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Autore: None to Blame    09/03/2013    8 recensioni
Arthur lavora alla Camelot Cost Reduction di Uther, è una macchina perfetta sul lavoro ed una macchina imperfetta nelle relazioni, ha paura del buio, è ancora un bambino anche se non lo è mai stato e conserva nel cassetto il suo sogno più intimo.
Merlin studia Lettere e scribacchia poesie, vive con Will in una topaia e lavora al Roast Dragon di Gaius, scrive recensioni come free-lance, ha un debole per le caramelle gommose e l'alternative metal.
C'è Londra e c'è la Tube, ci sono animali domestici e tende colorate, fotografie ingiallite e storie della buonanotte;
c'è l'atmosfera bohémien degli artisti falliti ed il pessimismo di quelli esordienti;
c'è un po' di caffè per darsi la carica, perché scavare nell'uomo alla ricerca dell'uomo consuma il cuore.
Ed, in fondo, è sempre meglio tenersi per mano e lasciarsi andare.
Genere: Commedia, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Merlino, Principe Artù, Un po' tutti | Coppie: Merlino/Artù
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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II

Les promesses d’un visage
 

 

 

Fumo denso che si fondeva con l’orizzonte, tetti risucchiati dalla cappa grigia che copriva i palazzi, una foschia opprimente ingiallita dalle troppe luci, incupita dalla notte, addensata sotto una pioggia non abbastanza fitta, non troppo decisa da lavare via il fetore, quelle sensazioni negative che impregnavano l’asfalto, le gocce si abbattevano leggere e timorose, la coltre scura che si spandeva, insistente e provocatoria premeva sulla città senza lasciarle respiro.

Era Londra e sembrava un po’ un uccello in gabbia, fari brillanti che agonizzavano per un po’ di libertà, la cacofonia del traffico e della folla e degli angoli bui che si spiegava e si allargava, cercando spazio, cercando aria e poi restava impigliata, intrappolata, pulsava debolmente e poi svaniva, fioca e tremolante come una candela sottovento.

Merlin, i gomiti appoggiati al davanzale, sporgeva la testa fuori dal minuscolo rettangolo incastonato sul fianco dell’edificio – una finestra sulla città, una finestra sul mondo per studiare se stesso.

Gli piaceva la pioggia.
Gli piaceva il modo in cui sembrava purificare l’aria, addensandola e profumandola. Gli piaceva che l’asfalto ed il terriccio dei giardini restassero impregnati del suo odore, come quello che c’era sempre a Ealdor – terra bagnata, erba e pane appena sfornato.

Gli piaceva la musica della pioggia.
Gli piaceva il sottile ticchettio delle gocce timide e gli piaceva quando, invece, scrosciavano irriverenti o ancor di più quando piegavano feroci i rami degli alberi e si dimenavano incontrollabili, ruggendo col vento.

Merlin sospirò, richiudendo la finestra – che protestò con un cigolio sospetto.

Raggiunse il letto – ovvero, fece un passo – e ci si buttò sopra con ben poca grazia, i jeans ancora indosso, le gambe stese e le braccia piegate dietro la testa.

Portò una mano al comodino, accendendo l’abatjour – una patacca colorata e pacchiana, la base scheggiata. La lampadina rischiarò la stanza – una scatola quadrata che assomigliava vagamente ad uno sgabuzzino, con quella mobilia rovinata e polverosa, una moquette lisa che doveva esser stata blu, un letto sfatto dalle coperte verdi. C’erano anche una scrivania in legno divorata dalle tarme che reggeva una quantità sorprendente di testi universitari, impilati disordinatamente, ed un armadio di medie dimensioni, un’anta spalancata su un interno completamente vuoto – dato che l’intera stanza era costellata dei capi che andavano opportunamente riposti altrove.
L’intonaco era scrostato in più punti, i muri coperti da poster – grafiche dei Tool, gigantografie di paesaggi, ritratti di Baudelaire e fotografie di gattini in pose buffe. C’era una foto di sua madre, una di lui e Will con cappellini di carta e brillantini sul naso, quella volta che si erano ubriacati tanto al punto che avevano dovuto chiamare un taxi perché non si reggevano in piedi – e poi avevano dovuto evitare di comprare carne per due settimane. C’erano post-it blu con poche parole scribacchiate sopra, quelle che più gli facevano ridere – sfigmomanometro, tacchino e felafel – e quelle che lo ispiravano, le citazioni dei suoi autori preferiti e pensieri buttati lì a caso – finivano sul muro e non perse fra un mucchio di pagine perché dovevano sempre essere sott’occhio, perché potevano svanire se sbattevi le palpebre, perché potevano cambiare e tu dovevi essere lì per controllarle.

