2) L'uragano
è in arrivo.
Are
you scared of the dark my friends?
What do you fear my love?
Hold on you're
breaking up
Ci sono certe
mattine in cui ti senti fisicamente riposata,
ma emotivamente ridotta a uno straccio, questa è una di
quelle mattine.
Le
odio.
È
per questo che odio i sonniferi: ti regalano otto ore di sonno filato
senza
sogni né incubi, ma non risolvono il problema della tua
insonnia.
Il
problema rimane lì, irremovibile e pesante come una roccia e
non sai come
smuoverlo.
Il
mio problema si chiama Tom DeLonge, quello che me lo rende problematico
è il
fatto che non mi ami e che le conseguenze di un gesto folle di due
ragazzini che
volevano avere salva la
vita si stiano facendo sentire.
I
due buchi lasciati da esseri a cui nemmeno credevo
l’esistenza bruciano e
pulsano e ogni tanto ho dei flash chiari di quello che sta facendo Tom
in quel
momento. La nostra connessione – chiusa da quando si
è sposato con Jen – si sta
riaprendo e io non so come interpretare questo né cosa fare.
Sono anni che non
ci parliamo – o meglio che lui mi evita, come se io avessi la
peste – e non so
come la prenderebbe una mia apparizione random.
Devo
aspettare una sua mossa, solo che ora avverto chiaramente che il tempo
che
abbiamo a disposizione ci sfugge via come sabbia tra le dita.
Ho
trentasette anni e
il mio orologio
biologico ticchetta sempre più forte e sempre più
minaccioso, mandandomi una
serie di richieste.
Mi dice che sono nella zona
limite per avere
un figlio, se un piccoletto che mi somiglia e da amare più
della mia vita
non lo voglio.
Io
lo voglio, l’ho sempre voluto, ma con il verme non era mai
stato possibile, non
mi alletta l’idea di scoparmi uno sconosciuto e poi crescermi
da sola mio
figlio e Tom è lontano come un’utopia.
Quando
eravamo molto giovani c’era stato un ritardo che temevamo si
trasformasse in
una gravidanza, ma era solo un semplice ritardo. Ora mi ritrovo a
sperare con
tutto il cuore che in realtà quella fosse una gravidanza e
di avere un piccolo
o una piccola DeLonge che mi aspetta a casa.
Sospiro.
Che
gran casino c’è nella mia testa!
Mi
guardo allo specchio e vedo una donna dai capelli neri e spettinati che
mi
guarda con due occhi azzurri confusi e quasi arrabbiati.
“That day never came
That day
Never comes
I'm not letting go
I keep hangin on
Everybody says
That time heals the pain
I've been waiting
forever, forever
That day never came
Forever
That day never
came”(*)
Canticchio
questa canzone
di un gruppo tedesco per ragazzine – me l’ha fatta
sentire Alabama – e penso
che non ci siano parole migliori per descrivere la mia situazione:
aspettare un
giorno che non arriverà mai.
Alabama li ama alla follia
questi tedeschi, come ama Justin Bieber e gli One direction, e Travis
non si
capacita di come la figlia di un punk come lui possa amare questa
musica
commerciale.
Vorrei avere anche io lo
stesso problema con mia figlia, invece ho un eterno problema con me
stessa e
con un destino che mi lega a una persona che non mi vuole.
È inutile compiangersi
addosso, decido di andare a trovare mia madre sfruttando il giorno
libero.
Prendo la macchina, mi
immetto sull’autostrada che porta a Poway e penso a tutte
quelle volte che non
l’ho percorsa da sola.
{“Tom, tieni
giù le mani!
Sto guidando, non vorrai farci fare un incidente!”
Lo sento mugugnare
qualcosa sul mio collo.
Siamo di ritorno da un
concerto dei blink al Soma e lui è ancora tutto eccitato per
il pienone che la
band ha raccolto al dungeon, il primo piano del locale, quello per le
band
emergenti.
Senza darmi
particolarmente
retta infila una mano sotto la mia maglia e riesce a intrufolarsi sotto
il mio
reggiseno e a cominciare a giocare con un mio capezzolo. Lo accarezza,
lo tira,
lo schiaccia, lo accarezza di nuovo accompagnato dai miei gemiti.
Ok, qui urge fermarsi.
Alla prima piazzola
accosto e abbassiamo i sedili, iniziamo a spogliarci a vicenda con
impazienza e
in men che non si dica lui è dentro di me e spinge, mentre
io lo assecondo
stringendogli sempre più forte le gambe intorno al bacino.
