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Autore: Herm735    10/03/2013    10 recensioni
Raccolta di One-Shot per provare a dimostrare che, in qualsiasi modo, in qualsiasi mondo, Callie e Arizona si sarebbero trovate. L'ambientazione cambia di capitolo in capitolo, in epoche diverse, luoghi diversi, con una sola costante: il loro amore. Almeno, è così che mi piace pensarla...
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ringrazio ancora tutte voi che avete recensito la storia, siete fantastiche <3

Avvertimenti: molto AU! Song-fiction.




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Il nostro primo bivio


C'è sempre un momento in cui abbiamo la possibilità di scegliere.
Questo non vuol sempre dire che decidiamo di farlo davvero. Capita che sia solo più semplice limitarsi a non scegliere, ecco tutto. Ma alla fine, se tu non riesci a farlo, saranno gli altri a scegliere per te.
Quindi forse è meglio fare un bel respiro, chiudere gli occhi, e limitarsi a prendere testa o croce, perché la verità è che potrebbe andar male in entrambi i casi. O potrebbe andar bene in entrambi i casi. Nessuno può mai saperlo prima, quindi è di questo che si tratta. Di lanciare una moneta ad occhi chiusi. Di scegliere una delle due strade senza pensarci troppo, come viene, a istinto, e cercare di ricavare il meglio dalla strada che abbiamo preso.
Alla fine, è questo quello che importa, giusto?
Cercare di cavarsela con le carte che la vita ci ha passato.
Che siano un poker d'assi o una coppia di nove. Certo, rimane vero che con la prima è più facile vincere, ma quando si è in gioco, vale sempre la pena di provare.
“Ti ho fatto una domanda piuttosto chiara, Calliope. Voglio una risposta diretta.”
Chiusi gli occhi.
Inspirai.
Testa o croce.
Destra o sinistra.
Pari o dispari.
Sì. O no.

“Sì.”
Il problema è che le cose nella vita non sono mai così semplici.
Magari il mondo fosse in bianco e nero. Le cose sarebbero di gran lunga più facili. Ma la verità è che ci sono infinite sfumature di grigio con cui non riusciamo a tenere il passo.
E qualche volta, semplicemente, non c'è una risposta giusta.
Ma la mia era stata definitivamente quella sbagliata.

“No.”
Il problema è che le cose nella vita non sono mai così semplici.
Magari il mondo fosse in bianco e nero. Le cose sarebbero di gran lunga più facili. Ma la verità è che ci sono infinite sfumature di grigio con cui non riusciamo a tenere il passo.
E qualche volta, semplicemente, non c'è una risposta giusta.
Ma la mia mi aveva permesso di arrivare a fine giornata.

“Fuori.”
“Papà...”
“Vattene. Esci da casa mia.”
“Papà, ti prego.”
“Carlos, che sta succedendo?”
“Mamma, mi dispiace così tanto.”
“Di cosa ti dispiace, tesoro?”
“Diglielo. Dille di cosa ti dispiace, Callie” quel nome detto da mio padre suonava strano, impersonale. Freddo.
“Mi dispiace” ripetei, guardandomi le mani. La voce mi tremava. Perché non potevo mentire come tutti gli adolescenti? Raccolsi ogni briciola di coraggio che mi era rimasta. “Mi piacciono le ragazze” sussurrai. “Nel modo in cui dovrebbero piacermi i ragazzi.”
Mio padre colpì con forza un libro appoggiato sul tavolino del soggiorno, mandandolo a sbattere contro una parete.
“Vai a prendere le tue cose” mi disse, passandosi la mano che aveva scaraventato il libro sul viso con lentezza. “Ti voglio fuori da qui entro un'ora.”
Osservai Lucia per diversi momenti. Era come paralizzata.
“Mamma, mi dispiace. Se potessi farci qualcosa...”
“I segreti si chiamano segreti per un motivo, Callie. Perché dovrebbero rimanere tali. Hai idea di quanto sia difficile crescere una figlia...Amare una figlia...E sapere che quella figlia non andrà in Paradiso?”
Scossi la testa, chiudendo gli occhi.
“Gesù può perdonarmi. Siete voi che non potete farlo.”

“Ridicolo. Come ti viene in mente?”
“Il rapporto che hai con quella ragazza, quella Erica” disse il suo nome come se stesse sputando qualcosa di amaro. “Non mi piace. Ha una cattiva influenza su di te, Calliope. Preferirei che non la vedessi più, d'accordo?”
Io e Erica non stavamo insieme. Avevo diciotto anni, ma non avevo mai baciato una ragazza, né un ragazzo. Però mio padre non aveva visto niente che non ci fosse davvero: Erica mi piaceva più di quanto avrebbe dovuto.
“D'accordo, papà.”
La porta si aprì lentamente.
“Sono a casa” sentimmo una voce chiamare dall'ingresso. Poco dopo mia madre apparve in soggiorno.
“Lucia.”
Ci guardò, per un momento, seduti in salotto.
“Qualcosa non va?” chiese, corrugando la fronte.
“No. È tutto perfettamente apposto. Io e Calliope stavamo giusto avendo una chiacchierata tra padre e figlia.”
Mio padre sorrise, appoggiandomi una mano sulla spalla.
Avevo un nodo in gola. Ma sapevo che avrei solo dovuto resistere finché non avrei più vissuto sotto il loro tetto.

Avevo prosciugato il fondo fiduciario prima che mio padre potesse metterci mano. Erano un sacco di soldi, mi sarebbero bastati almeno per qualche anno. Ma non avevo intenzione di sprecarli, dovevo essere pronta ai molti giorni di pioggia che mi si prospettavano davanti. Così aprii un altro conto a mio nome, uno a cui i miei genitori non avevano accesso, e vi depositai tutto, tenendo in contanti solo il minimo necessario che mi avrebbe permesso di andarmene da lì senza lasciare traccia di dove fossi diretta.
Presi il primo treno che andava verso nord. Il più lontano possibile da Miami. Dalla vita che mi stavo lasciando alle spalle.
Chiusi gli occhi e risi amaramente alla conversazione che avevo avuto al telefono con Erica.
“Cosa gli hai risposto?”
“Ho detto la verità. E lui mi ha buttato fuori di casa. Possiamo vederci?”
Poi un lungo silenzio.
“Non credo che sia una buona idea.”
Corrugai la fronte, anche se lei non poteva vedermi.
“Cosa?”
“Callie, realisticamente, non ne sei nemmeno sicura, giusto? Insomma, so che io non lo sono. Non hai mai nemmeno baciato una ragazza, no?”
“E allora? Fammi capire bene, hai intenzione di scoprirlo per tentativi? Perché io sono sicura di ciò che sento senza bisogno di prove.”
Sospirò pesantemente.
“Tuo padre parlerà con il mio. Se ti incontro adesso inizierà ad avere i suoi sospetti anche lui.”
Oh, bene. Quindi c'era davvero qualcosa che poteva essere scoperto.
Beh, almeno non mi ero immaginata tutto quanto. Era comunque un buon segno. Più o meno. Non proprio. In effetti no.
“Dovresti tornare a casa” mi disse.
“Certo. Dovrei tornare a comportarmi come qualcuno che non sono e che odio fingere di essere, come ho fatto a non pensarci prima. Ottimo consiglio, ti ringrazio Erica.”
“Che ti aspettavi che facessi?”
“Non lo so. Ma non che mi voltassi le spalle all'improvviso e mi dicessi addio.”
“Non ti sto dicendo addio. Chiama tuo padre e digli che ti sbagliavi. Che eri ubriaca. O fatta. O qualcosa di simile.”
Strinsi i denti finché le guance mi fecero male.
“Un giorno ti pentirai di aver scelto di vivere dentro una bugia.”
Furono le ultime parole che le dissi.

Appoggiai la fronte al vetro freddo del finestrino.
Feci respiri profondi. Mi ripetei che sarebbe andato tutto bene. In fondo, non ero che una delle moltissime persone che sarebbe dovuta crescere troppo in fretta in questo mondo. Me la sarei cavata.