In un angolo, sparsi disordinatamente sulla moquette, stavano i libri più disparati, romanzi e raccolte di poesie, una versione soft del Kamasutra ed un saggio sull’influenza dei parametri di giudizio dell’arte greca sull’odierna società occidentale.

«Merl, hai cenato? »

Will non aveva bussato.
La sua testa aveva fatto capolino fra lo stipite e la porta, gli occhi iniettati di sangue ed i capelli disordinati – beh, più disordinati.

Merlin scattò a sedere, abbassando lo sguardo, colpevole. L’amico aprì completamente la porta e lo guardò con disapprovazione, una paternale già pronta a fior di labbra.

Però Merlin sollevò la testa e gli sorrise, mettendo in mostra i denti.
Ecco, in quel momento, Will perse la sua voglia di prendere a pugni l’amico. Sbuffò, più perché sentiva di doverlo fare che per effettiva perdita di pazienza, perché aveva un leggero senso di colpa alla bocca dello stomaco, ed afferrò il coinquilino per il gomito, costringendolo a seguirlo in cucina.

«Ti faccio mangiare io. Non sono ancora le nove, siamo in tempo per una cenetta come si deve. Mangiamo davanti alla tv e poi a letto, che domani abbiamo il corso presto! E poi devi andare a lavorare, tu! Ora riscaldiamo una buonissima confezione di spaghetti precotti. E poi ci sono delle uova. Proveremo a fare una frittata, proprio come ci ha insegnato Lance. »

Merlin riconobbe il vomito di parole, riconobbe la stretta nevrotica delle dita di Will sulla manica della sua maglia, riconobbe lo sguardo, quello che lui evitava di mantenere fermo e deciso.

Will era preoccupato.
Qualcosa lo turbava e non glielo aveva detto.

Storse la bocca, ricordandosi cosa era successo l’ultima volta che Will gli aveva nascosto qualcosa – ricordava le occhiaie scavate ed il tremore nelle mani, il modo in cui aveva aggredito Merlin quando gli aveva chiesto delucidazioni, ricordava i soldi che sparivano dalla cassa comune e quel sacchetto, Cristo, quel sacchetto di plastica nel suo zaino.

Merlin sospirò – di nuovo, ancora, quella giornata sembrava più pesante ogni secondo che passava.

«Non c’è il latte »

Will aggrottò la fronte.

«E che c’entra il latte? »

«Lance dice che- »

«Al diavolo quello che dice Lance! Inventeremo! »

Merlin gli lanciò un’occhiata dubbiosa. Né lui, né Will erano dei gran cuochi e, di solito, i loro pasti casalinghi consistevano in cibi precotti e tramezzini, magari fregati dal Roast Dragon.

Merlin non gli fece domande.
Si limitò a stringere il cucchiaio con forza e continuò a mescolare le uova.
 
 
 
 







**
 
 









«Non c’è altro modo, devi capirlo, Uther »

La lunga scrivania, lucida e bianca, gomiti fasciati da completi d’alta moda, le schiene dritte e gli occhi stanchi.

Uther Pendragon strinse i braccioli della sedia – fu l’unica emozione che lasciò intravedere a quella gente, la faccia una maschera impassibile.

Annuì, stancamente.

