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Autore: Frytty    08/03/2013    4 recensioni
Candice e Robert. Due vite e due sogni diversi, incompatibili con la loro voglia di amarsi. Candice parte per New York per frequentare la Julliard e coronare il suo sogno di danza; Robert rimane in Inghilterra con la speranza di riuscire a diventare un attore. E se, entrambi famosi, si incontrassero proprio a New York? E se non fosse tutto semplice? Potrebbero amarsi di nuovo?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salve a tutte!

Innanzitutto, Buona Festa della donna! Di solito non mi piace fare gli auguri per questa festa, considerato il motivo per cui è stata creata e, più in generale, perché le donne che subiscono abusi, violenze e vengono uccise sono in numero sempre maggiore, ogni anno, ma quest'anno sono un po' egoista in merito, nel senso che ho pensato a me e a mia madre, che ne abbiamo passate tante, per cui molti momenti sono stati difficili, ma che, nonostante tutto, siamo ancora qui e allora ho pensato che la Festa della Donna poteva essere un buon modo di festeggiarci e quindi mi sono concentrata sull'aspetto positivo della cosa e non su quello negativo, come ho fatto tutti gli altri anni.

Comunque, questo non c'entra niente con il capitolo, pardon :) Dunque, dunque... beh, è stato un capitolo difficile, anche questo, e lo so che può sembrare una scusa, ma, credetemi non lo è, perché quando si è troppo invischiati in una storia, si perde il punto di vista oggettivo dell'intera faccenda e diventa più complicato mettere nero su bianco le idee. Nelle recensioni ho letto che molte di voi non immaginavano come, la Ff, avrebbe potuto avere un lieto fine, visto quello che è successo nello scorso capitolo. Avrei dovuto scriverlo in risposta alle recensioni di ognuna, ma lo faccio qui, così anche chi non recensisce ha modo di ricevere una spiegazione, o presunta tale. Se devo essere sincera, non ne avevo idea neanch'io, almeno fino a ieri pomeriggio. Non posso spiegarmi bene perché non avete ancora letto il capitolo, ma cercherò di essere chiara e spoiler free per tutti: se tutte voi avete seguito il mio stesso ragionamento, il problema principale nella storia tra Candice e Rob è questo bambino, di cui Robert vuole prendersi cura, perché Kristen non se la sente di fare la madre (tsk!). Continuo a ripetere che, volendo essere il più sincera possibile, avevo anche valutato l'opzione, non tanto che non fosse figlio di Robert, perché nella mia testa è sempre stato così e non avrei avuto il coraggio di scrivere che, all'improvviso, veniva fuori che non era più figlio suo, quanto di far succedere qualcosa a Kristen e quindi, di conseguenza, al bambino. Ora, non è che io sia una sadica, eh, ma davvero non avevo idea di come risolvere la cosa. Tuttavia, non me la sono davvero sentita di far morire una creatura innocente, quindi, non preoccupatevi, il bambino è sano e salvo ;) e ciò che succederà a Candice e Robert dovrete scoprirlo da soli, leggendo il capitolo.

La decisione di Candice sicuramente vi sembrerà assurda, nel senso che non è che una persona prima dice una cosa, poi, il minuto successivo, dice l'esatto contrario, ma tenete conto che è una Ff, che non posso tirarla troppo per le lunghe, altrimenti finirebbe per annoiare e per diventare un mappazzone (chi ha seguito Master Chef Italia sa cos'è xD) e che, anche se cerco sempre di attenermi alla vita vera, non sempre posso farlo e mi prendo qualche licenza letteraria (se ancora ne esistono), opportunamente evidenziate in corsivo.

La canzone che ho scelto, che, come vedrete, è dei Paramore, trovo che sia perfetta per Candice e Rob, testo compreso e che riassuma un po' tutta la loro situazione, per cui è l'unica volta in cui la canzone ha diretta attinenza anche con il capitolo.

Un'ultima cosa e vi lascio alla lettura, altrimenti le note sono più lunghe del capitolo (anche se temo che lo siano già -.-"): credo proprio che questo sia il penultimo capitolo della Ff, quindi manca l'ultimo, il prossimo, e un breve epilogo e poi posso dire conclusa anche questa Ff ç.ç L'ho realizzato ieri sera, ed è stato un mezzo trauma, ma comunque... *sniff-sniff*

Che dire d'altro? Ma certo! Che sbadata! Ringrazio tutte le persone che hanno recensito, letto, inserito la Ff tra le preferite/seguite/da ricordare e che hanno aggiunto me tra gli autori preferiti *.* I LOVE YOU! E un ringraziamento speciale va a Carla (che qui su EFP è midnightsummerdreams) per avermi aiutata con le questioni mediche del capitolo *.* <3

 

Vi auguro un Buonissimo week-end e uno splendido inizio di settimana e, come sempre, una...

 

 

 

Buona Lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

All I wanted-Paramore

 

 

 

 

 

 

 

Decidemmo di prendere un taxi e, nell'attesa, sembrava che non avessimo più niente da dirci.

Io continuavo a dondolarmi sul posto, le mani nelle tasche del cappotto e i capelli che mi svolazzavano davanti agli occhi; Robert fingeva di scrutare il traffico, gli occhi ridotti a fessure per proteggerli dal vento freddo che sembrava volerci tagliare il viso, come se non fossimo stati già abbastanza a pezzi.

Era al mio fianco, ma sembravamo distanti chilometri, ognuno perso nelle proprie fantasie.