“Senti, la scuola è finita. Tra un paio di mesi andremo al college. Sai che io rimarrò a studiare qui a Miami, mentre tu sarai a Baltimora. Mi dispiace, Erica. Ma credo che sia per il meglio.”
“Interessante. Il discorso lo ha scritto lui?”
“Come?”
“Ti ha scritto lui anche quello che dovevi dirmi o ha solo avuto lui l'idea? Dico tuo padre, se avessi bisogno di altre chiarificazioni.”
Sospirai.
“Senti, non fare l'ipocrita, ok? Che avresti fatto se gli avessi detto che mi piacciono le ragazze? Ci saremmo messe insieme? Avresti detto la verità anche tu?”
Lei abbassò lo sguardo senza rispondere.
“Già. È quello che pensavo. Ti voglio bene, te ne vorrò sempre. Ma io e te non ci amiamo. Io sarò qui e tu sarai alla Hopkins e tra di noi ci saranno tre Stati di distanza. Guardami negli occhi adesso e dimmi che mi sbaglio, dimmi che potrebbe funzionare tra me e te, e andrò dritta da mio padre per cambiare la mia risposta.”
Continuò a guardare in basso senza emettere neanche il minimo rumore, senza dire niente.
“Ci vediamo in giro, Erica.”
Forse, in fondo, avevo fatto la scelta giusta.
Avevo tutto da perdere e quasi niente da guadagnare. Il gioco non valeva la candela. Era una scelta semplice da fare, se si riduceva tutto ad un semplice calcolo matematico. Eccetto il fatto che non lo era.

“Mi scusi, ha bisogno di aiuto?”
Il mio sguardo si spostò verso l'alto piuttosto velocemente, incontrando la figura di una ragazza dai capelli rossi.
“Non ho potuto fare a meno di notare che è stata seduta su quella panchina per un bel po' di tempo, immersa completamente nei suoi pensieri. Si è persa, per caso?”
“No” le sorrisi. “Forse. Credo di sì. Probabilmente. Il fatto è questo” cercai di trovare un modo più eloquente per spiegarle come stavano le cose. “Non sono mai stata in questa città, ma sembrava davvero un'ottima idea quando ho deciso di attraversare tutti gli Stati Uniti in treno solo perché ero arrabbiata. E ora sono a Baltimora, cavolo, senza avere una minima idea di quello che sto facendo.”
“E adesso la rabbia le è passata.”
“Già. Solo una grande delusione, ma niente rabbia. E non ho un lavoro, non ho un posto in cui vivere, non ho una cartina della città e sono circa al cinquanta percento sicura che quella sia la porta da cui sono uscita dalla stazione, quindi stavo pensando di attraversarla e tornare indietro.”
“E cosa la sta trattenendo?”
“Il fatto che non ho niente da cui tornare.”
Lei annuì, sedendosi affianco a me sulla panchina che stavo occupando e unendosi a me nella contemplazione del panorama circostante.
“E lei che mi dice? Cos'è che la spinge a chiedere ad una sconosciuta se si è persa o se è semplicemente fuori di testa?”
“Gli sconosciuti sono lì apposta per essere conosciuti, prima o poi.”
Attesi qualche istante.
“No, sul serio. Cos'è che l'ha spinta a parlare con una sconosciuta fuori da una stazione?”
Lei rise.
“Non ci crederà, ma è stato davvero solo qualcosa nel suo sguardo. Sembrava così sperduta. E sola.”
Io non le risposi. Forse non ero io quella delle due mentalmente instabile, in fondo.
“Non ci crederà, ma forse conosco qualcuno che può offrirle un lavoro.”
“Mi sento come se dovessi chiedere che tipo di lavoro, ma, sul serio, qualsiasi tipo di lavoro mi andrebbe bene a questo punto.”
“Bene” mi sorrise. “Andiamo.”
“Aspetti. Non stava aspettando qualcuno qui in stazione?”
Lei scrollò le spalle. “Ho accompagnato un amico. Stava partendo oggi per Miami. Adesso andiamo” ripeté alzandosi. “Quel lavoro non aspetterà per sempre.”
Mi alzai anche io, lei prontamente tese una mano nella mia direzione.
“April Kepner.”
Esitai solo per una frazione di secondo.
“Callie Torres.”
Mi rivolse un sorriso enorme, facendomi cenno di seguirla.
“Allora, signorina Kepner, lei se ne va sempre in giro a citare Dylan Dog agli sconosciuti?”
“Non proprio” rispose con una risata. “Ma stando con qualcuno che ha letto tutti i fumetti, è difficile non assorbire qualche frase qua e là.”

Chiusi la porta di casa alle mie spalle, appoggiandomici contro per un momento e chiudendo gli occhi.
Avevo fatto quello che mi aveva chiesto. Ed ero fermamente convinta che a quel punto tutto sarebbe tornato come prima, niente più sguardi sospettosi, frasi strane. Era finita.
Da lì ad un paio di mesi sarei stata al college e avrei rivisto la mia famiglia giusto un paio di giorni a settimana. Almeno per il primo periodo. Poi una settimana sì ed una no, infine una volta al mese. Dopo avrei accettato il lavoro più lontano che mi sarebbe stato offerto e me ne sarei andata senza guardarmi indietro.
Era un buon piano.
Ed avrebbe funzionato alla grande.
Se solo anche mio padre non avesse avuto un piano per la mia vita, uno molto, molto diverso dal mio.
Sentii delle risate provenire dal soggiorno ed entrai cautamente, cercando di fare il meno rumore possibile per l'eventualità in cui avessi deciso di andarmene senza neanche salutare chiunque fosse che stava facendo ridere i miei genitori.
Non fui così fortunata, però. Mio padre notò subito la mia presenza appena fuori dalla soglia della stanza.
“Calliope, vieni. C'è qualcuno che vorrei presentarti.”
Entrai con circospezione. Qualcosa riguardo quell'intera situazione non sembrava essere come avrebbe dovuto.
“Questi sono i signori Avery.”
Sgranai gli occhi.
“Avery? Nel senso del figlio di Harper Avery?” chiesi, mentre l'uomo si alzava per stringermi educatamente la mano, sorridendomi. Io ero sprofondata in una specie di trance, in cui l'unica cosa che il mio cervello riusciva a registrare era 'Stai stringendo la mano al figlio del tuo idolo, idiota. Dì qualcosa di intelligente.' “Credevo viveste a Baltimora.”
“Infatti. Siamo venuti per un colloquio di lavoro qui in città. E perché nostro figlio stava pensando di venire a studiare qui a Miami.”
“No, papà. Tu pensavi che sarebbe stata una buona idea andarcene da Baltimora per farmi studiare qui a Miami” chiarì quello che presumevo essere il figlio dei due chirurghi che mi stavano davanti.
“Calliope” mio padre mi appoggiò una mano sulla schiena, forzandomi ad avvicinarmi a quello sconosciuto seduto sul divano del nostro salotto. “Ti presento Jackson. Sono sicuro che avete molte cose in comune. Perché non andate a fare quattro chiacchiere, mentre io e i signori Avery parliamo d'affari?”
Sembrava una domanda e aveva il tono di una domanda. Ma anche il più stupido degli imbecilli avrebbe capito che quella che mio padre mi aveva appena fatto non aveva davvero niente di simile ad una richiesta.