«Avevo già considerato quest’opzione »

«Non è un’opzione, signore. È l’unica linea di condotta da seguire per evitare il collasso. »

Era Leon, i capelli che dovevano esser stati domati da parecchio gel quella mattina ora erano di nuovo liberi, i riccioli che gli ricadevano sulla fronte, molleggiando.

«Sì, lo comprendo. Per il bene della Società. »

Agravaine si sporse verso il cognato.

« Uther, in segno di rispetto e di amicizia, il Consiglio ti permette di esprimere una preferenza. »

Patrick Young annuì, un vecchio dalla pelle filigranata, la giacca che si ripiegava su se stessa perché priva di un effettivo corpo da fasciare. Uther lo guardò, sovrappensiero.

«Penso che possiate immaginare chi ho intenzione di scegliere. »
 
 
 
 
 








**
 
 
 









    Mittente: Elena.

- ciao tesoro 6 già arrivato a casa? mi manki tanto

Arthur si sfilò le scarpe, allentandosi la cravatta, il cellulare in una mano e le dita che picchiettavano sui tasti.

- Sono appena rincasato. Anche tu mi manchi.

Non era vero, naturalmente, ma quelle parole suonavano così bene che sarebbe stato un peccato non utilizzarle.

Si diresse verso la cucina, appoggiando il cellulare sul ripiano in marmo.
Contemplò l’idea di mettere insieme qualcosa di buono, magari un’enorme e ricca insalata, di quelle che grondavano di patate e tonno, magari con dei pomodori, capperi o qualcosa di sostanzioso.
Il suo stomaco gorgogliava e pretendeva nutrimento.

Però non aveva desiderio di cucinare. Aprì l’anta del frigorifero, sperando di trovare qualcosa che potesse essere consumato senza aver bisogno di una qualsiasi preparazione – ed estrasse trionfante una ciotola di risotto, con degli invitanti calamari che sbucavano qua e là. Dovevano essere gli avanzi del giorno precedente, ma in quel momento non vi diede conto. Lo infilò nel microonde, puntando il timer sui cinque minuti e sorrise, estasiato.
Raggiunse il tavolo della sala da pranzo – in pratica, era tutto un enorme spazio senza divisioni di sorta, colori come il beige ed il grigio chiaro che saltavano all’occhio in tutta quell’eleganza.

Poggiò sulla tovaglia una caraffa d’acqua ed afferrò il telecomando, accendendo il televisore – un oggetto vergognosamente appariscente, uno schermo largo, piatto e dall’aspetto costoso.

Rabbrividì mentre faceva zapping da un canale di notizie all’altro, le giornaliste con le loro voci chiare e le agenzie che lampeggiavano sotto i loro sorrisi ignari.

Per quel giorno, ne aveva abbastanza di notiziari.

«Ma Ciro muore in battaglia nel 530 a.C. Non visse abbastanza a lungo per dimostrare quello di cui era capace lontano dall’ambiente di guerra. Un po’ come accadde con Giulio Cesare… »

Documentario.
Ecco un programma accettabile.
Arthur non aveva idea di chi fosse quel Ciro di cui si parlava, né cosa avesse a che fare con la colonna dorica – o ionica? Avrebbe interrogato Gwen a riguardo – che veniva inquadrata, ma gli andava bene così.

Raccattò la sua ventiquattrore da dove l’aveva abbandonata, estraendovi il computer mentre il timer del microonde lo avvertiva con un sonoro ding che aveva finito il suo lavoro.

Con la ciotola fumante in una mano ed il pc sottobraccio, Arthur si posizionò al tavolo, incrociò le caviglie sotto la sedia e soffiò poco educatamente sulla propria cena, il vapore che gli riscaldava il volto. Intanto, lo schermo del computer si illuminava.

Una vibrazione sorda lo avvertì dell’arrivo di un sms sul suo cellulare, ancora sul ripiano della cucina.

Inserì la password nella casella apparsa sullo schermo e si alzò, grugnendo.

Era un altro messaggio di Elena.