La situazione non cambiò all'interno del taxi. Guardavamo in due direzioni opposte, come estranei trovatisi a dividere un passaggio.

Quasi corsi all'interno della hall e dell'ascensore dell'albergo, spingendo il numero del piano un attimo prima che lui entrasse.

Mi guardò, schiarendosi la voce, chiaramente a disagio, torturandosi i capelli e poi le mani.

Io non sapevo neanche dove guardare. Volevo incrociare i suoi occhi, osservare la sua figura, ma non ci riuscivo: il mio cervello non rispondeva agli impulsi.

Lasciai che aprisse la porta della stanza, precedendomi all'interno e, quando la richiusi alle mie spalle, mi ci appoggiai contro, chiudendo gli occhi, sospirando di sollievo.

Nonostante tutto, mi sentivo a casa.

< Tutto bene? > Mi domandò, scrutandomi dopo essersi liberato della giacca e averla posata sul bracciolo della poltrona lì vicino.

Scossi la testa.

Come poteva andare bene? 

Sospirò, avvicinandomisi.

Mi specchiai nei suoi occhi azzurri, rendendomi nuovamente conto che sarebbe stata una delle ultime volte, poi, i miei occhi scesero ad osservare le sue labbra, mentre la lingua bagnava le mie, pregustando un sapore che non ero sicura avrei assaggiato ancora.

< Vieni qui. > Mi tese le mani, che io ignorai, fiondandomi direttamente tra le sue braccia, aggrappandomi a lui, sbilanciandolo appena all'indietro.

< Ehi, sarò sempre qui, Candice. Se avrai bisogno di me, ci sarò, sempre. > Sussurrò, accarezzandomi i capelli.

Forse sarebbe stato così, lui ci sarebbe sempre stato, ma come avrei potuto chiedergli aiuto, come avrei potuto guardarlo negli occhi senza ricordare ciò che avevamo perso, ciò che avevo deciso di lasciare?

Non ero pentita della mia scelta, tutto quello che mi ero forzata a confessargli in quel pub era la pura verità, ma mi sarebbe mancato e sarebbe stato maledettamente difficile ricominciare. E poi, lui avrebbe avuto un figlio di cui prendersi cura, un nuovo, piccolo essere umano che avrebbe avuto bisogno di cure costanti e di attenzioni, come avrei potuto intromettermi?

Non risposi, continuando a bagnargli la felpa di lacrime.

Non so per quanto tempo rimanemmo così, abbracciati in mezzo al salotto, al buio, anche se avevo smesso di piangere; so solo che, ad un certo punto, Robert si mosse in direzione della camera da letto, con me ancora abbarbicata a lui. Scostò le coperte, adagiandomi tra le lenzuola con attenzione, forse credendo che mi fossi addormentata.

Sciolsi le gambe dalla sua vita, ma mi rifiutai di fare altrettanto con le braccia, ancora intorno al suo collo, tanto che forzò appena la presa per convincermi ed io aprii gli occhi, facendolo sorridere appena.

< Sei sveglia, ecco perché era così difficile convincerti a lasciarmi. > Scherzò, un centimetro dal mio viso.

Sorrisi anch'io, slegando le braccia dal suo collo, persuasa a lasciarlo andare.

< Vuoi cambiarti? > Mi chiese, occhieggiando ai miei vestiti. Mi aveva solo spogliata della scarpe e dei calzini e avevo addosso ancora il cappotto.

Annuii, sollevandomi a mezzo busto, liberandomi anche della felpa e dei jeans, mentre lui individuava la maglietta che utilizzavo solitamente per dormire e i pantaloni morbidi del pigiama e me li tendeva con non-chalance.

Poggiai nuovamente la testa sul cuscino, più comoda, osservandolo al buio, seduto al mio fianco, un braccio teso vicino a me.

< Dormi con me, vero? > Gli domandai, terrorizzata dal fatto che potesse decidere di trascorrere la notte sul divano, come una bambina che chiede ai genitori di potersi addormentare con la luce accesa, perché ha paura dei mostri.

< Certo, dammi un minuto. > Scomparve in bagno, riemergendone dopo qualche minuto, già con indosso la sua solita maglietta consunta e i suoi pantaloni della tuta.

Si distese al mio fianco, sollevando le coperte e, neanche il tempo che sistemasse la testa sul cuscino, in cerca di una posizione comoda, gli ero già vicina, una gamba tra le sue e un braccio intorno ai suoi fianchi.

< Hai freddo? > Stavo tremando, ma non era per la temperatura.

Scossi la testa, lasciandomi comunque stringere e accarezzare energicamente la schiena.

< Andrà tutto bene, Candice. Non ti lascerò mai da sola. > Lo sentii mormorarmi tra i capelli.

< Come farai con il bambino? > Non riconoscevo neanche più la mia voce, tanto era sottile e flebile.

< Beh... mi prenderò cura di lui. Non saremo più una coppia, ma cosa ci impedisce di essere amici? > Rispose speranzoso.

< Io... ecco... non credo che ci riuscirei, Robert. Non voglio esserti amica e neanche tu vuoi essermi amico. Non posso fare finta di niente. > Come avrei potuto? Due amici non si sentono a disagio se trascorrono una giornata insieme; due amici parlano di qualsiasi cosa; due amici si confidano; due amici non fingono, non si raccontano bugie.

Noi non saremmo mai potuti essere questo.

< N-non potrò più chiamarti, o vederti? > Sgranò gli occhi, facendomi venire voglia di ricominciare a piangere.