Il posto era piccolo. E buio. E a quell'ora di notte era già chiuso. E mi dava i brividi.
Ma non avevo davvero molta scelta su dove trovarmi in quel momento, quindi lì andava bene.
C'erano una decina di tavoli, un piccolo palco in disuso da anni, il bancone e, sul retro, quella che presumevo essere una cucina, visto che ne uscivano dei cibi pronti per essere mangiati.
“Andiamo, Cristina. Non ha un lavoro, non ha una casa. Ha la nostra età. È come noi, come tutti noi.”
“Hai esperienza come cameriera?”
“Non proprio.”
“Ripeto quello che ho detto la prima volta che lo hai chiesto, Kepner. No.”
“Imparo in fretta” le feci sapere. “E ci so fare con le persone.”
Lei fece scorrere velocemente lo sguardo sui miei vestiti.
“Hai mai almeno lavorato un solo giorno in vita tua, signorina Richie Rich?”
“No. Quindi ci rifletta attentamente. Se non mi assume lei, nessuno sarà disposto a farlo e mi ritroverò a morire di fame in mezzo alla strada. Vuole davvero la mia vita sulla coscienza?”
Lei ci pensò qualche altro secondo, continuando a piegare tovaglioli di carta.
“Che ti fa pensare di saperci fare con le persone?”
“Mio padre aveva spesso delle cene a cui invitava un sacco di gente. Sono abituata a frasi di cortesia prive di significato, a sorridere quando vorrei urlare e a stringere mani quando tutto quello che vorrei fare davvero è strapparmi i capelli. So cosa sta pensando, che magari mio padre è un miliardario bastardo con due case per le vacanze in due Stati diversi e una catena di alberghi. La verità? Sì, lo è. Ma io non sono lui. Tutta la mia vita è chiusa dentro questa valigia” indicai il piccolo trolley ai miei piedi. “È tutto qui. Il mio passato, il mio presente, è tutto entrato dentro più o meno mezzo metro cubo di spazio. Posso fare la cameriera. Tutto quello che le chiedo sono ventiquattro ore per provarglielo.”
Picchiettò ripetute volte le dita a turno sul bancone.
“Stacco tra dieci minuti” mi disse, voltandosi per spegnere la macchinetta del caffè. “Ho due camere libere, visto che la mia prima coinquilina è andata via e la seconda è andata a vivere col suo fidanzatino” notai April fare un suono indignato e arrossire. Il fidanzatino doveva essere il patito di Dylan Dog, pensai. “Puoi averne una se mi aiuti a trovare qualcuno che viva nell'altra. E, che Dio mi sia testimone, se ti trovo senza vestiti sul divano ti butto fuori di casa. Ci sono camere da letto apposta per queste cose. Il soggiorno di quell'appartamento è sacro. Chiedi a Meredith, lei dovrebbe saperlo, visto che l'ho buttata fuori e poi ho dovuto comprare un nuovo divano.”
“Chi è Meredith?”
“Quella dovrei essere io” una ragazza uscì dal retro, appoggiando delle tazze pulite sul bancone. “E tu dovresti essere qui per prendere il mio posto. Da lunedì smetto di lavorare. Devo sistemare le cose prima di iniziare medicina a settembre.”
“Beata lei che può permetterselo. Noi comuni mortali dobbiamo continuare a lavorare per poterci permettere l'università. A proposito, tu che hai intenzione di fare?”
Ci avevo pensato. E ripensato. E pensato ancora. Ma la verità è che avevo trovato un'unica risposta a quella domanda.
“Aspettare.”
La mora corrugò la fronte. “Aspettare cosa?”
Scrollai le spalle. “Non ci sono più università che accettano domande a questo punto dell'anno. L'unica università a cui ho fatto domanda è a Miami. E col cavolo che ho intenzione di tornare a Miami.”
Lei ci pensò qualche istante, poi annuì. “Ha senso” concluse. “Quindi inizierai l'anno prossimo?”
Annuii. “Vorrei fare medicina. Chirurgia. Non so ancora come, ma in qualche modo.”
Loro si scambiarono sguardi incuriositi.
“Cosa c'è?” chiesi.
“Io vengo da Beverly Hills, April da una città dell'Ohio, non ho ancora capito bene dove sia di preciso, Meredith viene da Seattle. Ci siamo conosciute online, tutte e tre vogliamo andare alla Hopkins, così abbiamo affittato una casa insieme e abbiamo iniziato a lavorare qui dopo la scuola per tre anni. Abbiamo finito la pre-Med School quest'anno.”
“E i vostri genitori erano d'accordo con il vostro trasferimento?”
“I nostri genitori non sanno dove siamo” rispose April. “I miei hanno una fattoria. Volevano che rimanessi lì ad aiutarli. Ci sentiamo per telefono, ma non hanno intenzione di mantenermi. Per fortuna ho una borsa di studio.”
“Mia madre si è risposata, già prima le importava poco, ma adesso per lei posso fare quello che voglio. Mi manda un assegno tutti i mesi, li sto mettendo da parte per la retta” concluse Cristina.
“Sono la figlia di Ellis Grey. Mia madre è a favore dell'indipendenza, quindi quando a diciotto anni le ho detto che me ne andavo si è limitata a scrollare le spalle. Mi pagherà l'università, però, quindi è tutto ok.”
“Il punto era che tutte e tre vogliamo diventare chirurghi” terminò Cristina. “E Meredith convive anche con uno.”
Dopo qualche attimo di silenzio decisi finalmente quale era la prima delle innumerevoli domande che volevo fare loro.
“Tu sei la figlia di quella Ellis Grey?”

Non potevo crederci. Ero seduta accanto al nipote di Harper Avery.
“Credi che stiano parlando di noi?” chiese.
“Mio padre ha detto che parlavano d'affari” gli ricordai. “Certo che stanno parlando di noi.”
“Credi che stiano, tipo, organizzando un matrimonio combinato?”
L'idea mi fece preoccupare non poco.
“Come mai tuo padre vuole portarti via da Baltimora? Credevo che tutti gli Avery andassero alla Hopkins.”
“Non io. Non se a decidere è mio padre. Vuole portarmi via da quella città.”
“Come mai?”
“Sai tenere un segreto?”
“Certo.”
Scrollò le spalle. “La mia ragazza non gli piace molto.”
Eufemismo dell'anno, se voleva portarlo a Miami per allontanarlo da lei.
“Quindi è la verità. Vogliono che ci mettiamo insieme e che facciamo un bambino chirurgo dietro l'altro.”
Lui rise. “E i tuoi genitori che motivi hanno?”
“Sai tenere un segreto?” ripetei la sua domanda.
“Certo.”
“La mia ragazza non gli piace molto.”
Lui rise. “Ah. Beh, questo potrebbe spiegare tutto. Quindi che facciamo?”
“Gli diamo corda” mi guardò come se fossi pazza. “Ci frequentiamo per un paio di settimane, ci innamoriamo follemente, poi decidiamo di trasferirci a Baltimora per il bene della tua carriera ed andiamo entrambi alla Hopkins. Sono sicura che se lo desiderano davvero i tuoi genitori possono trovare un modo per farmi ammettere anche se le iscrizioni sono scadute. Tu continui a vedere la tua ragazza, io divento un chirurgo, tutti vincono.”
Lui ci pensò per qualche momento.
“Sai, potrebbe anche funzionare” concluse. “Andata.”
Alzò una mano nella mia direzione, io feci scontare delicatamente il mio pugno contro il suo.

Non potevo crederci. Ero seduta accanto alla figlia di Ellis Grey.
L'appartamento non era grandissimo o particolarmente di classe. Ma era un appartamento con un tetto, ed era tutto quello di cui avevo bisogno.
“Allora. Qual'è la tua storia?” chiese, passandomi una birra.
Io scrollai le spalle.
“Ho litigato di brutto con mio padre.”
“Riguardo cosa?” chiese April suonando quasi casuale.
Improvvisamente mi sentii nervosa.
“Probabilmente avrei dovuto parlarvene prima” valutai sottovoce, distogliendo lo sguardo. “Mi ha cacciato di casa quando gli ho detto che mi piacevano le ragazze.”
Le guardai, una alla volta. Loro aspettavano di sentirmi continuare.
“La regola del divano vale ancora. Quando inviti una ragazza a casa tenetevi i vestiti addosso finché non siete in camera tua” mi fece sapere Cristina.
Arrossii.
“Davvero non c'è altro?” chiese Meredith gentilmente.
Scossi la testa senza dire niente.
“Beh, tuo padre deve essere o molto vecchio o molto Cattolico.”
“Cristina!”
“Entrambi” risposi prontamente.
Cristina rise. “Oh, io e te ci divertiremo insieme. Domani sera potremmo dare una festa. Darti il benvenuto. Farti conoscere gente.”
“Andata.”

Continuai a fissare lo schermo del mio cellulare cercando di capire cosa avrei dovuto fare.
Bastava che avessi premuto quel maledetto tasto e avrei potuto dirle che stavo andando a Baltimora anche io.
“Mija, la cena è pronta.”
Alzai lo sguardo verso mio padre, leggermente spaesata dal fatto che fosse apparso dal nulla. O più realisticamente, non lo avevo sentito arrivare.
Lui si accorse che qualcosa non andava ed entrò nella stanza.
“Stavi preparando la valigia?”
“Già” sussurrai.
“Un'occasione notevole, no? Poter andare alla John Hopkins.”
Annuii. Lui si sedette sul letto affianco a me.
“Jackson è davvero un bravo ragazzo. Ti piace?”
“Certo che mi piace, papà.”
“Intendo se ti piace davvero.”
Esitai per qualche momento. Lui sospirò, alzandosi di nuovo in piedi. Sapevo cosa stava pensando, e non volevo che ci pensasse troppo.
“Stiamo pensando di andare a vivere insieme, quando saremo a Baltimora” gli dissi improvvisamente. “Io sarò lontano da casa, e lui non vuole che viva con qualcuno che non conosco. Sarebbe più tranquillo se stessimo nello stesso appartamento.”
“Calliope, andrai a vivere con un uomo quando sarai sposata.”
“Possiamo sempre prendere due camere separate” suggerii allora.
“Due camere molto, molto vicine tra loro.”
“Ma sempre due camere separate.”
“Ne riparliamo, mija. Adesso scendi a cena.”
Mi baciò sulla fronte, accostando la porta mentre usciva.
Io tornai a guardare il telefono. Non potevo più tornare indietro. Chiusi gli occhi solo per un istante, cercando la forza. Quando li riaprii, cancellai il numero di Erica dalla mia rubrica e chiamai Jackson.
“Pronto?”
“Ha detto di no. Non possiamo vivere insieme finché non ci sposiamo.”
Sospirò. “Beh, per tua fortuna conosco qualcuno che ha un appartamento con una stanza libera a Baltimora.”
“Bene” sussurrai. Ci fu una lunga pausa. “Ti ho interrotto? Stavi facendo qualcosa?”
“Leggevo un fumetto.”
“Che fumetto?”
“Dylan Dog.”
Io risi. “Devo andare, la cena è pronta. Saluta la tua ragazza per me. Ci vediamo dopodomani quando arrivo lì, ok?”
“D'accordo. Ciao Callie.”
“Ciao.”