- domani dp il lavoro ke ne dici di stare soli io e te? una cenetta tranquilla da me e poi ci si riscalda…

Erano la coppia più invidiata dell’ufficio, splendidi, eleganti e innamorati. C’era la ragazza del Reparto Trasporti che gli aveva confidato, mentre erano in ascensore, che loro due erano il suo ideale di “perfetto romanticismo”.
Evidentemente, i suoi colleghi erano più fantasiosi del normale o vedevano quello che volevano vedere.

Elena stava durando più di ogni tentativo precedente – insieme da quasi un anno.

Però.

Però, come al solito, mancava qualcosa. Mancava passione, mancava coinvolgimento.
Lei era fantastica – bellissima e brillante, semplice nei modi e negli interessi, niente di troppo sofisticato, come quella dannata Vivian che l’aveva accalappiato due anni prima.

Il problema era lui. Il problema, a conti fatti, era sempre lui. Era lui che dedicava troppo tempo a lavoro, che era un prodigio in ufficio, che dimenticava un anniversario, un evento importante, una data che doveva essere assolutamente ricordata. Era lui che nascondeva qualcosa, a detta di alcune. Era distante ed un pessimo fidanzato. Lui non si confidava, non parlava.

Lui che non le amava mai davvero.

Aveva creduto di amare Gwen, forse l’aveva davvero amata – al punto che ricordava le cose insignificanti alle quali le ragazze fanno attenzione, come il suo colore preferito, come le piaceva il Martini, i cioccolatini dovevano essere al cocco e non al latte.

Ma anche lei non era durata.

Gwaine lo aveva più volte convinto ad uscire con degli uomini - «Magari sei gay e non lo sai ancora »- ma neppure quello aveva funzionato.

Il problema era la relazione.
Il problema – il problema vero – era che ad Arthur non interessava. Non gli interessava un rapporto serio, non comprendeva questa faccenda della “coppia” e dell’essere innamorati, non ci si impegnava, non ne aveva bisogno. Di nuovo, non gli interessava. Ci si buttava perché era come iniziare un nuovo gioco, in competizione con se stesso o con un eventuale rivale, lo faceva perché ogni tanto era piacevole trovare un modo per distrarsi – anche se considerava un buon film altrettanto piacevole.

Non gli importava, davvero.

L’unica cosa che contava, che contava sul serio, era il lavoro – perché tutto il resto sarebbe stato una perdita di tempo, no?

Per questo motivo, aveva riposto il cellulare accanto al computer, senza rispondere all’sms, aprendo, invece, un file dal titolo “Riduzione Costi Telefonia”.
Gli occhi scorrevano veloci lungo le cifre riportate sul grafico, le dita che battevano sui tasti, modificando alcuni dati ed aggiungendone altri.

Sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsi dello scandalo che aveva infangato la CCR, sapeva che avrebbe dovuto trascorrere la nottata al telefono con i giornalisti, con segretarie e dirigenti vari – quelli che non si sarebbero mai lasciati convincere.
Però Arthur aveva una sua etica. Bayard aveva dato loro una chance, non li aveva abbandonati e la Camelot non lo avrebbe ripagato ignorando il progetto Mercia.
Il contratto sarebbe scaduto la settimana successiva ed ancora mancavano i risultati dei gruppi che si occupavano della riduzione costi del trasporto merci e pubblicità – si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto telefonare a Percy l’indomani, chiedendogli di aggiornarlo sui progressi.

C’era stato un tempo in cui collaborava con tutti i gruppi di lavoro, contemporaneamente. Era un buon modo per mettersi in una luce positiva di fronte alla Società, certo, ma lo faceva anche perché gli dava una sensazione di euforia – che mai mostrava, naturalmente. Lo faceva sentire forte, invincibile – potente, insuperabile, mai felice, ma in fondo non era quello l’importante.

Se perdeva, veniva incentivato ad andare avanti, senza sosta. Per migliorarsi, per gonfiare il proprio ego.
Per dimostrare qualcosa – forse a se stesso, magari ai colleghi, certamente a suo padre.

Poi, i progetti erano diventati troppi e lui si era concentrato sempre sugli stessi gruppi di competenza – telefonia, immobili e materie prime.