Quando finalmente
veniamo
mi sembra di toccare il cielo con un dito e mentre lo stringo a me,
ancora
sudato e ansante, mi dico che non lo lascerò mai e poi mai
andare via da me. }
Ho
dovuto lasciarlo andare
invece, mi dico mentre scendo dalla mia macchina e mi avvio lungo il
vialetto
della casa di mia madre nella vecchia Poway. È cambiato poco
da quando ero
adolescente io e suppongo non cambierà mai.
Suono e quando lei vede
che sono io mi abbraccia calorosamente.
“Che bella sorpresa, Anne!
Vieni!”
Mi fa accomodare in
salotto e mette sul gas la moka del caffè.
“Come mai qui, tesoro?”
“Il capo mi ha concesso un
giorno libero e io ho deciso di venirti a trovare.”
Lei mi sorride e
inizia a raccontarmi le vite di persone che
conosco appena e di molti miei ex compagni e compagne di scuola.
“Stanno organizzando anche
una riunione della tua classe, perché non ci vai?”
“è passato tanto tempo,
non saprei cosa dire loro.”
“Potresti incontrare
qualcuno di interessante, sposarti e darmi un nipotino più
vicino di Jack.”
Il trasferimento di Mark a
Londra non è mai stato digerito da mia madre.
“Mamma…”
Lei mi scruta a lungo
negli occhi.
“C’è ancora di mezzo lui,
vero?”
“Lui chi?”
Chiedo cauta.
“Tom.”
Io abbozzo un “sì” a
malapena udibile.
“Eravate fatti l’uno per
l’altra, non ho mai capito perché vi siate
lasciati.”
“è una cosa complicata,
mamma.”
Lei sospira.
“Mi ricordo di quando
stavate al tavolo della cucina per fare i compiti e finivate per
baciarvi
sempre.”
Anche io me lo ricordo,
quasi ogni giorno insieme a mille piccoli altri episodi della nostra
storia.
“Lo stai ancora
aspettando…
Quel ragazzo ha rovinato
la vita dei miei figli, dovrei odiarlo e non ci riesco.”
Io la guardo sorpresa.
“Mark se ne è andato tra
gli inglesi e a fare l’inglese per staccarsi dai posti in cui
era stato felice
con Tom, credi che non me ne sia accorta?
Gli fa male stare in una
città che gli ricorda sempre il suo migliore amico. Per
colpa di Tom ho perso
un figlio e un nipote e tu vivrai per sempre imprigionata nel suo
ricordo.”
“Non essere tragica,
mamma. Londra non è poi così lontana e poi sai
che a Mark fa piacere pagarti il
viaggio, ti vuole bene e anche Jack te ne vuole.”
“Lo so so, ma io li vorrei
più vicini.”
Il silenzio cala nella
stanza.
In un tacito accordo
decidiamo di abbandonare l’argomento Tom DeLonge e
riprendiamo a parlare di
cose più leggere come il mio lavoro.
Si complimenta con me per
la riuscita della trattativa con i giapponesi e dice di essere
soddisfatta di
una figlia come me, poi riprende a parlarmi della gente di Poway.
Arriva l’ora di pranzo e
lo cuciniamo insieme come ai vecchi tempi, ridendo e ricordando i miei
primi
maldestri tentativi come cuoca.
Ricordo che Mark diceva
sempre che erano buoni anche quando la sua faccia diceva palesemente il
contrario: è un amore di uomo e di fratello
Mangiamo insieme, la aiuto
a rigovernare e verso le due me ne vado.
Siamo sul portico di casa
sua e lei mi abbraccia.
“Torna a trovarmi ogni
tanto, mi mancate tu e Mark.
Continuo a vedervi piccoli
sempre intenti a combinare guai e io a correre come una matta per
risolverli e
ora non c’è più nessuno.”
Io le sorrido amara e la
abbraccio di nuovo, poi vado in macchina.
Incontrare mia madre mi ha
fatto capire che non sono l’unica che soffre di solitudine,
che sente la
mancanza di qualcuno: quasi quasi la prossima volta che vengo le porto
in dono
un cane su cui potrà riversare il suo affetto.
Sono arrivata al bivio
appena fuori Poway da cui si può andare o verso
l’autostrada o verso il
deserto. Io vado verso
il deserto spinta
da un impulso incontrollabile, ho bisogno di stare da sola e di stare
il più
vicino a possibile al posto che mi ha cambiato la vita.