< Sarebbe... sarebbe solo una sofferenza, adesso e... ci faremmo soltanto del male... i-io non credo che sia una buona idea... > C'era qualcosa che mi opprimeva il petto, qualcosa che mi impediva di respirare.

< D'accordo... allora tu... tu cosa farai? > Chiusi gli occhi, tentando di regolarizzare il respiro e di ricacciare indietro le lacrime.

Era patetico; forse non sarei dovuta rimanere con lui, quella notte. Avrei dovuto tornare al residence e magari andare soltanto a riprendermi le mie cose, l'indomani mattina, in compagnia di Sam, o di Sofia, o di entrambe.

Affrontare quella conversazione era maledettamente doloroso.

Feci spallucce, apparentemente impassibile.

< Quello che ho fatto anche tre anni fa: danzare, per evitare di pensare. > Mormorai.

Sospirò, voltando gli occhi al soffitto buio.

< Non credo riuscirò ad innamorarmi di nessun'altra. > Confessò alla fine, dopo diversi minuti di silenzio.

Sapevo che era la classica frase che avrebbe detto qualunque ragazzo che sta per essere abbandonato dalla propria fidanzata, ma sapevo anche che Robert non era un ragazzo qualunque, di quelli che, prima o poi, se ne fanno una ragione e vanno avanti.

Era come me: quando amava, lo faceva in maniera assoluta, totale e, se tre anni non erano riusciti a spegnere il sentimento nei miei confronti, o quanto meno ad assopirlo, probabilmente neanche una vita intera sarebbe bastata.

< Di Kristen ti sei innamorato, però... > Arrossii, perché non era di lei che volevo parlare, non quella notte, ma le parole erano scivolate fuori dalle mie labbra senza controllo, prima che il cervello potesse elaborarle e cacciarle indietro.

< Non credo fosse amore. Sì, insomma, credevo di aver messo una pietra sopra la nostra storia già da molto tempo, ma... non lo so, stare con lei, non era come stare con te. Siete diverse, questo è ovvio, ma io non facevo che mettervi a confronto e quando ho avuto la piena consapevolezza di questo mio comportamento, ho deciso di lasciarla... non era giusto nei suoi confronti, e non lo era nei miei. > Nonostante il buio, riuscì ad inquadrare i miei occhi, osservandomi a lungo, senza che riuscissi a rispondere.

< Eppure, avrete qualcosa che vi legherà per sempre, adesso. > Lei non voleva occuparsi del bambino, certo, ma questo non significava che se ne sarebbe dimenticata; d'altronde, come avrebbe potuto? E poi, chi poteva garantirle che non avrebbe cambiato idea, una volta preso in braccio? Si sa che, molto spesso, quando qualcosa non è ancora reale, si tende a respingerla, ma quando poi ci appare davanti agli occhi, decidiamo di accoglierla, qualunque siano le conseguenze.

Se Kristen decidesse di prendersi cura del bambino, Robert non si tirerebbe certo indietro.

Sospirò ancora, traendomi ancora di più a sé, come se non gli fossi già abbastanza vicino.

< Prima che tu partissi per la Julliard, prima del nostro addio, fantasticavo moltissimo sul nostro futuro; cercavo di immaginare i volti dei nostri genitori quando gli avremmo comunicato che avevamo intenzione di sposarci, o che, magari, tu eri incinta ed io ti volevo tutta per me, per sempre; oppure, cercavo di comporre i volti dei nostri bambini e avevano tutti il tuo naso e le tue labbra e il tuo carattere forte, determinato e dolce. Non avrei mai pensato di crescere un figlio che non fosse nostro. > Sentivo le lacrime spingere per sopraffarmi e riuscivo a capire dalla sua voce spezzata che anche lui era sull'orlo del pianto.

< Non puoi dirmi queste cose, Robert... sarà ancora più difficile andarmene... > Borbottai, cercando di reprimere i singhiozzi, senza successo.

Lo abbracciai, pregando perché potessi fondermi con il suo corpo.

Se qualcuno ci avesse osservati dall'esterno, avrebbe sicuramente riso di noi, di quanto dovessimo sembrare patetici e sdolcinati. Era stata mia la decisione di lasciarlo, di fare in modo che vivesse la sua vita, e non me ne pentivo, perché era la cosa più giusta per me, per noi, eppure... decidevamo di lasciarci, ma continuavamo a piangere e a cercarci.

Non aveva senso, ma non riuscivo a fare a meno del suo calore, delle sue mani sulla mia pelle, dei suoi occhi azzurri.

Mi strinsi alla sua maglietta, chiudendo gli occhi, inspirando il suo profumo, desiderando ardentemente che fosse tutto un incubo, un brutto sogno dal quale mi sarei svegliata, l'indomani mattina, e per il quale mi sarei data della stupida. 

Ma non era un incubo, non era frutto del mio inconscio, o della mia fantasia; era tutto vero, maledettamente vero ed io avevo paura di frantumarmi, di continuare a perdere pezzi, così tanti, da non riuscire più a trovarli per ricompormi, per avere il coraggio di andare avanti.

Come avrei anche solo potuto allentare la presa dalla sua maglietta, l'indomani mattina, e fingere che tutto si sarebbe sistemato?

Come potevo mentire a quella parte di me che, ormai, non se ne stava più in un angolo a lasciarsi dominare, ma che era il registro di tutte le mie emozioni? Non sarei riuscita a spingerla nuovamente nel suo angolo, non adesso che l'avevo così faticosamente costretta ad alzarsi, a combattere.

Avrei solo voluto dormire per sempre, chiudere gli occhi, consapevole che non avrei affrontato la luce.