“Se fai schifo come cameriera te ne andrai anche dall'appartamento?”
“Cristina” la riprese duramente Meredith.
“Che c'è? Sono solo curiosa.”
“Penso che rimarrò” risposi ridendo. “Mi piace questo posto.”
“Bene” Meredith mi sorrise. “E devi ammettere che anche la compagnia non è male.”
Cristina era già ubriaca. E ancora le uniche persone presenti alla festa eravamo noi tre.
“Eh, sì. La compagnia è ottima.”
Quando qualcuno suonò alla porta mi offrii volontaria per andare ad aprire.
“April, ciao.”
“Callie” mi sorrise, abbracciandomi velocemente. “Ti presento il mio ragazzo, Jackson Avery.”
Lui mi sorrise, tentandomi la mano. Io la strinsi, ricambiando il sorriso.
“Il ragazzo con cui vivi che legge sempre Dylan Dog.” “La nuova coinquilina lesbica di Cristina.”
“Jackson!” April lo colpì su un braccio. Forte.
“Bisessuale. Ma credo che non sia questo il punto. Entrate. Cristina ha finito la tequila, ma ci sono un paio di bottiglie di vodka da qualche parte. Meredith le ha nascoste perché Cristina non se le scolasse da sola, ma dopo i primi due bicchieri di Rum ha dimenticato dove sono.”
Qualcosa come un paio d'ore dopo la situazione era sfuggita leggermente dalle nostre mani.
“Tutti qui dentro sono uno stereotipo gigante” osservò Cristina.
“Che vuoi dire?” chiesi, buttando giù un sorso di birra, l'unica cosa che avevo bevuto per tutta la sera. Qualcuno doveva essere abbastanza sobrio da ricordarsi e riuscire a comporre il numero del pronto soccorso in caso qualcuno si fosse sentito male.
“Numero uno. April. L'ubriaca triste.”
Voltai la testa verso di lei.
“No, la verità è che vuoi lasciarmi solo perché non abbiamo ancora fatto sesso” stava piangendo a dirotto mentre parlava con Jackson e lui faceva del suo meglio per ignorare il suo momentaneo isterismo.
“Numero due. Meredith. L'ubriaca ballerina di lap dance.”
Era su un tavolo che ballava come una pazza mentre un suo amico - George, credo fosse il suo nome - ballava accanto a lei. O meglio, addosso a lei. Proprio in quel momento il fidanzato salì sul tavolo, alzandola di peso e facendola scendere di nuovo a terra, sollevando le proteste sia di lei che dei tre ragazzi che stavano sbavando guardandola.
“Numero tre. Mark. L'ubriaco che ci prova con qualunque cosa.”
“Sei davvero bellissima. Dovremmo definitivamente sentirci qualche volta.”
Corrugai la fronte, inclinando la testa di lato.
“Sta cercando di farsi lasciare il numero dalla nostra lampada da soggiorno?”
“Già. Ma, d'altra parte, lui ci prova sempre con qualunque cosa gli capiti troppo vicino, quindi forse non conta. Numero quattro. Alex e Izzie. Gli ubriachi incazzati.”
Li vidi urlarsi addosso, ma erano troppo lontani perché riuscissi a distinguere le loro parole sopra la musica assordante.
“Numero cinque. Jackson e Derek. Gli ubriachi gelosi.”
“Ehi, smettila di fissare la mia ragazza” Jackson spintonò Derek.
“No, tu smettila di fissare la mia” rispose allo spintone.
Poi entrambi si voltarono nella direzione opposta, trascinando le rispettive donne il più lontano possibile dall'altro.
“Numero sei. Addison. L'ubriaca allegra.”
“Cristina, sei così simpatica” le disse lei, ridendo come una pazza dal pavimento accanto a noi. Non mi ero nemmeno accorta che fosse lì fino a quel momento. In ogni caso, Cristina aveva ragione, non faceva altro che ridere.
“Numero sette. Teddy. L'ubriaca che vuole spassarsela.”
“Che intendi...”
Prima che potessi continuare una ragazza dai capelli biondo cenere mi si sedette sopra, passandomi una mano tra i capelli.
“Ciao. Derek dice che ti piacciono le ragazze. Vuoi darci dentro?”
Io avevo gli occhi sgranati e le mani alzate.
“Ehm, no, grazie lo stesso.”
Lei mi fece l'occhiolino.
“Sarà per la prossima volta.” Si alzò, andandosene.
“Come non detto. Ho capito da sola cosa intendevi.”
“Ed infine, numero otto, io e te. Noi abbiamo un vero motivo per bere, speriamo di dimenticarci qualcosa che ci è successo, ma ci rimane solo l'amaro in bocca quando capiamo che fingere che il problema non esiste, tristemente, non lo farà sparire nel nulla.”
“Cosa ti è successo?” chiesi piano.
Scrollò le spalle.
“Il mio ex ragazzo aveva dei problemi.”
“Che tipo di problemi?”
“Non ti conosco abbastanza bene per parlarne.”
Capii che era meglio non fare pressioni se non volevo giocarmi la possibilità che si aprisse mai con me.
“Allora, chi facciamo venire nella terza stanza?”
“Non lo so. Stasera ho conosciuto una sola persona che al momento non ha un appartamento in cui stare.”
“E sarebbe?” chiese, confusa dal fatto che a lei era evidentemente sfuggito.
“Ehi, Addison” richiamai l'attenzione della donna sul pavimento. “Vuoi venire a vivere qui con me e Cristina?”
Lei continuò a ridere.
“Certo. Ma da domani voglio un letto vero invece del pavimento.”
“Congratulazioni” mi disse Cristina, sollevando il bicchiere per farlo sbattere piano contro la mia bottiglia di birra ancora mezza piena. “Ci siamo trovare una coinquilina.”

Sentii qualcuno bussare.
“Sono pronta papà. Sto chiudendo la valigia adesso.”
Annuì distrattamente.
“Ho parlato al telefono con Jackson. Ne abbiamo discusso e alla fine mi ha convinto che sarebbe una buona idea lasciarvi andare a vivere insieme.”
“Oh. Davvero?” domandai, incredula. Guardai l'ora. “Devo andare se non voglio perdere l'aereo, ci sentiamo stasera per telefono, d'accordo?”
Ci furono dei saluti lacrimevoli, ma alla fine riuscii a salire sul taxi con un buon margine per non rischiare di far tardi al check in.
Mentre ero in macchina chiamai Jackson.
“Cosa gli hai detto per convincerlo?”
“Io?” finse innocenza. “Niente. Gli ho solo detto che ti avevo trovato un appartamento in cui vivere, con la mia amica Melody e la sua fidanzata. Ma tuo padre ha insistito perché andassimo a vivere insieme.”
Io risi, mio malgrado.
“Hai un'amica di nome Melody?”
“No. Ma sembrava davvero un nome da spogliarellista, quindi ho pensato che sarebbe stato perfetto per lo scopo.”
“Sono quasi in aeroporto. Ci vediamo stasera.”
“Certo.”

Il lavoro da cameriera era duro, ma niente in confronto a non avere alcun lavoro.
Presto imparai tutto quello che c'era da sapere su quel lavoro. Il primo mese fu il più difficile, ma una volta guadagnata la fiducia dei clienti abituali e le loro mance, tutto iniziò ad andare un po' meglio.
“Dovremmo proporre a Derek di fare qualcosa con quel palco.”
Sì, il padrone del posto era Derek. Era così che aveva conosciuto Meredith.
“Tipo?” mi chiese Cristina mentre mi aiutava a sistemare i tavoli prima della chiusura.
“Non lo so. Serate cabaret. O karaoke. Qualcosa che ci permetta di tirare un po' su i prezzi e che faccia venir voglia alla gente di bere.”
“Cabaret? Hanno chiamato gli anni '20. Rivogliono indietro le loro idee.”
Io risi.
“D'accordo. Niente cabaret. Ma se riusciamo a ripulirlo un po' potrebbe venirci fuori qualcosa di buono.”
“Sai, in realtà il karaoke non è una brutta idea. Insomma, sentir cantare qualcuno dei nostri clienti potrebbe davvero far venire a tutti voglia di bere.”
“Sono seria, Cristina.”
“Anch'io” si difese. “Ma se suggeriamo questa cosa a Derek obbligherà noi due a spazzare i tre cadaveri in versione polvere che ci sono lì sopra e togliere le tende del sipario, ci farà montare l'attrezzatura che ci obbligherà a scegliere. Credi davvero ne valga la pena?”
Ci pensai per qualche istante.
“Aspetta, ci sono. Cantiamo noi.”
“Io e te?”
“E Addison, Alex e April.”
“Ancora non vedo entrate nelle nostre tasche.”
“Se questo tipo di serate vanno bene Derek ci pagherà per cantare.”
“Senti, l'idea non è male. Ma hai mai sentito Alex cantare? Sembra che qualcuno stia cercando di uccidere una povera gallina. Ed April? La sua voce è irritante così com'è, senza che si metta ad usare il falsetto. E io non canto. Punto.”
Io guardai il vecchio palco per qualche momento.
“No, hai ragione. La maggior parte dell'incasso andrebbe comunque a Derek e noi dovremmo lavorare il doppio” sospirai. “Posso comunque pulirlo e togliere il sipario. Farebbe un'altra figura.”
“Accomodati pure. Ma sappi che non ti aiuterò.”