Percorro pochi chilometri
di una strada piena di buche e polverosa e poi mi fermo in una piazzola
per
sedermi sul cofano della macchina.
Il mio sguardi spazia per tutto
l’orizzonte: sabbia, un cielo azzurro e terso in cui corrono
veloci nubi
bianche che a tratti coprono il sole e – appena visibili
– dei ruderi di quella
che sembra un’innocua ghost town abbandonata dopo la corsa
all’oro.
Innocua non lo è per
niente e abbandonata nemmeno, solo che la “gente”
che ci vive è quel tipo di
esseri da cui stare alla larga se si tiene alla propria vita.
Solo a due incoscienti
come me e Tom poteva venire in mente di farci una gita di notte, ma noi
siamo
sempre stati diversi dagli altri.
Siamo sempre stati un po’
più fuori di testa degli altri.
{È una sera
d’estate come
tante in California, calda e con un leggero venticello a dare sollievo
ogni
tanto. È una festa come tante: un po’ di musica,
qualche bibita e un gruppo di
adolescenti intorno alla piscina.
Io e Tom siamo seduti
sul
tetto con due bottiglie di coca vuote vicino a noi, poco prima da
questo stesso
tetto mio fratello si è lanciato in piscina.
Lui e un altro paio di
incoscienti che si dilettano in questo strano sport e sono
l’attrazione della
serata: se lo sapessero i miei ci rimarrebbero stecchiti per lo shock.
Io mi sento
più carina del
solito, qualche giorno prima con della tinta verde avanzata a Mark mi
sono
fatta qualche ciocca verde che non ha mancato di suscitare il solito
sospiro
rassegnato di mia madre.
Io e Tom abbiamo appena
finito di fare una gara di rutti e lui sorride beato sdraiato sulle
tegole.
“Ehi,
Anne!”
Mi sdraio anche io.
“Sì,
Tom’”
“Vuoi
diventare la mia
ragazza?”
Io mi alzo di scatto
subito e lo guardo come se avesse ricevuto una botta in testa.
“Scusa?”
“Anne, vuoi
diventare la
mia ragazza?”
È da un
po’ che mi sono
accorta che la mia non è solo amicizia nei suoi confronti,
ma amore e da un
po’ cerco di farmela passare, non ho mai pensato che IO
potessi interessargli.
“Io? Sei
sicuro?
Non ti piacerebbe
più una
come quella?”
Con il dito indico una
ragazza alta e bella che balla a bordo piscina, lui segue con lo
sguardo il mio
dito e ride per poi tornare serio.
“Ho detto che
voglio una
ragazza, non una puttana.”
“Perché
io?”
“Perché
sei carina, amo
parlare con te, amo il fatto che tu condivida i miei stessi interessi.
Posso
essere me stesso con te, non ho bisogno di fingere di essere un figo,
con te
posso essere un perdente.
E poi da tantissimo
tempo
ho una voglia matta di baciarti perché per me non sei
più solo un’amica, sei
diventata speciale.
So che non sono il tipo
che ispira più fiducia al mondo, ma ti va di provare a
darmene un po’?
Vuoi stare con
me?”
Per tutta risposta mi
alzo
e lo bacio. Sa di buono e le nostra labbra sembrano perfette insieme,
non
fatichiamo molto a trovare un ritmo che fa piacere a entrambi nel
baciarci.
“Sì,
lo voglio!
Guai a te se me ne fai
pentire, però!”
“Non ti
farò pentire!”
Sussurra prima di
baciarmi
di nuovo.}
Io
sospiro e scendo dalla
macchina.
Alla fine mi ha fatto
pentire di avergli dato fiducia, alla fine non abbiamo retto.
Rientro in macchina e
guido fino a casa mia sentendo un gusto amaro in bocca.
Il passato è un frutto
marcio che non andrebbe mai assaggiato troppo a lungo.
Disaster disaster
Disaster disaster
Una settimana a
regime di sonniferi è una settimana dura.
Sei riposato
fisicamente e in coma psichico, avviluppata dai troppi pensieri che non
puoi
sbrogliare, solo al lavoro riesco a fingere di stare bene solo
perché riesco in
qualche modo a concentrarmi su quello che devo fare.
Quando arrivo a
casa invece mi assale sempre una leggera angoscia e sento un sento di
soffocamento che non è il mio: è quello di Tom,
ne sono sicura.
I sonniferi non
stanno risolvendo per niente questa situazione e non so più
cosa fare.
