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Autore: Lisa_Pan    07/03/2013    1 recensioni
Abigail racconta sensazioni mai provate attraverso impercettibili sussurri, Imre sopravvive cercando il ritmo nel silenzio, Emike raccoglie ricordi dentro delle note suonate su una chitarra color miele ed Aaron gioca al gatto e il topo con il diavolo; quattro vite, quattro anime che vagano sotto una pioggia complice alla ricerca di loro stessi.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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13 Unottantotto


Unottantotto

A Danny

e ai suoi due bracci destro

uno bianco e uno nero.

All'infinito finito.

Una volta, qualcuno ha scritto:

“Un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finisco. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito”.

E il discorso fila, il concetto è giusto. Ma, ipotizziamo, se tra il primo e l’ultimo, l’uno e l’ottantotto, ci fosse una melodia precisa, un intero spartito già scritto, già pronto, che deve solo essere suonato? Se ci fosse questo spartito… immagino i fogli sparsi sulla coda del pianoforte e quel primo e quell’ottantesimo vibrare d’attesa; dico, se ci fosse questo spartito, allora la musica non sarebbe infinita; sarebbe lì, tutta lì, in quei pezzi di carta, delimitata sempre da quei due tasti che, seppur distanti, si uniscono inaspettatamente in una nota, una cacofonia di acuti e bassi, di forte e piano, di grida e di sussurri profondi. Si parla di vibrazioni, minime vibrazioni, che creano musica e quella musica ti parla, ti sta dicendo ottantasei tasti di distanza e comunque quel primo ed ultimo si sono incontrati.

Il problema sta in quel “tu sei infinito” . Perché in fin dei conti il problema è sempre quello, siamo spinti alla continua ricerca di qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso, riceviamo stimoli e ci muoviamo meccanicamente nella direzione che ci indicano. Corriamo e cerchiamo e ci domandiamo. Siamo infiniti in un corpo finito, in una mente finita, circondata da ossa e nervi e carne e pelle. E noi scaviamo, accantoniamo e cerchiamo di accatastare cose, ricordi, addosso ad altre cose, sensazioni. E alla fine scoppiamo, sentiamo il bisogno di chiuderci in un limite, tornare a quel primo e a quell’ottantottesimo; e ci torniamo, apparentemente. Possiamo credere di esser fermi, se vogliamo, possiamo vederci immobili nelle nostre scarpe e nei nostri corpi finiti e possiamo illuderci di controllare i nostri ricordi, le nostre sensazioni e addirittura i nostri pensieri.

Ma il problema permane: noi siamo infiniti.

Perciò, quando accade che qualcuno ci piazza uno spartito davanti, le note nere su carta panna, restiamo spiazzati. Ci ritroviamo a concentrarci esclusivamente su quei due tasti e non sulla distanza che li separa, non sulle infinite combinazioni che quegli ottantotto tasselli ci offrono. Siamo lì con un dito sul primo e un dito sull’ultimo, come in origine, come prima che cominciassimo a sfiorare e a curiosare oltre quei limiti.

E riscopriamo una melodia primordiale che avevamo dimenticato e assomiglia tanto a un ricordo, che piano piano riaffiora, prima le sensazioni, poi le immagini ed infine la consapevolezza.

***

Uno

Seduta sul marciapiede Abigail riesce a sentire l’odore dell’asfalto fresco, reso bollente dal sole che picchia violento sulla sua testa, sul tettuccio delle macchine, sui gigli bianchi nel parco del cimitero e che scioglie la suola di gomma delle scarpe di Imre che la osserva dall’altro lato della strada con la schiena poggiata contro un albero.

C’è qualcosa, forse il silenzio assordante di quel pomeriggio troppo caldo o forse lo stesso asfalto che prima ha calpestato e che adesso annusa, con il naso a pochi metri dal catrame che lo compone; ma c’è qualcosa che vibra, nell’aria, intorno a lei o in lei, ma c’è. Ha seguito Imre in silenzio, senza chiedersi dove la stesse portando, e, mano a mano che si erano avvicinati, aveva riconosciuto una certa familiarità nei suoi passi, nella pesantezza del suo respiro e dei suoi pensieri e nei battiti accelerati che avevano tentato di fracassarle il petto. Erano, e lo sono ancora, solo sensazioni, ma prepotenti e a tratti dolorose.

Sente qualcosa, percepisce qualcosa e continua a guardare la strada, un punto preciso, non uno qualsiasi. Come se si aspettasse che accada qualcosa da un momento all’altro, qualcosa di troppo grande da poter essere ignorato.