“Che ti è successo, Jackie? Hai una faccia” lo presi in giro con un sorriso.
Dopo un anno di convivenza eravamo diventati come fratello e sorella.
“April mi ha lasciato.”
Il sorriso sparì dalla mia faccia.
“E non la biasimo. Non possiamo più praticamente vederci. I miei genitori sono ovunque, in università, qui a casa nostra. Tu non hai ancora avuto una serata libera da quando sei in città e probabilmente non l'avrai fino alla laurea.”
“Questo è probabilmente perché mio padre ha chiesto ai tuoi di controllare ogni mia mossa. Ma se vuoi posso portarli da qualche parte e tu puoi vedere April. Tipo, all'opera. Sanno che tu odi andarci, quindi non avranno sospetti quando dirò loro che io invece la adoro e si offriranno volontari per portarmici.”
“Lascia stare Callie. Era da un po' che doveva succedere.”
“Mi dispiace” gli presi una mano. “Davvero.”
“Non preoccuparti. D'altra parte, mi farebbe piacere andare una sera all'opera. Vederti indossare un vestito elegante, cose del genere.”
Io risi, colpendolo scherzosamente su un braccio.
“Andiamo. Faremo tardi a scuola.”

Una volta tolta tutta la polvere e le pesanti tende rosse quel piccolo palco aveva un aspetto quasi presentabile.
C'erano delle prese per l'attrezzatura elettronica, e perfino un microfono che non funzionava più probabilmente da dopo gli anni Settanta.
Sentii la radio suonare le prime note di 'Over the Rainbow' ed alzai il volume mentre continuavo a ripulire la parete prima nascosta dal sipario.
Quasi senza accorgermene iniziai a canticchiare.
“Somewhere over the rainbow, skies are blue. And the dreams that you dare to dream really do come true.”
Già. Da qualche parte, ma di sicuro non lì. Non nella mia vita. Non in quel piccolo locale di Baltimora.
“Somewhere over the rainbow, bluebirds fly. Birds fly over the rainbow. Why then, oh why, can't I?”
“Sai cantare.”
Mi voltai di scatto.
“Cristina. Mi hai quasi fatto venire un infarto.”
“Sai cantare nel senso che potresti tirare giù una vetrata usando solo le tue corde vocali.”
“Adesso non esagerare. Però potremmo fare karaoke e far cantare i clienti. La gente pagherebbe per rendersi ridicola davanti ad altra gente.”
“Giusto. E sai per cosa pagherebbero di più? Vedere te che ti siedi davanti a loro con qualcosa di attillato addosso e canti una bella canzone su quanto sei sola e disperata.”
“No, dico sul serio. L'idea del karaoke non era del tutto da scartare. Dobbiamo solo capire come farci qualche soldo prima di proporla a Derek.”
Lei aveva quell'espressione in cui potevi praticamente vedere gli ingranaggi dentro la sua testa girare ad un milione di miglia all'ora. Poi, all'improvviso, quasi come se avesse avuto l'illuminazione che cercava, mi sorrise.
“Ok. Lascia che mi occupi io dell'albero di monete, Gatto.”
“Abbiamo un patto, Volpe.”

Ero felice.
Certo, era brutto che i miei genitori non sapessero la verità su una parte della mia vita, ma alla fine ero felice.
Stavo diventando una dottoressa nella migliore università del Paese. Era un sogno che si avverava, per il resto avrei trovato tempo.
“Sei pronta?”
“Certo.”
Mi prese per mano, aprendo la porta del ristorante per me.
“Allora, sei nervosa quanto me?”
“Un po', sì” confessai, con un sorriso. “Ridicolo se ci pensi, visto che abbiamo vissuto insieme per due anni.”
“Già. Ma un primo appuntamento rende sempre nervosi, suppongo.”
Io e Jackson avevamo deciso di uscire insieme perché ci volevamo bene. Lui sapeva tutto quello che c'era da sapere di me, e mi faceva sentire al sicuro. In due anni non mi aveva mai visto uscire con nessuno, così aveva deciso di farsi avanti e chiedermi di andare ad un appuntamento insieme a lui.
Ed io avevo accettato.
Forse entrambi lo stavamo facendo per far contenti i nostri genitori, ma era solo un primo appuntamento.
Niente di particolarmente importante.

Lavoravo lì da quasi cinque mesi quando organizzammo la nostra prima serata karaoke.
Fu circa verso le nove di sera in cui mi accorsi che la Volpe mi aveva teso una trappola, trasformandomi in Pinocchio, che crede che l'albero delle monete esista sul serio.
“Ti odio” le dissi a denti stretti.
“Sono solo pochi minuti. Sali lì sopra e falli secchi.”
“Sei una stronza egoista Cristina.”
“Sì, tesoro. È per questo che mi vuoi così tanto bene. Ora canta, gallina dalle uova d'oro.”
Mi ritrovai scaraventata sul palco, davanti ad un microfono. Sotto al palco Cristina, Addison e Meredith si erano prese una pausa solo per ascoltarmi, mentre April e Alex si occupavano di servire tutti i tavoli del locale.
Riconobbi la canzone dalla primissima nota. Cristina aveva in qualche modo messo le mani sul mio IPod.
Avrei ucciso quella donna. Ma iniziai comunque a cantare.
“I heard, that you settled down...”
Ok, quindi forse sì, avevo una bella voce. Ma le urla delle tre ragazze che mi incitavano erano un attimino oltre la linea.
Quando la canzone finì, al maggior parte dei clienti erano silenziosi. Vidi Cristina allontanarsi poco prima del finale e girare per i tavoli con un acquario per pesci vuoto. Quando scesi dal palco le tre traditrici se l'erano svignata. Jackson mi venne incontro, sorridendomi.
“Sei stata fantastica.”
Ricambiai il sorriso.
“Sei gentile, ma davvero non era niente di che.”
“Beh, allora posso solo immaginare cosa succede quando fai del tuo meglio.”
Io risi. Rimanemmo a parlare insieme per qualche istante, entrando nell'argomento preferito di Jackson. April. Finché mi decisi a fargli una domanda che avevo in testa da diverso tempo.
“I tuoi sono d'accordo che vi frequentiate? Insomma, lei non ha esattamente un albero genealogico di chirurghi come il tuo.”
“A dire la verità, me ne sono andato di casa perché i miei non volevano che la vedessi. Volevano organizzarmi un incontro con la figlia di un amico di famiglia o qualcosa del genere, ma io me ne sono andato. Mio nonno ha saputo tutta la storia. Harper è un uomo duro, ma ha un punto debole per le faccende di cuore. Lui ha perso l'amore della sua vita quando era molto giovane, mia nonna era la luce dei suoi occhi. Quindi ci ha comprato l'appartamento e si è offerto di pagare per i nostri studi. April ha rifiutato, ma da me non ha accettato un no. Ecco come riesco a frequentare la Hopkins.”
“Non hai mai pensato di assecondare i tuoi?”
“Oh, sì. Ci penso spesso. A cosa mi sarebbe successo se mio nonno non fosse stato l'uomo che è, e penso che sarei morto di fame. Ma se non fossi scappato, non avrei legato con lui così tanto. Anzi, probabilmente lui non avrebbe mai saputo la mia storia ed io non avrei mai saputo la sua.”
In quel momento, Cristina mi si presentò davanti, mostrandomi la boccia per pesci piena fino all'orlo di banconote che aveva in mano.
Mi ci volle un secondo per capire cosa era successo.
“Hai elemosinato usando la mia voce.”
“No. Abbiamo elemosinato usando la tua voce.”
Le presi la vaschetta dalle mani, soppesandola.
“Questi li prendo io. Dalla prossima magari dividiamo, se ti degni di avvertirmi.”