Ogni sera
guardo a lungo le pastiglie lilla – indecisa se prenderle o
meno – e
alla fine mi deciso sempre a prenderle per
avere almeno il fisico riposato.
Cosa diavolo
sta succedendo nella mia vita?
Quindici anni
dopo sta arrivando il treno DeLonge per raccogliermi definitivamente e
darmi
uno spazio nella sua di vita?
Non ne ho idea,
ho solo – molto spesso –
un gran mal di
testa.
Anche questa
sera guardo la mia pillola della felicità, ma decido di non
prenderla, sperando
che non arrivi lo stesso fantasma a tormentarmi.
{Sono
in una
stanza che non conosco e il mio corpo è steso su un letto
ignoto e avvolto in
una coperta indiana. La cosa più strana è che io
lo vedo staccato da me, come
se stessi fluttuando nell’aria.
Forse sono
morta, forse il fuoco che sentivo nelle vene mi ha bruciato.
Sento la voce
di Tom e di uno sconosciuto nella stanza accanto e decido di
raggiungerli.
Capisco che
siamo in una delle case della riserva indiana di Poway
perché l’uomo con cui
sta parlando Tom è un vecchio indiano dai capelli grigio
chiaro e dalla pelle
scolpita e scura come il cuoio.
“L’unico
modo
per salvarla è bere questo intruglio e farti mordere da lei,
ma questo vi
legherà a vita, sei sicuro di riuscire a reggere,
ragazzino?”
Lui sospira, ha
gli occhi bassi e i segni delle lacrime sulle guance.
“Non lo so, ma
io non voglio che lei muoia o diventi una di quelli. Rivoglio la mia
Anne.”
“E sia, ma
ricordati delle conseguenze. Non si stringono patti a caso.”
Lui annuisce e
il vecchio si mette a rimestare in un calderone, l’odore
è nauseante e mi
rispedisce all’istante nel mio corpo.
Cosa mi è
successo?
Sento il calore
del fuoco, sotto la ceneri, nella mia anima.}
Mi sveglio
urlando, sono finita di nuovo in uno dei miei ricordi.
Merda!
Mi ristendo –
troppo stanca per fare qualsiasi cosa – e mi riaddormento.
{Sento dei
rumori di molle che cigolano e percorro un corridoio che non
è quello di casa
mia, ma che – a giudicare dalle foto a tema alieno e spaziale
– è quello della
casa di Tom.
Mano a mano che
mi avvicino a una porta il rumore delle molle si fa più
forte e si sentono
gemiti e urla di una donna: Jennifer.
Io o meglio Tom
apre la porta e ci ritroviamo davanti all’indecoroso
spettacolo di una Jen che
si dimena su un David che non sembra né entusiasta
né troppo partecipe a questa
scopata.
“Ti ho già
abbuonato Atom, ma David no.
Vattene,
vacca!”
La voce di Tom
è dura.
“Non sai stare
senza di me, non vuoi togliere una madre ai tuoi figli, Tom
DeLonge!”
Fa lei con un
tono derisorio.
Sento il mio
pugno stringersi, Tom si sta arrabbiando e questa volta non ha
intenzione di
cedere, si carica Jen sulle spalle e – nuda
com’è – la butta sul vialetto di
casa loro.
Lo vedo salire
nella loro camera e trova un David imbarazzatissimo che si riallaccia i
pantaloni.
“Io, non
volevo. Scusa, Tom..”
“Non dire
nient’altro. So benissimo di chi è la
colpa!”
Con movimenti
nervosi prendo, prende, tutte le cose di Jen e le lancia dalla
finestra,
insensibile alle sue urla.}
Mi sveglio di
nuovo, credo di aver appena assistito al divorzio dei DeLonge e, cazzo,
è stato scioccante.
Questa volta il
sonnifero lo prendo senza esitazioni, ho bisogno di riposo sul serio.
La mattina dopo mi
sveglio più rintronata del solito e
mentre faccio colazione ho un altro flash sulla famiglia DeLonge.
Tom ha
annunciato ad Ava a JoJo che la mamma se ne è andata di
casa, il bambino è
scoppiato a piangere e se ne è andato in camera sua, Ava
è rimasta seria a
osservare il padre.
Somiglia molto
a Tom ed era già entrata in conflitto con la madre, quindi
credo che abbia già
capito che Jen e Tom non sono molto compatibili.
{“Perché
l’hai
cacciata di casa?”
Ci chiede Ava,
sospiro.