 

Quando schiusi le palpebre, consapevole di aver dormito soltanto venti minuti, era ancora presto; le tende socchiuse lasciavano filtrare una luce fredda e grigia sul soffitto: le prime avvisaglie di un'alba scura e rigida.

Mi dolevano i muscoli per la posizione scomoda che avevo assunto ore prima, stretta così spasmodicamente al corpo di Robert, che quasi mi meravigliai del suo respiro tranquillo.

Dovevo andare via da quella stanza, da lui, altrimenti non avrei avuto più il coraggio necessario per farlo, se lui si fosse svegliato.

Nonostante la sensazione di vertigine, provocata dal semplice allontanamento del mio corpo dal suo; nonostante il peso al cuore che avvertivo e che temevo che, da un momento all'altro, mi avrebbe vista in lacrime; nonostante le gambe molli e il tremore alle mani, riuscii ad abbandonare il caldo confortevole delle coperte e a dirigermi in bagno per una doccia calda e veloce, così veloce, che non ebbi neanche il tempo di pensare, di riflettere sulle mie azioni.

Non tentai neanche di asciugarmi i capelli, per paura che il rumore del phon potesse svegliarlo; me li frizionai meglio che potei con un asciugamano, poi li raccolsi in una crocchia veloce, evitando di preoccuparmi dei capelli che continuavano a svolazzarmi davanti agli occhi ad ogni piccolo movimento.

Indossai i vestiti della sera prima e ritrovai il borsone che avevo riempito delle mie cose qualche settimana prima, cominciando a rovistare nel disordine in cerca dei miei indumenti e dei miei oggetti.

Cercavo di non lanciare neanche uno sguardo alla figura addormentata poco distante da me; cercavo di non pensare che, una volta fuori da quella stanza, da quell'albergo, sarei scoppiata a piangere.

Mi muovevo il più silenziosamente possibile, recuperando un paio di jeans, una maglietta, uno slip, un paio di calzini, il pantalone di una tuta, una spazzola, un paio di orecchini, quattro bracciali, una sciarpa, una fascia per capelli.

Gettavo tutto alla rinfusa nel borsone, fingendo di stare bene.

Quando il borsone fu pieno e la stanza più vuota, indossai le scarpe e il cappotto.

Avrei dovuto lasciargli un biglietto?

Non avevo poi molto da dirgli.

Ci riflettei un istante, prendendo tempo, ma, quando alla fine mi decisi che non sarebbe servito, che sarebbe risultata solo una presa in giro, avvertii il desiderio di baciarlo, di sfiorare la sua pelle per qualche altro istante.

Mi avvicinai, titubante, sperando di non svegliarlo, e mi chinai su di lui, chiudendo gli occhi per perdermi nel suo profumo di more e zucchero filato.

Gli baciai le labbra, leggera, il cuore che batteva all'impazzata, la paura di poterlo, solo con quel suono, svegliare; invece lui mugugnò qualcosa, voltandosi verso di me, continuando a dormire, un piccolo sorriso ad addolcirgli il viso.

Sorrisi anch'io prima di voltarmi e uscire definitivamente dalla sua vita.

Una volta varcata l'entrata principale dell'albergo, non riuscii neanche a chiamare un taxi; cominciai a correre, sempre più veloce, le lacrime che mi offuscavano appena la vista.

Volevo allontanarmi il più in fretta possibile da lì, raggiungere il residence dell'Accademia e sprofondare sul mio letto, ignorando tutto il resto e poco importava se per farlo mi sarei scontrata con qualche passante, se sarei inciampata, se avessi sentito la milza bruciare e i polmoni reclamare ossigeno; se le gambe fossero diventate molli, se le lacrime avessero reso tutto più confuso e indistinto, se i miei pensieri si fossero concentrati sul fatto che, da quel momento, sarebbe stato tutto come tre anni prima e i miei sforzi per cambiare non sarebbero serviti, perché ero di nuovo da sola e Robert non era più accanto a me.

Raggiunsi il residence senza fiato, rifiutando di fermarmi anche solo per attendere l'ascensore, optando per le scale.

Sbattei la porta della mia stanza così violentemente, che temetti, per un istante, di averla scardinata.

Abbandonai il borsone a terra, guardandomi intorno mentre riprendevo fiato, come se vedessi quella stanza per la prima volta: la scrivania accanto alla finestra, le mensole dei libri, l'armadio di legno chiaro, il televisore spento, l'i-Pod abbandonato sul letto, il comodino pieno dei miei porta-fortuna, le foto di me e Robert insieme nascoste nell'ultimo cassetto, in fondo.

Raggiunsi il letto, liberandomi del cappotto e delle scarpe. Afferrai l'i-Pod, sdraiandomi, infilai le cuffie e scorsi la libreria in cerca di qualcosa che non mi facesse pensare.

Ero stata io a volerlo, che senso aveva piangere o disperarmi?

 

Non sono sicura di quanto tempo trascorsi così, in stato catatonico, le lacrime che mi rigavano le guance, gli occhi che cercavano, di volta in volta, di mettere a fuoco il soffitto e le orecchie che continuavano ad accogliere la musica più triste che ero riuscita a trovare; nella mia mente era tutto così ovattato, che i pensieri si erano ingarbugliati fino a formare un'enorme matassa, di cui io facevo fatica ad ordinare i fili, eppure, non m'importava; lasciavo che si aggrovigliassero, senza fare niente per districarli, così come lasciavo che le lacrime mi bagnassero gli occhi e il viso senza fermarle, non più.