Diavolo, vorrebbe alzarsi e avvicinarsi e guardare meglio, toccare quei centimetri di cemento da cui non riesce a distogliere lo sguardo; vorrebbe piantarci un piede e pestare fino a quando non succeda, fino a quando una crepa non la convinca che non c’è un fottuto nulla sotto la sua scarpa. Ma resta seduta al suo posto, inchiodata dall’attesa e da quella sensazione snervante di chi sa che manca un pezzo al quadro, il pezzo chiave.

E la sua vita gira tutta intorno a quel pezzo, le manca sempre poco così per ricordare, ricordare non tutto ma semplicemente qualcosa di diverso dal suo nome, qualcosa che sente e che ha sempre sentito ma non ha mai saputo vedere. Ed è per questo che stavolta osserva con attenzione, perché vuole vedere; è stanca d’immaginare,  stanca di sentire e basta, ha bisogno di ricordare, o almeno di sapere che è capace anche solo di andarci vicina, a un ricordo. Le basterebbe un brivido o una scossa o una qualsiasi cosa che la spinga ad alzarsi e a ricominciare a sentire e a provare a vivere con i soliti trucchi di sempre.

E improvvisamente sente il viso bagnato, freddo nel petto e un caldo tremendo sotto la ciocca nera, sotto la cicatrice e ancora più a fondo. E sull’asfalto la vede, una macchia rosso sangue schiarita dal tempo, minuscola, impercettibile ma presente. Ed è lì, in quel preciso punto, e allora si alza e la sfiora con le dita e la graffia e ci batte il palmo spaventata senza sapere da cosa. Respira a malapena, l’ossigeno bloccato a metà tra i polmoni e l’esofago, le costole ripiegate su se stesse e le braccia strette al petto come a contenere il cuore che sembra essere sul punto di esplodere, finalmente.

E sono proprio le braccia che attirano la sua attenzione, indossa un cardigan rosso ma quella che vede è una felpa verde e un cane che la fissa con due occhi… preoccupati. Preoccupati per lei, per quella cicatrice che brucia e per i capelli bagnati, il freddo nelle ossa e i passi incerti e le ginocchia instabili, e vorrebbe non sentire più, vorrebbe non vedere più, vorrebbe solo spegnere quelle voci che, di nuovo, sono esplose nella sua testa.

Di nuovo.

Ferma, in ginocchio, con le mani ad accarezzare il ricordo di quel cucciolo spaventato, un grido le muore in gola, divorato dal terrore quando due fari di un pick-up si piantano a pochi centimetri dal suo viso. Ha gli occhi spalancati, nonostante senta il forte impulso di serrarli e dimenticare, ingoiare quel terrore e alzarsi in piedi e scappare il più lontano possibile da tutto quello, ma resta lì ad ascoltare il rumore di una pioggia inesistente bagnare il paraurti del pick-up e scivolare silenziosa lungo la lamiera rovinata fino ad impregnare l’asfalto e i suoi vestiti e le sue ossa. Un dolore lancinante alla testa la fa crollare a terra e in quell’istante la vede; la bambina stesa a terra con il cane al suo fianco che le lecca il viso guaendo disperato. La vede alzarsi e guardare disorientata di fronte a sé, il rivolo di sangue le macchia la pelle chiara e morbida e ascolta. Ascolta i suoi singhiozzi silenziosi nascerle nel petto e sgusciare fuori da quelle labbra sottili e viola di freddo. Non sta piangendo, è solo il ricordo del dolore, la reazione del suo corpo a quell’urto tremendo; non ricorda nulla, non sa nemmeno piangere, non sa gridare e non sa muovere un passo dietro l’altro così si trascina fino al marciapiede e aspetta.

E si sente pronunciare il suo primo sussurro, la sua prima ancora di salvezza. Si sente rinascere, una seconda volta, e si vede rinascere. Per la prima volta.

Un istante, un secondo. Una gomma rotola di fianco ad Abigail, obbligandola a spostarsi di qualche metro e a distogliere l’attenzione da quella se stessa ingabbiata nei suoi ricordi e ricorda.

Dio, ricorda.

Ricorda i suoi occhi, ricorda il suo viso, ricorda la pioggia e quel grido straziato che le consuma le corde vocali. Lo sguardo liquido, da cui straripano gocce di pioggia, grida in silenzio e si dispera in segreto, gli occhi fissi verso il cielo, il dito puntato verso un’unica e brillante stella.

E ricorda di aver dimenticato e perché ha dimenticato.

***

Ottantotto

Le sue mani. Le nocche bianche che stringono il bordo bianco del marciapiede.

Le sue braccia. Tese, vibrano.

Le sue labbra. No, non sono neanche le labbra.

Le sue guance. Rosse, nascoste dal fazzoletto legato al collo.

E da capo.

Le sue mani. Le sue braccia. Le sue labbra. Le sue guance.