È assurdo
vedere dal punto di vista di Tom e sentire i tuoi pensieri separati dai
suoi.
“Perché
ha
fatto una cosa cattiva.”
“Anche io
verrò
cacciata di casa se farò delle cose cattive?”
Sorrido.
“No, piccola.
Questa
è e sarà sempre casa tua, io sarò
sempre tuo padre e Jen la mamma.”
Prende una
pausa, non gli fa piacere fare il discorso che deve fare tra poco.
“Amore, a
volte
i grandi smettono di volersi bene e si accorgono che non possono
più vivere
insieme perché non riescono più a sopportarsi, ma
non è colpa vostra.
Voi non
c’entrate niente, voi siete i nostri tesori e vi vogliamo
sempre bene. siamo
solo io e Jen a non volerci più bene.
Non avrei mai
voluto farti questo discorso, perché so che soffrirai, anche
io ho sofferto
quando il nonno e la nonna hanno divorziato, ma devo.
Io ti voglio
bene, Jen ti vuole bene.
Io però non
voglio più bene alla mamma e lei non ne
vuole a me, capisci perché non possiamo vivere
insieme?”
Lei annuisce e
poi si butta tra le braccia di Tom piangendo.
“Ti voglio
bene, papà. Ti voglio tanto bene, sono contenta che la mamma
abbia smesso di
farti soffrire.”
Lacrime
silenziose scendono dalle guance di Tom.}
Quando torno in
me mi accorgo che anche le mie guance sono solcate da lacrime, ho
ricordato il
divorzio dei miei e non è stato piacevole, Tom non se
l’è cavata male
dopotutto.
Finisco di
mangiare, mi vesto e scendo in garage a prendere la macchina,
appoggiata alla
mia utilitaria c’è Jen: ha un’aria
furiosa.
“Alla fine hai
vinto, Anne, ma non pensare che ti renderò la vita
facile.”
Detto questo se
ne va e io penso che la mattinata è iniziata da schifo.
Anche le due
settimane che mi separano dalle vacanze natalizie al lavoro sono un
disastro,
un manicomio. Quando esco dal lavoro l’ultimo sabato tiro un
sospiro di
sollievo, mi dirigo verso la marina per avere un po’ di pace.
Prendo un
frappuccino da Starbucks e cammino tranquilla mentre me lo gusto,
inconsciamente sto andando verso la nostra panchina. Sono certa che
sarà vuota
– per Tom quella panchina non ha mai significato molto
– invece mi sbaglio
perché la trovo occupata proprio da lui.
“Ciao Anne.”
“Ciao Tom.”
Silenzio.
“Non hai nulla
da chiedermi?”
Fa lui.
“No, ho visto
il tuo divorzio. La scena in cui ha buttato Jen nuda fuori casa
è stata
abbastanza epica.”
“Ti sento
fredda.”
Io bevo un sorso
del mio frappuccino.
“Sai com’è,
Tom, sono anni che non ti fai sentire.
Dalla settimana
dopo quella cosa.”
Lui sospira e
si sposta i capelli davanti agli occhi.
“Avevo paura,
la prospettiva di avere trovato quella con cui dividere la mia vita
quando ero
così giovane mi terrorizzava.”
“Lo posso
capire, ma sei sparito anche come amico.”
Lui ride.
“Avrei avuto
costantemente la tentazione di baciarti e avremmo finito solo per fare
casino,
Anne.”
Io guardo un
gabbiano volare.
“Sei divorziata
anche tu, comunque.”
“Sì, te l’ha
detto Mark?”
Lui scoppia a
ridere come un matto.
“No, ho visto
la scena tramite la connessione. Eri talmente fuori di te che non ti
sei
accorta che si fosse aperta e io stavo cantando davanti a un bel
po’ di persone
con questa scena disgustosa davanti agli occhi.”
Io arrossisco
fino alle orecchie.
“Tu mi ami
ancora, vero Anne?”
Io annuisco.
“Sì, lo sai. L’hai
sempre saputo. Tu?”
“Ho bisogno di
tempo per pensarci.”
Sul mio volto
si dipinge un sorriso amaro.
“Tranquilla,
non ci metterò anni.
Dammi una
settimana.
Tra una
settimana su questa panchina, ok?”
“Ok.”
Si alza e mi
saluta con un leggero bacio sulla guancia.
Dopo tutti
questi anni ho ancora i brividi per questo contatto minimo, solo lui
può
farmeli provare.
Sono rovinata.
Di nuovo.