Il cellulare squillò con prepotenza ed Arthur sobbalzò.

Afferrò l’apparecchio e si bloccò non appena vide quale numero stesse lampeggiando sul display.

«Padre »

«Arthur, ho una questione urgente della quale discutere »

«Ti ascolto »

«Riguarda il futuro della Società. Questo scandalo ci ha indeboliti in modo sconveniente e la CCR non tornerà agli antichi splendori- »

«Non è vero, padre, con un po’ di persuasione, clienti- »

«Non mi interrompere. »

La voce di Uther era dura. Arthur deglutì.

«Sissignore. »

«Stasera il Consiglio si è riunito. Siamo pervenuti ad una sola conclusione della faccenda: le mie dimissioni. »

«Cos- »

«Le ultime fughe di notizie e le voci in circolazione parlano chiaro. Chiunque abbia fatto quelle dichiarazioni, aveva come unica mira la distruzione della mia personale immagine. Odin ha detto chiaramente che non ha problemi con la CCR, se non fosse che io ne sono a capo. Non è la Camelot che ha perso consensi, ma io. »

«Padre, non- »

«Domani stesso si voterà per affidare la responsabilità della Camelot ad un amministratore delegato. Io ne resterò il Presidente, naturalmente, ma senza alcun potere decisionale. »

Arthur iniziò a sudare freddo.

«È chiaro che la scelta penderà su di te. Io ho dato loro il tuo nome e, come previsto, l’intero Consiglio l’ha accettato di buon grado. »

«Quindi… »

«Anche se non ancora ufficialmente, sei il nuovo Amministratore Delegato della CCR. Avrai la piena responsabilità e dovrai dare tutto te stesso alla Società, senza perderti in sciocchezze. »

«Padre, io non so se- »

«Non sono assolutamente accettati rifiuti o tentennamenti di sorta. Tu non mi deluderai, Arthur. »

Uther continuò, probabilmente augurando a suo figlio di trascorrere una piacevole notte – o semplicemente intimandogli di presentarsi in perfetto orario il mattino seguente.

Arthur non se ne accorse.

Respirava a stento, il cellulare ancora premuto contro l’orecchio, il regolare suono della caduta di linea che gli rimbombava nella testa – tu tu tu.

Non seppe con quale forza di volontà si alzò dalla sedia senza scaraventarla in terra.

Quando il mondo smise di vorticargli davanti agli occhi, molliccio e viscido come gelatina, era già nella sua camera da letto – ordinata, pulita, impersonale.

Si era inginocchiato davanti al candido comodino, lo sguardo perso in una diversa dimensione.
Aprì piano il secondo cassetto, lo aprì giusto un po’, infilandovi dentro la mano che cercava a tentoni qualcosa. Estrasse una chiave – lucida ed apparentemente mai usata. Se la rigirò fra le dita, accarezzandola. La ripose accuratamente nel cassetto – perché non era ancora quel tempo, forse non ci sarebbe mai stato quel tempo.

Tirò fuori un quaderno, un rettangolo sgualcito e rosso, un insieme di pagine segrete, ed una penna – voluminosa e colorata e poco professionale. Sfiorò la copertina liscia e sembrò tranquillizzarsi – era un po’ come tornare a casa. Girava piano le pagine, nel timore di rovinarle, di disturbare i sogni che vi dormivano, si svegliare pensieri che andavano cancellati.
Raggiunse un foglio vuoto e bianco, che chiedeva di essere riempito – lo chiedeva a bassa voce, con aria complice, e poi gli sorrideva come mai nessuno gli aveva sorriso, gli sorrideva, bianco e lucente, scrutandogli l’animo e succhiandogli via quello che non poteva restare sospeso nell’oblio.

Arthur accarezzò la carta con la punta della penna.

Scrisse per tutta la notte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

**
 
 
 








Morgana riagganciò.

«Che novità da Agravaine? »

Sua sorella accavallò le gambe con un movimento sinuoso, i gomiti sui braccioli della poltrona, il palmo della mano a reggere il mento.