Mi riscossi soltanto quando sentii bussare alla porta.

Non avrei voluto aprire, ma poteva essere qualcosa di importante, perciò spensi l'i-Pod, abbandonandolo sul cuscino, e tentai di asciugarmi le lacrime con le maniche della maglia che indossavo, tirando su col naso.

Non ebbi neanche il tempo di aprire completamente la porta, che Arthur mi riempì di parole.

< Ehi! Ho visto che non rispondevi al cellulare, così ho pensato di venire a vedere se eri rientrata. Lucas e Amanda pensavano di fare un ripasso veloce della coreografia, sai, per la lezione di oggi pomeriggio... > Si interruppe all'improvviso, osservandomi e spalancando gli occhi l'istante successivo.

Dovevo avere un aspetto orribile.

< Cos'è successo? > Mi domandò, ritirando il sorriso di poco prima, assumendo un'aria corrucciata e preoccupata.

Mi scostai per permettergli di entrare, facendogli cenno di accomodarsi dove preferiva.

Scelse il letto, così spostai qualche cuscino per accomodarmi accanto a lui, le gambe incrociate.

Continuavo a piangere senza neanche rendermene conto; le lacrime continuavano a scivolarmi sul viso, in silenzio.

< Candice... > Mormorò, cercando di guardarmi in viso, anche se io continuavo a negargli il mio sguardo, torturandomi le mani e l'orlo della maglia.

Mi asciugò una lacrima con il dorso di un dito.

< Sai cosa mi dice sempre mia madre? Che ogni lacrima è un segreto, ma se decidi di non condividerli con nessuno, appassiranno, un po' come i fiori recisi. > Disse, facendomi scappare un sorriso, perché, anche se non conoscevo la madre di Arthur, avevo come l'impressione di averla già incontrata, perché aveva sempre una frase filosofica per ogni occasione e, nel corso di quei tre anni, Arthur ne aveva menzionate parecchie, anche di piuttosto improbabili.

< Non credo che le mie lacrime siano un segreto. > Risposi, la voce stranamente tranquilla.

< Hai litigato con Robert? > Tentò.

Scossi la testa.

< Oh. Allora, lui ha litigato con te. > Mi fece una linguaccia ed io sorrisi. Sapevo che odiava vedermi triste.

< Ho deciso che la nostra relazione non poteva andare più avanti. > Cominciai, facendo spallucce.

Se solo ripensavo alla sera precedente, avrei rischiato di affogare nelle lacrime e nel dolore.

Sospirò.

< Per via di Kristen e del bambino? > Mi chiese comprensivo.

Annuii.

< In verità, Kristen non c'entra; è solo che io non sono pronta per fare la mamma. Ho sacrificato molto per diventare una ballerina, ho lasciato Londra, la mia famiglia, lui, i miei amici, ed ora che sono ad un passo dalla realizzazione del mio più grande desiderio, non sopporto l'idea di vedermelo strappare via così. > Chiarii, lanciandogli un'occhiata.

< Allora, perché piangi? > Raccolse una lacrima, scivolatami sul mento.

Tirai su col naso e mi venne voglia di mettermi a ridere per l'assurdità di quella situazione.

< Perché so che mi mancherà come l'aria, che sarà difficile andare avanti, adesso che mi ero abituata alla sua presenza, che non sarà più lo stesso... > Mi tremò la voce e mi interruppi, cercando di trattenere altre lacrime, alzando gli occhi al soffitto.

< Ma tu sei sicura che sia quello che vuoi, no? > Mi voltai verso di lui.

< Sì... io... sì, ne sono sicura. > Risposi, guardandolo negli occhi.

< Bene, perché è questo l'importante, no? > Già, era quello l'importante, aveva ragione, però... c'era qualcosa di stonato in tutta quella faccenda, anche se non riuscivo ancora a capire cosa.

Forse, era il fatto che quella era la prima chiacchierata che facevo con Arthur da quando mi aveva parlato della sua cotta per me; forse, era il fatto che non avevamo ancora discusso dei suoi veri sentimenti nei miei confronti; forse, era il fatto che non mi andava di parlare di Robert con lui, anche se era uno dei miei migliori amici.

< Tu... ehm... io ti piaccio ancora, vero? > Arrossii, abbassando lo sguardo sulle mie mani.

Lui si schiarì la voce e sospirò, come se dovesse cominciare un lungo discorso.

< Non sarei la scelta migliore per te, in questo momento, Candice, lo sai, vero? Ti faresti soltanto del male... > Rispose.

< No! Io non... non volevo intendere questo... > Alzai lo sguardo sul suo viso, scuotendo la testa. Ora che aveva anche frainteso la mia domanda, sarebbe stato ancora più imbarazzante parlarne.

< E' solo che... ho fatto un sogno qualche settimana fa; era il giorno dell'esame di sbarramento ed eravamo andati entrambi a fare il tifo per gli altri. Poi, abbiamo cominciato a litigare e tu continuavi ad accusarmi del fatto che non mi rendevo conto che Robert mi stesse soltanto usando e manipolando, decidendo al mio posto e che tu eri innamorato davvero di me ed io... insomma, non l'avevo mai capito. > Continuai, tutta d'un fiato, prima che potessi perdere il coraggio.

< E' stato solo un sogno, perché pensi che sia così importante? > Mi domandò, arrossendo appena.

Feci spallucce.