“Dove pensi che dovremmo andare?”
“Non lo so.”
“Per adesso credo che Seattle sarebbe la cosa migliore da fare. Abbiamo entrambi avuto un'offerta di lavoro lì.”
“Hai ragione” concordai. “Penso che i tuoi potrebbero avere qualcosa da dire a riguardo.”
“Chi se ne importa. Non voglio più fare quello che mi dicono loro. Facciamo quello che vogliamo fare io e te. Loro dovranno accettare le cose per quello che sono. Quindi dimmi, dove ti piacerebbe andare a lavorare dopo la laurea?”
Io gli sorrisi.
“Ovunque ci sia tu, Jackson.”
Lui ricambiò il sorriso, baciandomi.
Eravamo stati innamorati.
Forse non era così che erano iniziate le cose, ma ci eravamo innamorati. Ci volevamo bene. E quello rimase, anche quando ci rendemmo conto che non era quella la sensazione di cui la gente parlava quando parlava d'amore. La verità era che pensavamo di essere innamorati.
Anche dopo i primi mesi, quando capimmo che non ci amavamo davvero, preferimmo chiudere gli occhi e far finta di niente.
Avere qualcuno su cui contare era più facile che non avere nessuno.

“Oh, I wanna dance with somebody. I wanna feel the heat with somebody. Yeah, I wanna dance with somebody. With somebody who loves me.”
Stavo pulendo i tavoli del locale ormai deserto prima di chiudere e poter tornare a casa. Avevo già messo il cartello che specificava che il locale era chiuso, quindi non mi aspettavo di veder entrare qualcuno.
La radio stava trasmettendo una delle mie canzoni preferite di Withney, quindi mi ero messa a canticchiare mentre mi muovevo tra i tavoli a tempo di musica.
Fu quindi con grande imbarazzo che mi paralizzai quando, voltandomi, vidi una ragazza dai capelli biondi starsene in piedi vicino alla porta.
Schiarendomi la voce abbassai il volume della radio ad uno più consono.
“Siamo chiusi” sussurrai nel più totale imbarazzo.
Lei mi sorrise.
“Di solito questo non mi ferma.”
Corrugai la fronte.
“Mi scusi?”
Addison uscì dalla cucina in quel momento con la sua borsa in mano, pronta ad andarsene a casa, quando vide la ragazza alla porta.
“Arizona” la salutò, gettando la borsa sul bancone ed avvicinandosi per abbracciarla.
Cristina si affacciò dalla cucina.
“Ho sentito bene?”
Le due si scambiarono uno sguardo.
“Yang.”
“Robbins.”
“L'uniforme da cameriera continua a starti da schifo.”
“E tu fuori dall'università continui a sembrare uno dei bimbi sperduti fuori dall'isola che non c'è.”
Il suo sguardo si mosse per tutto il locale, prima di soffermarsi su di me.
“Questo posto sembra finalmente decente.”
“Ringraziamo Callie per questo” le fece presente Addison. “A proposito. Callie, questa è Arizona, viene con noi alla Hopkins.”
Sorrisi debolmente, incontrandola a metà strada per stringerle la mano.
“È un piacere conoscerti. Addison, Cristina, Meredith e April non la smettono di parlare di quanto tu sia perfetta. Hai rimesso a nuovo questo locale, riportato il vostro appartamento ad un livello di pulizia sanitariamente accettabile e a sentire loro canti meravigliosamente.”
Sminuii le sue parole con un gesto della mano.
“Sai come sono. Sempre ad esagerare.”
“Ne dubito” le sfuggì. Si guardò nuovamente attorno. “Era tanto che non venivo qui. Credo che passerò più spesso da adesso in poi.”
“Vedi qualcosa che ti piace?” la prese in giro Addison con una piccola gomitata.
“Andiamo, voglio guardare le repliche di Lost in televisione prima di andare a dormire. Callie, hai finito qui?” chiese Cristina.
“Sì. In cucina?”
“Tutto sistemato. Andiamo.”
“Vieni con noi? Ti offriamo una birra. A casa ce ne sono almeno due dozzine” propose Addison alla bionda.
“Certo, perché no? Teddy è con Meredith ed April, in ogni caso, quindi non ho molto da fare.”
“Aw, ti manca la tua amica del cuore?” la prese in giro Cristina indossando il giacchetto.
Lo squillo di un cellulare rubò la risposta che stava per uscire dalle labbra della donna coi capelli biondi. Era il mio. Lessi il nome sullo schermò, accettando la chiamata con titubanza, sperando che non fossero i miei.
“Aria?” mi voltai di spalle, cercando di mantenere parte della conversazione almeno un po' privata.
“Callie, dove sei?”
“Perché vuoi saperlo?”
“Si tratta di Erica. Dice di averti visto a Baltimora. A fare la cameriera in un bar o qualcosa del genere. Mamma e papà sono parecchio preoccupati, stanno litigando. Ma adesso lei è ripartita e non hanno idea di come trovarti.”
“Questa è una bugia. Se Carlos volesse trovarmi saprebbe come fare. Devo andare adesso. Tu prenditi cura di te, ok? Come se ci fossi ancora io a farlo.”
“Mi manchi” aveva dieci anni. I nostri genitori non erano spesso a casa, io ero l'unico punto di riferimento che aveva avuto crescendo. “Qui fa paura da quando non ci sei. Tutti stanno zitti e con me non parla nessuno. E non riesco a dormire.”
Strinsi il telefono con forza.
“Dove sei adesso?”
“Sono a letto. Ho preso il cordless senza che mamma e papà mi vedessero.”
“Chiudi gli occhi” sussurrai. “E immagina che io sia lì accanto a te.”
“Ok.”
Chiusi a mia volta gli occhi, immaginandomi su quel letto a proteggere la mia sorellina. Iniziai a cantare a bassa voce.
“Beth I hear you calling, but I can't come home right now. Me and the boys are playing, and we just can't find the sound. You say you feel so empty, that our house just ain't our home. I'm always somewhere else and you're always there alone. Beth I know you're lonely and I hope you'll be alright, 'cause me and the boys will be playing all night.”
Cantai saltando il ritornello della canzone ed ascoltando il suo respiro diventare sempre più lento finché si stabilizzò. Stava dormendo. Allontanai il cellulare dal mio orecchio, chiudendo la chiamata.
“Ora capisci che intendiamo quando diciamo che canta meravigliosamente?” sentii sussurrare Addison.
“Già. Posso capire da dove arriva l'idea.”

“Guarda quello.”
“Bello. Ma non è davvero il mio genere.”
Lui strinse la mia mano con la sua.
“Troppo rosa?”
“Troppo rosa” confermai, osservando il letto dalla vetrina. “Magari qualcosa di un po' più...sobrio.”
“E con sobrio intendi cupo.”
Lo colpii sul petto con le mani che avevamo intrecciate. Scoppiammo a ridere.
“Callie?”
Ci voltammo entrambi verso destra. Il mio sorriso sparì.
“Erica.”
“Ciao. Come stai?”
“Bene. Bene, tu?”
“Bene. Già” ci fu un momento imbarazzante in cui nessuna delle due trovò niente da dire. “Che maleducata. Questo è il mio fidanzato. Preston Burke.”
“Ci sposiamo il prossimo mese” si intromise lui.
Io gli sorrisi, stringendogli la mano.
“Jackson Avery” presentai Jackson ad Erica. “Il mio ragazzo” le sorrisi. “E così ti stai sposando?”
Annuì, forzando un sorriso.
“Bene. È una bella cosa. Sono molto felice per te.”
“Allora” si intromise Jackson cercando di allentare il silenzio carico di tensione. “Tu sei Erica, nel senso la ragazza del liceo?”
“Sì, io e Erica eravamo nella stessa classe.”
“No, intendevo, non è stata la tua prima ragazza?” chiese con tranquillità. Jackson era più a suo agio con la mia sessualità di quanto lo fossi io.
“Jackson sta scherzando, lo fa sempre. Gli piace prendermi in giro perché al liceo ho avuto una ragazza” mentii. “Tesoro, te l'ho detto un milione di volte, si chiamava Jane” inventai, cercando di non forzare Erica a dire niente che non volesse.
“Ah, beh, molte ragazze attraversano una fase di confusione, al liceo” fu l'unico commento di Burke.
“Oh, non sono confusa” chiarii con un sorriso. “Sono bisessuale. È stato un piacere conoscerti. Erica, è stato bello rivederti.”
Trascinai Jackson dentro il negozio di letti.
“Era necessario?” gli chiesi in maniera un po' agitata.
“Sì. Continuerò finché non ti sentirai a tuo agio con la cosa. Non dovresti vergognarti della persona che sei, Callie. Io sono fiero di te, di tutto ciò che sei.”
Sentii la rabbia dissiparsi, sostituita dall'affetto che avevo per il mio migliore amico. Gli sorrisi, avvicinandomi per baciarlo sulla guancia.
“Sei il fidanzato perfetto.”