«Uther appende le scarpe al chiodo »

Morgause si lasciò sfuggire un verso di gioia, il ghigno soddisfatto che le spezzava il viso.

«Tutto secondo i piani, dunque. Nemmeno il grande Uther Pendragon è riuscito a tener testa alle pressioni della stampa. »

«Arthur sarà il responsabile, ora »

«Il giovane Pendragon non suscita il mio interesse. Hai avuto una buona idea, sorella mia »      si alzò, lisciandosi i pantaloni e dirigendosi verso l’uscita     « Chiamare quell’Elios è stata un’ottima mossa. »

« È il migliore nel suo campo, d’altronde »

Morgause sembrò notare qualcosa nella voce di sua sorella.

«Spero che il fato di Uther non susciti la tua compassione »

Morgana scrollò le spalle, evitando il suo sguardo.

«È Arthur. Lui… lui non vuole questo »

«Cerca di passare oltre, sorella. Il nostro dovere non è ancora compiuto. Uther non è ancora annientato. »

Morgana tacque per qualche istante, poi annuì.

Qualunque senso di colpa sarebbe svanito con una buona dormita.
 
 
 
 
 
 





**
 
 
 
 
 
 






«No che non puoi mettere quell’orrenda roba spacca timpani come sottofondo! Spaventerai i clienti! »

«Ma sono gli Avenged Sevenfold! »

Per Merlin non era un difficile lavorare in un bar – tranne quando gli veniva chiesto di servire ai tavoli, magari durante le ore dei pasti.
Però aveva un viscerale bisogno di musica – della sua musica.
Gaius aveva un ottimo impianto stereo che preferiva usare per trasmettere canzoni country, robette commerciali o programmi radio che avrebbero probabilmente accolto il consenso della clientela molto più di un insieme di “terrificanti suoni metallici”.

«Allora i Ramones? Almeno i Butthole Surfers! »

Il famigerato sopracciglio del vecchio barista scomparve nella linea dei capelli.

«Tu non propinerai ai miei clienti la musica di un gruppo dal nome simile! »

Merlin voleva continuare la protesta, ma un colpo di tosse alle sue spalle gli ricordò che aveva lasciato Lance da solo a gestirsi la gente al banco, perciò si affrettò ad aiutarlo.

Il Roast Dragon era un bar piuttosto conosciuto, nella zona, e parecchio frequentato.
Apparteneva a quella serie di locali che non avevano ancora accettato la seconda rivoluzione industriale e di certo erano distratti quando il mondo aveva fatto la sua entrata nel ventunesimo secolo – almeno per quanto riguardava il design. La prima impressione che si aveva del bar era profondamente negativa, a cominciare dall’insegna grossolana, dipinta di un rosso porpora e decorata con un pacchiano drago dorato. L’interno appariva accogliente solo durante le fredde sere invernali, quando il fuoco nel caminetto donava al legno della mobilia una sensazione di nostalgia, piuttosto che di squallore.

Probabilmente, se il proprietario non fosse stato Gaius e se Gaius non avesse dedicato a quel locale attenzioni premurose e tante cure, nessuno vi sarebbe nemmeno entrato. Tuttavia, i clienti affezionati si sentivano un po’ come a casa, sgranocchiando pane fresco – erano soci della pizzeria in fondo alla strada, quella gestita da italiani – e sorseggiando del buon caffè, tostato al punto giusto.
Gaius conosceva tutti per nome, perfino quelli che si erano presentati solo una volta. Ricordava ogni faccia e trattava ognuno con egual calore, impartendo lezioni di relazioni pubbliche ai suoi pochi dipendenti – Lance, Merlin e due ragazzine appena uscite dal liceo, Rhonda e Tracy.
Erano stati tutti istruiti a dovere, nessun cliente si sarebbe mai dovuto lamentare del servizio del Roast Dragon.

E per quarant’anni tutto era andato bene.