< Nei sogni si cela sempre un po' di verità, perciò ho pensato che magari quelle cose le pensavi sul serio, che non mi avevi detto niente per non ferirmi. In fondo, da quando mi hai parlato dei sentimenti che nutri nei miei confronti, le cose tra di noi sono cambiate: se ci troviamo da soli non siamo mai a nostro agio come un tempo, non chiacchieriamo più da allora, a malapena ci scambiamo qualche parola durante gli intervalli... siamo più distanti, ecco. > Spiegai, torturando una piega dei miei jeans.

< E pensi che questo sia successo perché non approvavo il tuo rapporto con Robert? > Era più un'affermazione che una domanda vera e propria, ma io annuii lo stesso.

< Candice, tu lo ami, come potrei non approvare una relazione che ti rende felice? Da quando hai ripreso a frequentarlo, non fai altro che sorridere; persino i muri hanno capito che lui ti rende felice, che è quello che hai sempre desiderato. E poi, ti ha lasciata scegliere, anche se con qualche riserva, anche se ti ha sempre posto di fronte al fatto compiuto; ma lo capisco, perché quando ami davvero una persona, vorresti tenerla stretta a te per sempre e vorresti fare sempre la cosa giusta per non lasciarla scappare, e si prendono decisioni per entrambi, ma solo perché non sopporteresti l'idea di sentirla dire no. E' da egoisti, forse, ma l'amore è anche un po' questo. Robert ti ha lasciata andare, perché vuole che tu sia felice, perché vuole che tu realizzi tutti i tuoi sogni, e questa è stata l'unica scelta giusta che poteva compiere, e l'ha fatto. Tu hai scelto di lasciarlo per il bene di entrambi, lui te l'ha lasciato fare, perché eri tu a volerlo. In questo, non avrebbe potuto essere meno egoista. > Aveva gli occhi lucidi quando finì di parlare.

Il suo ragionamento non faceva una piega. Probabilmente, per lui era stata la stessa, identica cosa: vedermi con un altro era stato doloroso, ma l'aveva accettato, perché io ero felice, perché mi vedeva sorridere tutti i giorni, perché ero più in forma che mai. Io avevo solo cercato di proteggerlo, ma, come aveva detto Robert la sera precedente, non ne aveva bisogno, perché le sue difese le aveva già erette, ed erano quelle che gli avevano permesso di starmi accanto senza gelosia, senza astio nei confronti di Robert, senza rabbia, anche se questo aveva significato allontanarsi da me.

< Però... io ti piaccio ancora... > Tentennai. Non stavo cercando di provocarlo; volevo soltanto che fosse tutto più chiaro tra di noi, come prima della sua confessione.

< Vuoi che sia sincero? > Annuii alla sua domanda, guardandolo arrossire.

< Da impazzire. > Continuò, abbassando lo sguardo, la voce flebile e imbarazzata.

Sorrisi, catturandogli una mano tra la mia, costringendolo a guardarmi.

< Mi dispiace aver frainteso il tuo comportamento e capisco che sia stata dura, per te, vedermi insieme a Robert, ma sono contenta che tu mi abbia parlato dei tuoi sentimenti. > Era la verità. Arthur era una persona splendida, sotto tutti i punti di vista, ed io gli avevo attribuito pensieri che non gli appartenevano, anche se era avvenuto in un sogno.

Fece spallucce, ricambiando il sorriso e la presa sulla mia mano.

< A me dispiace per come sono andate le cose tra voi. > Gli occhi lucidi, continuò a sorridere ed io mi sentii davvero capita e amata.

Ero fortunata ad avere amici come lui.

< Posso abbracciarti, o è... troppo? > Gli domandai, facendolo ridere.

< Certo che puoi! Prometto di non mangiarti. > Scherzò.

Mi rannicchiai tra le sue braccia calde, sospirando di sollievo, sentendo le sue mani accarezzarmi piano i capelli.

< Sei sicura che le cose tra di voi non possano sistemarsi? So che un bambino comporta enormi sacrifici e responsabilità, ma altrettanti ne comporta restare divisi... > Mormorò.

< Perderei la possibilità di diventare una vera ballerina professionista e non farei altro che rinfacciarglielo per il resto della vita. Non voglio essere la fidanzata perfetta, non è quello a cui miro; voglio essere me stessa e occuparmi personalmente delle conseguenze delle mie decisioni. Non lo biasimo per aver deciso di voler badare a suo figlio; fossi stata in lui, probabilmente avrei fatto lo stesso, ma il bambino non è una mia responsabilità e, per quanto mi faccia male dirlo, non posso essergli madre, non adesso, almeno. > Risposi sincera, separandomi da lui.

< Sai che ti voglio bene e che mi fido di te, perciò non prendertela, ma ti sono stato vicino in questi tre anni e ho visto cosa ha significato per te allontanarti da lui, dirgli addio. Non voglio che tu ti faccia del male. Una ferita auto-inferta provoca più dolore e più rabbia delle altre. > Aveva ragione, ma cos'altro avrei potuto fare? Rimanere con lui, fingere che il fatto di prendermi cura di un bambino non mio mi andasse bene? Continuare a danzare, consapevole che c'era un bambino che dipendeva totalmente da me, da noi, ma che non avrebbe mai visto i suoi genitori, perché entrambi impegnati nel loro lavoro? Lasciarlo crescere con la consapevolezza che lui veniva dopo tutto il resto? Non potevo sopportarlo, e non era quello che voleva Robert, perciò, tanto valeva rinunciare sin dall'inizio. E se Kristen avesse deciso di tenere il bambino, sarebbero stati una famiglia; forse non perfetta, ma pur sempre una famiglia come tutte le altre.

