo anch’io.”.
Il caffè era ormai diventato freddo nella sua tazza e Marin fissò il liquido scuro mescolandolo distrattamente.
Erano passati tanti anni e tante battaglie da quel giorno. Il piccolo giapponese testardo era diventato Seiya di Pegasus, successore riconosciuto di Aiolos del Sagittario, aveva ritrovato sua sorella dopo essere sopravvissuto alla Guerra Sacra contro Hades e si era ritagliato un posto d’onore nella storia del Santuario.
Lei era così fiera di tutto questo, ma c’era un segreto che non aveva mai rivelato a nessuno, un segreto che la spingeva a continuare a non dimenticarsi il Giappone, un segreto che l’aveva accomunata a Seiya. Ed ora quell’articolo l’aveva fatto riemergere.
Con calma si alzò dal tavolo e si diresse verso il letto. Si mise carponi sul pavimento ed allungò il braccio sotto il suo giaciglio, estraendone un piccolo baule malconcio. Fece scattare le due serrature e lo aprì, rovistando tra gli oggetti contenuti, fino a trovare un piccola scatola di latta verde smeraldo.
La scoperchiò e prese fra le dita la foto un po’ingiallita a causa dei tanti anni trascorsi dallo scatto. Ritraeva un bambino ed una bambina, sorridenti davanti ad una torta di compleanno con tre candeline accese. I due bimbi si assomigliavano moltissimo e si tenevano per mano fissando più il dolce che l’obbiettivo.
“Hayato*.” sussurrò Marin, toccando con un dito il visetto del bambino.
Aveva mentito ad Aiolia, quando lui le aveva chiesto del suo passato, e l’aveva fatto quasi in automatico. Il dolore per la scomparsa di Hayato l’aveva attanagliata a lungo e non gradiva parlarne con nessuno. Perché i fagotti piangenti che le suore avevano trovato davanti all’orfanotrofio, quel giorno tanto lontano, erano due. Un fratello e una sorella, anzi, due gemelli.
La verità era che Marin dell’Aquila aveva avuto un fratello, prima che lui, ad otto anni, sparisse misteriosamente dall’istituto in cui vivevano. La polizia e le suore stesse l’avevano cercato a lungo, mentre lei passava un pomeriggio dopo l’altro raggomitolata sul letto singhiozzando disperatamente. Per un periodo si era rifiutata di mangiare e le sue notti erano trascorse annegate in un oceano di incubi in cui mani malvagie la strattonavano separandola dal fratello.
Ormai Marin non piangeva più pensando a lui, anche se il dolore aveva lasciato una cicatrice indelebile. Andarsene dal Giappone, portata via dagli uomini del Santuario meno di un anno dopo, era stata una benedizione, aveva frapposto fra Marin e l’angoscia centinaia di migliaia di chilometri. Le era parso di soffrire meno e col tempo il dolore si era acquietato.
L’aveva relegato in un angolo della sua mente e a volte riusciva quasi a non pensarci. Guardando la fotografia, sorrise con strazio e tenerezza alla vista della collanina che lei stessa gli aveva regalato per quel compleanno e che spuntava dalla maglietta. L’aveva trovata in giardino qualche giorno prima, mezza infangata. L’aveva ripulita e quanto era stata contenta di potergliela donare, per ricambiare la scatola di latta che lui le aveva dipinto e che ora custodiva la loro fotografia.
Non sapeva perché, ma in quei giorni era stranamente sentimentale. Forse si sentiva un po’ vecchia, pensò con un mezzo sorriso. Un altro suo allievo era diventato Saint e presto avrebbe allenato qualcuno a sua volta. I giorni scivolavano via veloci, nuovi Saint si affacciavano all’orizzonte, anche se tutti si auguravano che la pace durasse almeno altri mille anni.
Per combattere quella strana malinconia, Marin decise di andare a correre sulla spiaggia. L’aria salmastra e il rumore dell’acqua che lambiva la sabbia sarebbero stati un toccasana. Con un sospiro guardò la fotografia un’ultima volta, prima di rimettere ogni cosa al suo posto. Eh sì, riflettè mentre spingeva il baule sotto il letto, Hayato amava davvero molto quel monile a forma di pavone.

 
 
 
 
*”Hayato” in giapponese si può scrivere con gli ideogrammi che simboleggiano le parole “falco” e “uomo”. Visto che Marin è il Saint dell’Aquila ho pensato di dare a suo fratello un nome da rapace!
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saint Seiya / Vai alla pagina dell'autore: Scarlett Rose