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Autore: shadowsymphony    09/03/2013    0 recensioni
"Adesso mi odierai ogni volta che ti dirò 'va bene'?" chiese lei, sorridendo, appoggiando la testa al suo petto. "Potrei farlo" rispose lui, ridendo. "Ti odio" rise anche lei. "Capisco. Sfoga pure la tua rabbia su di me". "Allora preparati alla tortura" ridacchiò, e si alzò in punta di piedi per baciarlo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“cazzo” mormorò. Perché aveva riattaccato? Non gli aveva detto dov’era. Provò a richiamare quel numero, ma partì un messaggio preregistrato: quel telefono poteva solo fare chiamate, non riceverle. Probabilmente era il numero di un telefono di quelli che si trovano nelle stanze d’hotel. Era in un hotel. Ma dove? Perché non aveva usato il cellulare? Richiamò il suo cellulare, ma era ancora spento. “siamo arrivati” disse all’improvviso il tassista. Avevano raggiunto l’aeroporto. Ringraziò, pagò e si precipitò nell’edificio. Andò a controllare i voli sugli schermi all’entrata: l’aereo per Chicago era decollato 10 minuti prima, il prossimo era fra 40 minuti. Corse a prendere un biglietto e poi rimase nella sala d’aspetto, camminando avanti e indietro.

“ci sei? Perché non rispondi?”
“scusa, ora non ho tempo. È urgente?”
“sì”


Prese il telefono. Erano le 11 di sera; la batteria era al 10%. Lo spense e lo rimise in tasca. Dove poteva essere a quell’ora? Se era in un hotel, non poteva essere a Los Angeles, lì aveva una casa. Era a Chicago, allora. Non aveva nemmeno più le chiavi del suo appartamento, le aveva prese lui. Era da sola in un hotel… ma quale? Non poteva risalire a quello da cui aveva telefonato. Pazienza, l’avrebbe cercata in tutti gli hotel se necessario.

“sto arrivando. Sto arrivando. Sto arrivando” le risuonava in testa. Stava arrivando. Stava arrivando. Aveva sentito la sua voce, le aveva parlato, le aveva detto che stava arrivando. Aveva riattaccato troppo presto, in preda all’agitazione, ma l’aveva dimenticato. Come aveva dimenticato che non gli aveva detto dov’era, e neanche lui. Non si domandò minimamente come l’avrebbe trovata; sapeva che l’avrebbe fatto, e basta. Come in una fiaba. Il principe trova sempre la sua principessa, no? Quelle due parole erano state il regalo più bello. Voleva aspettarlo sveglia, come se fosse potuto entrare all’improvviso – magicamente – dalla finestra o dalla porta della sua stanza, come facevano sempre i principi, ma si riaddormentò poco dopo.

L’aereo atterrò a Chicago alle 2.45 di notte. Durante il volo aveva pensato a dove avrebbe potuto cercarla.  Se era andata a Chicago per lui, sicuramente doveva essere passata a casa sua. Poi? C’erano centinaia di hotel. Ce n’era uno vicino a casa sua, ma non era un granchè. Forse era andata in uno dei soliti 5 stelle, ma non poteva entrare e chiedere di lei, così, a quell’ora; l’avrebbero buttato fuori. Non sapeva cosa fare. Prese un taxi e si fece portare a casa.
Arrivò mezz’ora dopo. Le luci del condominio erano tutte spente, il silenzio insolito era preoccupante, spezzato solo dal motore rumoroso degli scooter e il rollio delle ruote di centinata di auto sulle strade notturne. Cercando di fare il più piano possibile, aprì il portone e salì al suo appartamento. Aprì la porta e accese le luci, poi entrò e chiuse. Controllò subito ogni stanza. “ma cosa stai facendo? Non è in casa! Non ha le chiavi, non può entrare!” gli diceva la sua testa, ma in fondo sperava – inutilmente- che fosse lì. “non c’è, vedi?”. Andò in cucina, mise in carica il telefono e poi, girandosi verso la porta, notò un biglietto sotto per terra. Lo raccolse: era di Judy. “alle 7 è passata la tua ragazza. Ha chiesto di te, le ho detto che non c’eri. Le ho indicato l’hotel Mirana, ma non so se è andata lì”. Senza pensarci due volte, corse giù per le scale e fuori di casa. Prese la macchina e, senza curarsi di far rumore, sgommò via e in 2 minuti raggiunse l’hotel. Parcheggiò davanti all’entrata, anche se non c’era posto, ed entrò. Al bancone della reception non c’era nessuno. Cosa doveva aspettarsi, in un posto del genere, a quell’ora? Nel salottino adiacente alla tv era accesa, ma non c’era nessuno nemmeno lì. Aspettò per una decina di minuti, poi vide scendere dalle scale un ragazzino di neanche 18 anni con la divisa dell’hotel. “oh… mi scusi! Desidera?” chiese. Sembrava più addormentato che sveglio. Taylor chiese della sua ragazza, dando il suo vero nome. “mi dispiace, signore, non abbiamo nessuno prenotato con quel nome” rispose il ragazzo, cercando sulla lista nelle prenotazioni. “ha dato un nome falso, giusto” pensò. “non è passato nessuno verso le 7 di ieri?” chiese. Il ragazzo controllò. “sì, sono state prese 3 singole”. “non mi può dire da chi?”. “mi dispiace, non posso dire i nomi, per la privacy” disse. Sbuffò, irritato. Che cosa doveva fare? Non poteva di certo forzare il ragazzino a dirgli chi aveva prenotato. Inoltre stava morendo di sonno. Se lei era lì, se lo stava cercando, sarebbe rimasta nell’hotel almeno fino al mattino e poi sarebbe passata a casa sua. Forse. “fa niente, grazie lo stesso” disse, e uscì, tornò a casa, si tolse la giacca e andò subito a letto. 24 ore prima era lì, nel letto, senza riuscire a dormire né a mandarle un messaggio. In quel momento era sempre lì, nel letto, stanco morto dopo aver viaggiato per 7 ore perché non era riuscito a mandare quel messaggio.