< Cosa dovrei fare? Non posso assumermi una responsabilità più grande di me. Non sono pronta per fare la mamma. > Ammisi arrendevole.

< Solo perché non vuoi, non è detto che tu non sia pronta. Capisco le conseguenze che comporterebbe e capisco anche che non potresti ambire ad un posto all'interno del balletto russo, come hai sempre sognato, ma pensaci. Robert ti ama, così come tu ami lui; ne vale davvero la pena? > Ero colpita dalle sue parole, ma non persuasa.

Rinunciare ai miei sogni per amore. Detta così poteva sembrare una cosa eroica, romantica, da romanzo, ma nella realtà? Non vivevamo in una fiaba e non tutte le storie avevano un lieto fine. Forse, per me e per Robert non ci sarebbe stato un vissero felici e contenti; se lui credeva che fosse stato davvero il destino a farci incontrare, allora perché permetteva che ci separassimo?

Erano trascorse alcune ore da quando avevo lasciato il suo albergo, ma di lui nessuna traccia. Non un messaggio, non una chiamata. Non che me l'aspettassi, considerato che ero stata io a dirgli che, in quel modo, ci saremmo soltanto fatti ancora più male.

< Comunque, te la senti di venire a lezione? Posso trovare una scusa... > Lo interruppi. Non potevo permettermi assenze.

< Sì, certo, ti raggiungo subito. > Annuii, accompagnandolo alla porta.

Mi salutò con un veloce bacio sulla guancia e scomparve, correndo, nella sua stanza, qualche porta più in là della mia.

Dovevo cambiarmi e preparare il borsone. Lo svuotai da tutto quello che avevo recuperato nella stanza di Robert, lanciando i vestiti nel cesto della biancheria sporca, mettendo ordine tra le spazzole nel cassetto del piccolo armadio in bagno, sistemando il resto nei diversi scomparti della scrivania.

Indossai la tuta e mi sciacquai il viso. Infilai nel borsone le scarpette, le mezze punte, la calzamaglia, il tutù, un asciugamano, un pettine e qualche elastico per capelli.

Stavo cercando di sistemare i capelli in una crocchia, davanti allo specchio, quando il cellulare squillò, facendomi sussultare.

Lo recuperai dal letto con la tachicardia, timorosa di sapere chi fosse. Mi morsi l'interno di una guancia con così tanta forza, quando lessi il suo nome sullo schermo, che sentii il sapore del sangue in bocca, maledicendomi l'istante successivo.

Sapevo che non mi avrebbe dato retta, sapevo che avrebbe chiamato.

Risposi al quarto squillo, il cuore in gola.

< Candice, ascolta, lo so che avevi detto che sarebbe stato meglio non sentirci, né vederci, ma è un'emergenza. > Respirava così affannosamente, che per un attimo temetti che stesse male.

< Cos'è successo? > Mi lasciai cadere sul letto, preoccupata.

< Kristen. Mi hanno chiamato dall'ospedale e mi hanno chiesto di recarmi lì il più in fretta possibile. > Ora capivo il motivo del suo affanno: stava correndo.

< Dove sei? > Gli chiesi, la testa che già cercava una scusa per assentarmi dalla lezione. Non potevo lasciarlo solo, non me lo sarei mai perdonata, senza contare che aveva solo me a New York.

< Sono appena entrato nel parcheggio del Saint Vincent's. > Rispose.

< D'accordo, ti raggiungo subito. > Chiusi la telefonata, senza neanche attendere che mi rispondesse e, afferrato il cappotto, mi precipitai alla porta di Arthur, bussando con forza.

< Candice! Che succede? > Strabuzzò gli occhi: dovevo essere pallida come un lenzuolo.

< C'è un'emergenza, Kristen è in ospedale e Robert mi ha chiamata per avvisarmi, gli hanno detto di raggiungere l'ospedale il prima possibile, perciò, credo che ci sia qualche problema. Puoi ancora inventare una scusa per me, per la lezione? > Non riuscivo a stare ferma, ero impaziente e preoccupata.

< Certo, sì, nessun problema. Vuoi che ti accompagni? Mi sembri molto scossa... > Notò.

< No, no, sto bene, prenderò un taxi e ti terrò aggiornato, d'accordo? > Mi allontanai in direzione delle scale, quasi urlando per farmi sentire.

< Ok. > Sentii rispondermi.

Fermai un taxi alla velocità della luce e chiesi al tassista di fare il più in fretta possibile. Erano soltanto le due del pomeriggio e, fortunatamente, nonostante la pioggia, non c'era molto traffico; arrivammo in meno di due minuti.

Di Robert nessuna traccia: probabilmente, si era già recato in reparto.

Quasi corsi in direzione del banco informazioni, spaventando la centralinista.

< Sa dirmi il reparto della signorina Stewart? > Le domandai in fretta.

< Lei chi è, mi scusi? > Mi guardò con aria sospetta.

< Un'amica, una cara amica. > Ok, bugia, ma cosa avrei potuto risponderle? Sono l'ex del suo ex-fidanzato? Non mi avrebbe mai concesso l'informazione alla quale anelavo.

< Quarto piano. > Rispose, continuando ad osservarmi critica.

< Grazie mille! > Corsi verso il primo ascensore disponibile, schiacciando il tasto corrispondente.

Non appena le porte si aprirono nel reparto maternità, individuai la figura di Robert seduto di fronte ad uno dei distributori automatici di bibite, lo sguardo basso, i gomiti sulle ginocchia.