Merlin, seppur imbronciato, continuò a coprire i cappuccini di morbida spuma, spruzzandoli di cacao.
Borbottava tra sé - «D’accordo, niente musica, niente System, poi non vi lamentate che inciampo, a me la musica serve »- e, man mano, riponeva le tazze pronte sul vassoio di Tracy, che aveva la straordinaria capacità di ricordare gli ordini di dodici tavoli senza doverli annotare.

Il locale era pieno. Era sempre pieno, a ora di pranzo. Erano nella zona uffici e molti impiegati preferivano un casereccio panino ad un prodotto industriale. Curiosamente, tutti loro ordinavano sempre le solite cose – sandwich con salame e formaggio, con poche varianti.
A poco a poco, Merlin si era abituato.

I campanelli sulla porta tintinnarono allegramente, annunciando l’entrata di qualcuno – che si sarebbe dovuto accontentare dei sedili al bancone, dato che i tavolini erano tutti pieni.

«Salve, benvenuto al Roast Dragon. Vuole ordinare? »

Lance accolse il cliente, Merlin poggiò l’ultima tazza sul vassoio e sorrise a Tracy, che barcollò leggermente sotto il peso di quelle sette tazze stracolme.

« Un caffè nero, ristretto e senza zucchero »

Quello fu il momento in cui Gaius si pentì di aver assunto quel ragazzo.

Non perché si era voltato di scatto, facendo cadere un’intera fila di bicchieri, ma per lo sguardo che aveva rivolto al nuovo cliente, ignaro, in piedi al bancone.

Il suddetto cliente aveva rivolto l’attenzione al punto da cui era provenuto il fracasso di vetro infranto – ed aveva sorriso.

Merlin fu preso decisamente in contropiede – aveva previsto reazioni del tutto differenti, molte delle quali prevedevano la violenza fisica.

«Lascia, faccio io »

Lance aveva evocato dal nulla una scopa ed una paletta e si era chinato per porre rimedio al disastro del collega, lasciando all’altro il compito di servire il cliente.

Merlin, quindi, gli si avvicinò, ostentando un’espressione distaccata.

«Può ripetere l’ordine? »

L’altro lo scrutò, socchiudendo le palpebre.

«Non ti ricordi come lo prendo? »

Si schiarì la gola.

«Abbiamo un sacco di clienti, ogni giorno e mi pare di averla servita solo una volta »

«Nero, ristretto, senza zucchero »

Aveva ripetuto l’ordine senza staccargli gli occhi da dosso.
Merlin deglutì a vuoto ed annuì, voltandosi per preparare il caffè.

Ogni tanto, gli lanciava occhiate fugaci, sorprendendosi di come apparisse diverso – e si erano incontrati solo il giorno prima.
Aveva occhiaie scavate ed un incarnato pallido, malato, i capelli dorati piatti e tristi. Si ritrovò a chiedersi se avesse dormito bene, se avesse effettivamente dormito – prima di mordersi l’interno della guancia, ripetendosi nella testa che non erano affari suoi.

«Ecco qua, nero ristretto senza zucchero »

L’altro sobbalzò, come se si fosse dimenticato di dov’era, ma poi sollevò lo sguardo e sorrise – era un sorriso tirato, stanco, quasi disperato.

«Siamo partiti col piede sbagliato, mi sa. Io sono Arthur, Arthur Pendragon. »

Gli porse la mano e Merlin gliela strinse, titubante.
Aveva una stretta vigorosa e sicura, ma che lasciava insoddisfatti – era la stretta di un uomo che sapeva quel che voleva ma non aveva il coraggio di ammetterlo, un uomo potente che può controllare una città con il pugno, ma che si ritrova a chiedersi se è davvero necessario, se ha davvero senso.

«Merlin Emrys »

Arthur sorseggiò il liquido scuro attentamente, evitando di scottarsi le labbra – e Merlin represse un pensiero osceno, ma, in fondo, gli era venuto spontaneo notando quelle labbra ed immaginandole in atteggiamenti poco casti.

«Allora? »

Quelle labbra gli stavano parlando, si erano mosse e gli avevano posto una domanda che lui, distratto, non aveva colto.