“cosa c’è? Non posso telefonare, dimmelo per messaggio”
“ok, però fai attenzione”
“ok. Cosa c’è?”
“ti sembrerà stupido, ma per me è veramente importante. Cerca di capirmi”


Ma lei era venuta lì, da lui. da sola. L’aveva cercato, come lui aveva fatto con lei. Forse quella mattina l’avrebbe rivista, le avrebbe detto tutto. Tutto. L’avrebbe capito? Non gli importava, voleva solo vederla e pregarla di perdonarlo. Se non l’avesse fatto, se lo sarebbe meritato. Ma almeno glielo avrebbe detto, di persona, e non per messaggio. Non riusciva più a tenerselo dentro. Si addormentò.

Gaga si svegliò alle 11, colpita in pieno viso da un raggio di sole che entrava dalla finestra parzialmente chiusa dalle odiose tendine bianche e sottili degli hotel economici. Aveva sognato che il suo principe era entrato dalla finestra della sua stanza, per venire a prenderla, e insieme erano scappati via. Ma purtroppo non era successo davvero. Non era lì. C’era solo lei nella stanza, sdraiata sulle coperte, in tuta e felpa, sudata e scapigliata. Si sedette sul bordo del letto e con i piedi cercò le scarpe lasciate per terra. Le infilò e poi andò in bagno, togliendosi la felpa che le dava caldo. Si lavò il viso senza guardarsi allo specchio; sapeva che era inguardabile, non aveva bisogno di una conferma. Fece cadere la saponetta mezza consumata nel lavandino e cercò una spazzola per i capelli, ma non c’era. “ma non hanno un cazzo in questo postaccio” mormorò, annoiata. Non aveva nessuna intenzione di avventurarsi nella doccia, le condizioni della tendina plastificata che la copriva erano abbastanza; si sistemò alla meglio i capelli aggrovigliati con le mani e li legò in una coda di cavallo con un elastico che aveva nella borsa. Si rimise la felpa e la giacca e uscì dall’hotel. Mentre camminava verso la casa di Taylor, cercando di ricordarsi la strada, fu invasa da una miriade di pensieri. Come poteva lui sapere dov’era, se non gliel’aveva detto? E se forse non era a Chicago quando l’aveva chiamato? Se non era in casa? Se era andata a cercarla dall’altra parte del mondo? Più si avvicinava a casa sua, più la speranza di trovarlo lì diminuiva. La gente le passava vicino, incurante del suo aspetto. Non si era nemmeno messa gli occhiali da sole, ma a cosa servivano? Non avrebbero potuto nascondere niente. Arrivò al condominio.