Quando rientrai a casa, quella sera, c'era musica a tutto volume e diverse bottiglie vuote sul pavimento del soggiorno. E una ventina di persone dentro l'appartamento.
“Cristina, che diavolo sta succedendo?”
“Stiamo dando una festa” rispose, chiaramente ubriaca. “Per la fine del primo semestre di università.”
“Questi sono tutti i tuoi compagni di corso?”
“No. Solo i più divertenti” spiegò, ridendo.
“C'è qualcuno sobrio qui dentro?” chiesi, guardando Addison, che aveva di nuovo bevuto fino alla bisessualità, baciare Teddy sul divano, mentre Meredith e April ballavano con i rispettivi partner e Alex e Mark ci stavano provando con due gemelle.
“Io lo sono” arrivò una risposta dalle mie spalle.
Mi voltai.
“Ehi” le dissi con un sorriso. “Sei qui” la salutai con un bacio sulla guancia. Dopo un paio di volte l'imbarazzo per essermi fatta beccare a cantare mi era passato ed eravamo diventate amiche. Molto amiche. “E decisamente non sei sobria, Arizona” le feci sapere osservando il modo in cui teneva la testa piegata, qualcosa nei suoi occhi e nel modo in cui sorrideva.
Lei mise su un piccolo broncio.
“Cosa c'è?” chiesi gentilmente.
“Nessuno vuole ballare con me.”
“Questo perché fai pena” le comunicò Cristina.
Io la colpii piano su un braccio, allontanandola da noi.
“Andiamo. Ballo io con te.”
Ottenni l'effetto in cui avevo sperato. Il broncio sparì e tornò a sorridere.
Ballai con lei – o meglio, rimasi ferma mentre lei mi saltellava attorno – finché non fu abbastanza stanca per accettare di andare a dormire. La portai in camera mia, l'unica camera libera.
“E tu?” chiese, affondando la faccia nel cuscino.
“Aspetterò che tutti se ne vadano e dormirò sul divano.”
“Devi lavorare domani mattina. Hai bisogno di riposo.”
Mi sedetti sul letto, guardandola mentre chiudeva gli occhi e si lasciava andare al sonno.
“Anche Addison, visto che è domenica. Ma non credo che lei e Teddy si riposeranno stasera.”
“Addison e Teddy? Di nuovo? È la terza volta questo mese.”
Io risi. “La quinta. Credo che si piacciano sul serio” le accarezzai i capelli.
“Lo credo anche io. Adesso vieni a letto. C'è abbastanza spazio per sei persone, posso dormire qui senza metterti le mani addosso, prometto.”
“Non è di te che mi preoccupo.”
“Che vuoi dire?” chiese, sempre ad occhi chiusi.
“Niente” sussurrai. “Buonanotte” la baciai sulla fronte, facendo il giro del letto e stendendomi il più lontano possibile da lei.
“Buonanotte” arrivò la risposta borbottata.
La mattina dopo uscii in silenzio, andando a lavoro. Fu solo quando tornai a casa quel pomeriggio che notai che Arizona aveva lasciato la giacca nel nostro appartamento. La chiamai al cellulare.
“Ciao” rispose con incertezza.
“Ehi, ho la tua giacca.”
“Come?”
“La tua giacca” sembrava spaesata, timida, distante. “L'hai lasciata qui ieri sera.”
“Oh. La giacca. Certo.”
“Cosa c'è che non va?”
“Cosa? No, niente.”
“Arizona.”
Si schiarì la voce, esitando per un istante prima di rispondere.
“Abbiamo dormito insieme?”
“Sì” risposi senza pensare. Sgranai gli occhi appena capii cosa intendeva davvero. “Oh, no. No, no, no. Assolutamente no. Eri ubriaca, credi che me ne sarei approfittata?”
La sentii tirare un sospiro di sollievo.
“Grazie a Dio. Non me lo sarei perdonato se avessi dimenticato la nostra prima notte insieme.” Arrossii e sorrisi contemporaneamente.
“Voglio dire, non che ce ne sarà di sicuro una, eh” potevo praticamente percepire il suo imbarazzo anche attraverso il telefono.
“Posso riportartela domani mattina, accompagno Cristina in facoltà e se ci aspetti in un posto che lei conosce possiamo venire a restituirtela. E parlare del tuo lapsus freudiano.”
“Te ne sarei grata. Per la giacca.”
Sorrisi. “A domani, allora. Mandale un sms con l'ora e il posto.”
“Ok. Ciao. E, Callie? Spero davvero che prima o poi avremo una prima notte insieme.”
Io risi. “Ne riparliamo dopo il terzo appuntamento.”
“Terzo? Allora sarà meglio che mi dia una mossa ed organizzi il primo. Inizierò con il chiederti di uscire con me domani mattina quando saremo faccia a faccia.”
“Non vedo l'ora.”
Rimasi con un sorriso idiota in faccia fino alla mattina dopo, lunedì, quando arrivò il momento di accompagnare Cristina ed Addison. Arrivammo e la prima cosa che notai fu quanto era grande la facoltà. Un posto enorme. Dovevamo incontrare Arizona in giardino, in una delle panchine dove di solito studiavano tutte insieme.
Stavamo ridendo di Cristina che imitava la loro professoressa di biologia quando sentii Addison emettere un suono tra il disgustato e l'irritato.
“Cosa ci fanno insieme a lei?”
Io e Cristina seguimmo il suo sguardo. Il cuore mi sprofondò di almeno venti centimetri. E fu lì, più o meno, dove il mio stomaco lo digerì.
“Devo andare” saltai giù dalla panchina, ero seduta sulla spalliera con i piedi appoggiati sopra il vero ripiano. “Datele la giacca da parte mia” la porsi ad Addison, ma lei non la prese.
“Callie, sei qui perché volevate vedervi” disse lentamente, non capendo. “Avremmo potuto portargliela noi, ma vi siete messe d'accordo perché volevate stare qualche minuto insieme, giusto? Almeno, noi avevamo capitò così” guardò velocemente Cristina, altrettanto perplessa.
“Lei è la ragazza di Miami.”
“Arizona?” chiese perplessa Cristina.
“No” risposi, guardandola come se fosse impazzita. “Erica, è la ragazza di Miami.”
“Oh, questo sarà divertente” sussurrò Cristina.
Addison mi prese per le spalle.
“Respira. Sii forte. E passivo aggressiva, se ti è di aiuto.”
“Ok. Potrebbe esserlo. Consegno la giacca e me ne vado.”
“Bene. Adesso prenditi la ragazza che vuoi. Ed è meglio per te che tu abbia capito che parlavo di Arizona, se non vuoi che ti colpisca.”
Io sorrisi, mio malgrado. Quando mi voltai, erano a pochi passi da noi.
Erica si bloccò.
“Callie.”
“Vi conoscete?” chiese Arizona, avvicinandomisi.
“Credevo di sì, ma adesso non ne sono più così sicura” risposi tranquillamente, porgendole l'indumento che avevo in mano.
“Grazie” mi sorrise, prendendo la sua giacca con una mano ed afferrando la mia con l'altra, avvicinandomi a lei un po' di più.
“Ci vediamo stasera?”
Annuii, abbassandomi per baciarla sulla guancia. Lei afferrò il mio giacchetto con la mano che aveva libera dalla mia presa.
“Solo se passi al locale, però. Devo chiudere io, quindi stacco molto tardi e so che tu domani hai scuola, ok?”
“Certo.”
“Stai bene con la felpa della Hopkins” non riuscii a trattenermi. La vidi arrossire leggermente. “A stasera” le dissi, poi la baciai di nuovo sulla guancia, mi districai dalla sua presa sul mio giacchetto, e me ne andai con un sorriso idiota sulle labbra.

Ci trasferimmo a Seattle insieme. Vivere con lui ormai era una cosa che davo per scontata, dopo cinque anni di università.
Io e Jackson non ci eravamo posti troppe domande.
Mi ero limitata a vivere giorno dopo giorno pensando che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui sarei stata in grado di volare da sola. Ma quel giorno tardava ad arrivare ed io e lui ci volevamo bene.
Così rimanemmo insieme anche quando i nostri genitori non potevano più dire granché riguardo le nostre vite.
Trovammo un appartamento e ci sistemammo.
Sette anni dopo, quando diventammo chirurghi, vivevamo ancora in quello stesso appartamento, stavamo ancora insieme, ci volevamo ancora bene ed io aspettavo ancora il giorno in cui sarei riuscita a volare da sola.