«Ehm, può ripetere? »

«Ti ho chiesto cosa fai nella vita, Merlin »

«Oh, sì. Lettere. Studio lettere, all’università. »

E certamente non si aspettava nemmeno quello sguardo - era una mattina ricca di sorprese, a ben vedere.
Di solito, quando diceva a chi incontrava che aveva scelto un percorso di studi umanistico, la gente gli riservava diverse occhiate – compassionevoli, pietose o, addirittura, indignate, come se stesse sprecando le sue possibilità, la sua vita, perché non avrebbe mai sfruttato appieno le sue capacità con  una misera laurea in Lettere.

E, invece, lo sguardo di Arthur era lucido. C’era ammirazione ed una punta d’invidia. Poi, s’incupì ed abbassò il viso.

«Dev’essere bello fare quello che ti piace »

Sembrava avesse fatto quella confidenza al caffè, la tazza ad un soffio dalla bocca, le parole uscite in un sussurro – ma non erano sfuggite a Merlin.

«Tu non- voglio dire, sei in un fantastico ufficio, no? Ed i tuoi colleghi – Gwaine è strano, ma è uno a posto, e quella Gwen mi sembra una tipa affidabile. Mi sembra un ambiente decente in cui lavorare, no? »

Stava cianciando senza pensare, sparando frasi a caso e gesticolando esageratamente.
Non si sentiva a proprio agio, c’era qualcosa, una tensione, come se ci fossero parole da dire o troppe parole già dette – sembrava che lo stesso Arthur non fosse a proprio agio.

E, infatti, un secondo dopo, quello poggiò la tazza sul piattino, insieme a una moneta da due sterline.

«Tieni il resto. Come mancia.  »

I  campanelli suonarono per pochi attimi, il loro squillante avviso che si spegneva gradualmente sotto gli occhi di Merlin, lo sguardo ancora fisso sulla porta.

Merlin non aveva avuto nemmeno il tempo di bloccarlo.

Arthur se n’era andato.
 
 
 
















 
 

 
 
 
 
 
 
 



NdA 
 


Ohilà, buondì! Ho scritto il capitolo ieri notte e ho deciso di pubblicarlo questa mattina. Sono un po' in ritardo, forse. Magari dovrei istituire una specie di calendario, come tutte le persone normali. Nuovi capitoli ogni martedì. O giovedì. Però mi conosco e so che non lo rispetterei. O forse sì. Potrei provarci, chissà.

Dunque, l'inizio del primo paragrafo, quello di Merlin alla finestra e tutto il resto, non era previsto. L’ho scritto ieri, ispirata dall’attuale tempo qui da noi – sul serio, è allucinante, preferisco il temporale a questa orrenda foschia (stamattina, fortunatamente il cielo è limpido).

Beh, spero non vi dia fastidio. Io odio le descrizioni e spero che non vi abbia annoiato. :)

Tutto quello che troverete negli sms di Elena è voluto – “k” comprese, per quanto tutto ciò mi faccia rabbrividire.

Ho dovuto spezzare il capitolo. C’era dell’altro, ma verrà inserito nel prossimo, perché altrimenti sarebbe venuto troppo lungo – almeno per i miei gusti.

Ho scoperto che questo è il capitolo che meno preferisco.
Non so perché, mi è uscito fuori troppo descrittivo e prolisso e non vedo l’ora di arrivare al succo della questione.

Sul serio, spero che non vi abbia deluso.
L’inizio ha avuto un tale successo – totalmente insperato e decisamente inaspettato – che mi è venuta una specie di ansia da palcoscenico. O strizza da prestazione. 
Non vorrei aver deluso le vostre aspettative – tremo a questo pensiero.

Comunque, ringrazio tutti voi che avete recensito il primo capitolo e chi l’ha inserita fra seguite e preferiti!

Grazie e, se dovesse avervi deluso questo secondo capitolo, perdonatemi! Non esitate a farmelo sapere! :)

Accetto critiche costruttive e distruttive! 



Oh, il titolo di questo capitolo è di Baudelarie, "Le promesse di un volto", una delle opere dei Fiori del Male.




   
 
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