Di nuovo. E ancora. Non lo trova; non trova quel qualcosa, quel qualcosa di lei che lo tiene incollato con il culo sulla terra morbida, la schiena che graffia contro la corteccia ruvida, le mani incrociate al petto e gli occhi… gli occhi fissi su ogni elemento di lei. Ogni elemento tranne lui.

E conta, prima le mani, poi le braccia e poi perde il conto e ricomincia. Su e giù, giù e su. E continua, incapace di fermarsi; deve trovarlo, ma trovare cosa? E perché? Sente quel dannato qualcosa spingere sul palato, infilarsi nel naso e sfuggire per sempre ad appena pochi millimetri dal cervello.

Trema perché l’ha portata lì, trema perché non sa come c’è arrivato, non sa chi sia lei e non sa nemmeno perché voglia condividere quel dolore con quel corpo fragile quanto il suo da riempire fino all’orlo. Dalle mani, alle braccia, alle labbra, fino alle guance e più su a piantargli i suoi ricordi negli occhi.

Un brivido, lungo tutta la schiena, e colpi di tosse violenti; la testa pesante e la voglia di fuggire o di lasciarsi andare per sempre. La voglia di scivolare a terra e non sentire nulla, voglia di vuoto riempito dalla pioggia, da gocce fredde e grigie di un cielo scuro illuminato da una sola stella. Sensazioni, immagini, tutte raccolte in un istante, un preciso istante: l’impatto contro l’albero, l’impatto contro il parapetto del pick-up, l’impatto dei loro sguardi.

Vorrebbe dimenticare tutto, vorrebbe essere lei per un attimo, lei e la sua ciocca nera, lei e i suoi sussurri, lei e i suoi occhi così... ingenui, ma… consapevoli.

 

Vorrebbe dimenticare eppure ricorda e ricorda e ricorda, fino a star male, fino a vomitare immagini e parole e sangue, quello di suo padre e il suo, che non è stato versato. Allora dimentica, Imre, dimentica velocemente prima di ricominciare a ricordare, dimentica prima che torni tutto a galla, prima che il sole asciughi i vestiti bagnati, prima di riconoscere quegli occhi, finalmente.

Dimentica, Imre.

Dimentica.

Le sue mani.

Le sue braccia. Le sue labbra e le sue guance.

I suoi occhi. Spalancati su di lui. Pieni. Consapevoli.

E se non puoi dimenticare, allora ricorda.

Consapevoli.

***

E uno e ottantotto si incontrano, di nuovo o forse per la prima volta. Non siamo infiniti. Non tutti, per lo meno. Non quando ci s’incontra. Si muovono passi, passi finiti. Si alzano sguardi che finiscono l’uno nell’altro. Si muovono braccia e busto e si prova a scoprire quel mezzo metro, finito, che separa due infiniti. E poi ci si unisce, in uno spartito di note finite, in un ricordo d’immagini precise, in una sensazione, una sola.

E si sopravvive a quell’esplosione inevitabile, materia contro materia, contenuta in quel pezzo di cemento, in quegli ottantasei tasti di distanza, in quella macchia di sangue di fianco alla gomma rotolata a terra.

Il dolore è finito. Inizia dal petto e finisce nello sguardo.

Le parole devono essere finite, limitarsi ad un “Eri tu” e morire in gola, anestetizzando  il dolore,  reprimendo i sensi di colpa, eliminando i resti dell’esplosione e incontrandosi in un solo, finito, ricordo.

***

Uno e ottantotto

“Eri tu”

***

Perchè, mi chiedo perchè mi ritrovo sempre a pubblicare di notte. La mia beta corregge i capitoli che le mando alle due, a volte anche alle tre, è capitato che ne mandassi uno anche alle quattro, fresco di scrittura e pieno di errori indicibili perchè gli occhi non reggevano più e la mente era completamente su un altro pianeta.

Perciò mi chiedo ancora, perchè io pubblico a quest'ora?

La citazione in alto, quella in corsivo, viene da "Novecento" di Baricco. Mi serviva qualcosa di funzionale per farli incontrare, incontrare per davvero e di nuovo. Imre e Abi si son riconosciuti nella bambina sul ciglio della strada e il bimbo che guardava le stelle. Ed ora io li devo far finire, in qualche modo. Il prossimo sarà l'epilogo, giuro che sarò buona e nelle note spiegherò da dove è nato questo delirio, almeno renderò partecipi anche voi della mia malattia mentale. Intanto se cliccate sull'immagine si apre il pezzo da cui ho preso la citazione e se cliccate su Danny trovate il bimbo meraviglioso che, se fossi nata clandestinamente su una nave, sarei tanto voluto essere. 

Grazie beta e grazie Fal, solo perchè siete voi e perchè siete matte abbastanza da starmi sempre vicine.

Sogni d'oro!

Lis

   
 
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