Taylor si svegliò al suonare del campanello di casa. Guardò la radiosveglia: 11.20. Chi è che lo voleva a quell’ora? Oh, già, era ancora Judy! Il pomeriggio precedente gli aveva chiesto se avrebbe avuto tempo di badare ancora a Matthew quella mattina, e lui aveva detto di sì senza pensarci, nella fretta di partire per l’aeroporto. Lei non sapeva che sarebbe dovuto essere a New York in quel momento. Si alzò dal letto, ancora mezzo addormentato. Suonarono di nuovo. “un attimo!” esclamò, e si mise le ciabatte, poi andò ad aprire, in maglietta e tuta. Aveva dormito vestito, non si era nemmeno messo il pigiama. “oh, scusa, ti ho svegliato?” chiese la donna, appena lo vide. “non preoccuparti, è colpa mia, non mi sono ricordato di puntare la sveglia” disse lui. “se vuoi passo dopo…”. “no no,  non c’è problema. Tanto Matty è più sveglio di me” e fece un gesto verso il bambino, che lo guardava sorridente nella sua culla trasportabile. “allora grazie. Tienimelo per qualche ora, faccio in fretta. Ah ieri è passata la tua…”. “porca puttana!” pensò lui. Doveva andare a vedere se era ancora in hotel. “si si ho visto il biglietto, grazie infinite” disse però, cercando di stare calmo. “era al Mirana?” chiese Judy. “sono andato a vedere, ma non potevano dirmi i nomi degli ospiti”. “vedrai che passerà fra poco” sorrise la donna, e fece per porgergli la culla. “ma… l’hai vista? Com’era? Era…?” chiese poi, ansioso. “mi ha chiesto dov’eri 3 o 4 volte, io le ho ripetuto che non lo sapevo, ma mi dispiaceva perchè sembrava così preoccupata…” disse, e gli diede la culla con Matthew. Il ragazzo la prese per il manico, fissando la donna con un’espressione incredula. “stai tranquillo, arriverà più tardi, ne sono sicura” disse ancora, sorridendogli “arrivo verso mezzogiorno e mezzo, ok?”. Salutò il figlio con un bacio e scese le scale. Taylor portò in casa il bimbo e lo portò sul divano. Ormai aveva la casa piena di omogeneizzati, biberon, pannolini e giocattoli, persino un seggiolone e un piccolo box; curava Matthew da quando aveva pochi mesi, e i due si erano subito affezionati l’uno dell’altro. Se mai avesse avuto un figlio suo, non si sarebbe fatto trovare impreparato. “buongiorno Matty” disse, sorridendogli. Il bimbo fece dei versi; lo tirò fuori dalla culla e, ancora un po’ impacciato, lo prese in braccio. “hai fame? Cosa vuoi mangiare?” lo portò con se verso il frigo. Lo aprì, e dentro c’erano dei vasetti di omogeneizzato. “vuoi la frutta? E frutta sia” con la mano libera prese il vasetto e poi fece sedere il bambino nel seggiolone che aveva attaccato al tavolo. Prese un cucchiaino di plastica, si sedette di fronte al bambino e aprì l’omogeneizzato. “mmh che buono!” esclamò, prendendo una cucchiaiata e facendogliela vedere. Il bimbo fissò la pappa arancione e poi fece dei versi. “apri la bocca, che arriva l’elicottero. vroom!” e lo imboccò. “gnam!” esclamò, finita la prima cucchiaiata. Ne prese un'altra ma all’improvviso, però, Matthew diede un colpo al cucchiaio, che volò sul tavolo schizzando omogeneizzato dappertutto. Si mise a ridere, divertito. Anche il ragazzo rise “ma guarda cosa hai fatto! L’elicottero è volato via” e recuperò il cucchiaio. A un tratto sentì suonare il citofono e sobbalzò.

Suonò il citofono. Silenzio. Si appoggiò al portone. “non c’è, cosa ti aspettavi? Non arriverà mai” si disse. Indecisa su cosa fare, si sedette sullo scalino dell’entrata, ma pochi secondi dopo sentì una voce uscire dal citofono. “chi è?”. Era lui. Era in casa. Il cuore le batteva all’impazzata, e disse subito “sono io” senza neanche pensarci. Silenzio. “non mi farà mai entrare” pensò, preoccupata. Ma qualche secondo dopo sentì il portone aprirsi automaticamente. “è aperto. Vieni su”. La sua voce era calda e gentile. Non era arrabbiato perché era andata da lui. Sospirando, spinse il portone. Due rampe di scale la separavano da lui. Non vedeva l’ora di rivederlo, ma allo stesso tempo aveva paura, quasi si fosse dimenticata di tutto il viaggio che aveva fatto per essere lì in quel momento. Salì uno scalino alla volta, lentamente, e raggiunse il pianerottolo. La porta era chiusa.

“non ne posso più. È difficile per me, capisci? Ci sei sempre e solo tu. Io cosa sono, invisibile?”

Per un attimo, la prese l’istinto di scappare via. Non voleva affrontarlo. Non ce l’avrebbe fatta.

“secondo te lo voglio? Lo faccio apposta? Non è colpa mia”
“ma succede lo stesso, e non fai niente per evitarlo. Ammettilo”
“smettila di dire cazzate, per favore”


Ma finalmente l’aveva trovato. Dopo essere andata via di casa, aver fatto mezzi Stati Uniti.

“cazzate? È vero. Lo sai anche tu, ma non vuoi ammetterlo”

Dopo aver fatto 4 ore di aereo, 2 di taxi. Dopo aver passato la notte da sola in un hotel schifoso in una città quasi sconosciuta.

“smettila”

Dopo aver aspettato per oltre un giorno.

“perché non lo vuoi ammettere? Sai che ti piace essere sempre l’unica, la più importante, e non te ne frega niente degli altri”

Era lì, dietro a quella porta. Prese coraggio e bussò. “è aperto” sentì, e poi delle risate infantili. Impugnò la maniglia e la abbassò, poi spinse lentamente la porta. La sentì tirare verso l’interno e poi lo vide, lì davanti a lei, con il suo magnifico sorriso.
   
 
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