< Ehi. > Richiamai la sua attenzione, riprendendo fiato.

Alzò lo sguardo su di me, un misto di preoccupazione e sconfitta.

Mi sedetti accanto a lui.

< Sei riuscito a capire cos'è successo? > Gli chiesi, temendo la risposta.

< Aveva dei forti dolori e perdite di sangue... dovranno far nascere il bambino... e ho paura che qualcosa vada storta... > Spiegò velocemente.

< Vedrai che andrà tutto bene. Staranno bene, entrambi. > Cercai di rassicurarlo, accarezzandogli i capelli.

Incrociò i miei occhi e rimase in silenzio per qualche istante, facendomi arrossire.

< Grazie per essere corsa qui. > Mormorò.

Feci spallucce.

< Non potevo lasciarti solo in una situazione del genere. > Risposi con sincerità. Lui avrebbe fatto la stessa cosa per me.

Annuì pensieroso, sospirando.

< Ehi, si sistemerà tutto, te lo prometto. > Poggiai la testa sulla sua spalla, incastrando il braccio nel suo, per essergli più vicina.

< Anche tra di noi? > Sussurrò, pieno di speranza e aspettativa.

< Robert... > Cominciai, ma lui mi interruppe prima che potessi continuare la frase.

< Lo so, scusa, sono uno stupido... è solo che non riesco a capacitarmi della cosa; sembrava tutto così semplice, qualche settimana fa... > Scosse il capo, come a liberarsi di un pensiero troppo doloroso.

< Non è stato mai semplice, fin da quando Kristen ti ha detto di essere incinta. Siamo stati insieme e, credimi, sono stati i mesi più belli che io abbia trascorso a New York, ma non possiamo ignorare tutto il resto. > Osservai.

< Potremmo provare. So quanto è importante la danza per te, e io non voglio che tu rinunci al tuo sogno, ma noi potremmo seguirti, ovunque; potrei assentarmi dalle scene per un po', prendermi cura del bambino mentre tu sei via... > Voleva farmi capire che era fattibile, che non era impossibile come avevo sempre pensato e, in fondo, vista da quella prospettiva, la situazione non era così terribile: io avrei continuato a danzare e, anche se questo avrebbe significato assumermi la responsabilità di un bambino, pensare a più cose contemporaneamente, non mi avrebbe precluso la carriera che sognavo da bambina. Robert poteva smettere i suoi panni d'attore per un po' e aiutarmi. E poi, forse Arthur aveva ragione: ero convinta di non essere pronta a fare la mamma, soltanto perché non volevo. I bambini mi piacevano, ne avevo sempre desiderato uno, specialmente da quando avevo cominciato a fare da baby-sitter a Joshua e, anche se sapevo che sarebbe stato diverso, anche se sapevo che non sarebbe bastato amare i bambini per fare la madre, forse dovevo concedermi il beneficio del dubbio.

Avevo le capacità e la forza per essere entrambe le cose, ne ero sicura.

Osservai i suoi occhi lucidi e la sua espressione fiduciosa, in attesa di una mia risposta.

Era assurdo cambiare idea dopo neanche ventiquattro ore, ma la verità era che amavo Robert, che non sarei stata capace di innamorarmi di nessun altro, dopo di lui, che avrei sempre avuto il rimorso di come sarebbe potuta essere una vita con lui, avere una famiglia. Lasciandolo, avevo soltanto messo a tacere uno dei problemi, quello che riguardava la mia carriera di ballerina: non avrei smesso di ballare, sarei stata libera di viaggiare per il mondo, di fare audizioni, di partecipare a spettacoli; però, probabilmente, il rimorso più grande sarebbe stato quello di aver lasciar andare l'unica persona che mi amava per quella che ero, che aveva imparato a sostenermi in ogni situazione, che era cambiato così tanto, che spesso me ne stupivo anch'io.

Mi stava offrendo quello che avevo sempre desiderato: amore incondizionato, possibilità di non rinunciare ai miei sogni, sostegno e fiducia.

Ero stata così cieca, da non averlo compreso prima?

Forse, quello che diceva sempre di me, che anteponevo la danza a tutto il resto, non era poi così distante dalla verità, solo che non avevo mai voluto ammetterlo.

< Io... > Tentennai, sopraffatta da tutti quei pensieri, torturandomi le mani e allontanandomi appena da lui.

Dovevo seguire il mio cuore, e in quel momento, la risposta che mi stava suggerendo era inequivocabile.

< Io credo che... potremmo provare... > Mormorai, arrossendo come una sciocca.

< Ne sei sicura? > Strabuzzò gli occhi, sorpreso e incredulo.

< Sì... io... sì, ne sono sicura. > Sorrisi, capendo di aver fatto la scelta giusta nel momento in cui vidi le lacrime riempirgli gli occhi e il sorriso diventare ampio e sincero.

Mi abbracciò stretta, accarezzandomi i capelli.

Avrei potuto lasciar perdere, voltarmi e dire a me stessa di non pensarci, che presto avrei trovato qualcun altro di cui innamorarmi; ma la verità era che non volevo perderlo, perché c'erano occasioni che non si potevano sprecare e non valeva soltanto per la danza.

Se pensavo che soltanto poche ore prima stavo piangendo per la fine della nostra storia, mi sentivo piuttosto ridicola.

< Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo... > Continuò a ripetermi nell'orecchio, la voce dolce.

Arrossii e lo strinsi più forte a me.

< Ti amo anch'io. > Mormorai in risposta, prima che un medico ci costringesse a separarci, schiarendosi la voce.

   
 
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