“Cosa ci fa lei qui?”
“L'ha invitata Arizona. Stanno lavorando ad un progetto insieme e a quanto pare si comporta meno da stronza se lei la tratta come un'amica.”
“Addie, devo cantare stasera.”
“E allora? Fregatene. Non vedo dove è il problema, lei non ricambiava, chi se ne frega, meglio per te, visto che è una stronza.”
“Non ricambiava? Addison, è stata lei a provarci con me, ok? Giuro che un paio di volte ha provato a baciarmi e si è tirata indietro all'ultimo secondo. Non me lo sono immaginato, io le piacevo, era solo troppo codarda per ammetterlo.”
“Il punto è sempre lo stesso. Lei perde, tu vinci.”
Guardai il palco per un istante, poi le due bionde sedute ad un tavolo e poi di nuovo Addison.
“Bene. Allora ho qualcosa che vorrei proprio dirle, visto che deve comunque sentirmi cantare.”
Salii sul palco qualche minuto più tardi, quando April mi disse che era il mio turno. Parlammo velocemente, accordandoci su quello che avrebbe dovuto dire al microfono. Mi avvicinai al karaoke, mettendo in pausa la canzone e sedendomi al piano che, teoricamente era lì solo per bellezza.
“Molti di voi hanno già sentito cantare Callie, giusto?” ci fu qualche applauso ed un paio di fischi dai tavoli. Ok, sì, Cristina aveva ragione. Ero brava. “Stasera, invece del karaoke, ci canterà qualcosa che ha scritto lei stessa” ci furono molti più applausi e qualche incitamento. “Ok, allora iniziamo” mi disse, sorridendomi per incoraggiarmi.
Ero imbarazzata. E mi veniva da vomitare. Ma quella era la persona che volevo essere. Volevo avere la forza di fare l'imprevedibile e il coraggio di fare la cosa giusta. Iniziai a suonare.
“Two birds on a wire. One tries to fly away and the other watches him close from that wire. He says he wants to as well but he is a liar” enfatizzai l'ultima parola, gettando un'occhiata verso i tavoli al centro del locale. “I'll believe it all, there's nothing I won't understand. I'll believe it all, I won't let go of your hand” l'avevo scritta quasi subito dopo arrivata a Baltimora. Era solo uno sfogo, non pensavo che qualcuno l'avrebbe mai davvero sentita. “Two birds of a feather, say that they're always gonna stay together. But one's never going to let go of that wire, he says that he will but he's just a liar. Two birds on a wire. One tries to fly away and the other watches him close from that wire. He says he wants to as well but he is a liar” uno dei due, non sarebbe mai riuscito a volare. “Two birds on a wire. One tries to fly away and the other...” ma uno dei due, uno dei due c'era riuscito. Era riuscito a volare. E non si sarebbe guardato indietro.
Scesi dal palco mentre ancora sentivo gli applausi a tutto volume. L'espressione sul viso di Cristina letteralmente uccise il mio sorriso.
“Sei impazzita?”
“Abbassa la voce” corrugai la fronte. “Che c'è, non ti è piaciuta?”
“Dovevi cantare quella maledetta canzone sdolcinata che mette in risalto la tua voce.”
Scrollai le spalle.
“La farò la prossima volta, quale è il problema?”
“Non ci sarà una prossima volta, ok?”
Quello mi colse di sorpresa.
“Che vuoi dire?”
Inspirò, tentando di spiegarmelo con le parole giuste.
“Derek ha convinto un agente discografico a venirti ad ascoltare. Non te l'avevamo detto perché non volevamo che fossi nervosa. Ha chiesto un sacco di favori per darti un'occasione, e tu l'hai sprecata per vendicarti contro la tua cotta del liceo.”
Per un istante sentii il mondo crollarmi addosso. Mi sentii come se fossi stata al centro di un buco nero.
“Non l'ha rovinata.”
Ci voltammo entrambe verso sinistra.
“Miranda Bailey” si presentò. “Derek aveva ragione, la tua voce è splendida. Ma non sarebbe stata abbastanza in ogni caso.”
Le spalle di Cristina si abbassarono. Fu in quel momento che capii quanto aveva a cuore il mio futuro. Quanto le importava di me.
“Ma quello che ho sentito non è stata solo la tua voce. Hai scritto una canzone meravigliosa, questo è quello che ci serve al momento. Quindi se decidi di essere interessata alla carriera come cantautrice perché non vieni in studio domani e ne parliamo?” mi porse un biglietto da visita.
Io e Cristina la guardammo tornare a sedersi, poi ci scambiammo uno sguardo incredulo. Mi avvicinai e la abbracciai. Lei alzò una mano solo per darmi un piccolo colpetto sulla schiena.
“Non c'è di che.”

“Finalmente possiamo vedervi insieme, erano secoli che non venivate a trovarci.”
Io e Jackson ci scambiammo un sorriso veloce.
“Già” sussurrai.
“Beh, un brindisi ad entrambi i nostri bambini che sono finalmente due chirurghi” propose Cathrine. Mio padre la assecondò immediatamente.
“In realtà, volevamo parlarvi di qualcosa” si fece coraggio Jackson una volta passata l'euforia del brindisi.
“Di cosa?” chiese mia madre, versandosi dell'acqua.
Lui mi prese una mano, guardandomi. Io gli sorrisi, poi mi voltai verso i nostri quattro genitori e mi schiarii la voce.
“Io e Jackson ci sposiamo.”

“Ok, questo è folle. Hai diciannove anni e la tua faccia è su una rivista di musica. Quanto è forte questa cosa?”
“Sono solo tra le nuove scoperte. Potrei essere fuori dal giro in tre mesi” le feci notare.
“Oppure il tuo cd potrebbe essere nella top ten tra tre mesi” ribatté con un sorrisetto furbo.
Io mi bloccai ai piedi del letto e la guardai mentre sfogliava la rivista che aveva in mano.
“Eccolo qui. Vediamo un po'. Callie Torres, nome per intero Calliope. Wow. Sono alla prima riga ed ecco già qualcosa che non sapevo. Calliope è un nome sexy. Ti sta bene.”
Le afferrai le caviglie, tirandola verso di me. Lasciò andare la rivista quando mi stesi sopra di lei.
“Posso onestamente dire che sei la prima persona che me lo dice.”
Mi mise le mani tra i capelli, facendomi abbassare la testa per baciarmi.
“Devi andare in università, Arizona” le ricordai.
“E tu devi andare a lavoro. No, aspetta, non devi, perché non fai più la cameriera, perché ti hanno pagato migliaia di dollari per incidere un cd.”
Roteai gli occhi.
“Il primo e l'ultimo, vedrai. Sono un mito costruito sul niente. Ancora il cd nemmeno esiste. E quando si renderanno conto che sono solo una decina di canzoni su una ragazza che ama un'altra ragazza e di come il mondo faccia schifo per non accettarlo tanto quanto dovrebbe, mi dimenticheranno più in fretta di quanto si possa dire 'fama'.”
“Solo? Calliope, non ti permettere” disse con tono serio. “Stai cercando di cambiare le cose, qui. Di rendere il mondo migliore, facendoti strada nel cuore della gente a suon di canzoni per dire loro quanto l'odio sia sbagliato. Lo trovo meraviglioso.”
La zittii con un bacio, intrecciando le dita di una delle mie mani con le sue e premendole contro il letto, poco più in alto della sua testa.
“Che fine ha fatto la regola del terzo appuntamento?” chiese con un sorrisetto che percepii ad occhi chiusi.
“Oh, c'è ancora. Non provare nemmeno ad imbrogliare te stessa credendo che me ne sia dimenticata. E, come ho detto, devi andare a lezione.”
“Allora togliti da sopra di me.”
“Tu togliti da sotto di me.”
“Questa frase non ha una coerenza logica.”
“La prossima volta che non vuoi fare tardi a lezione non dormire qui.”
“Questa invece non è attinente alla conversazione che stiamo avendo al momento.”
“Non stiamo avendo una conversazione, al momento. Tu stai parlando mentre io ti bacio sul collo.”
Sospirò. “Posso fare tardi a lezione per una volta.”
“No. Mi rifiuto di avere una cattiva influenza su di te. Alzati, ti ho preparato il caffè e dei pancake.”
Quella sera Cristina ed Addison insistettero per dare una festa in onore del cd che avrei iniziato ad incidere la settimana successiva.
Ero seduta sul divano, le gambe di Arizona di traverso sulle mie, le sue braccia attorno al mio collo.
“Siamo praticamente circondate dalla nebbia” sussurrai. “C'è più fumo che ad un concerto di Lady Gaga.”
Lei rise. “Una cantante in una stanza piena di fumo, non sembra fuori dalla media.”
“Oh, quindi diventerò come tutti gli altri? Droga, alcol, sesso e poco più?”
“Se vuoi drogarti dovrai passare sul mio cadavere, se bevi io devo essere presente e l'unica persona con cui puoi fare sesso sono io” mi fece sapere prima di baciarmi.
“Lunedì inizio ad incidere e per adesso ho finito di scrivere solo una canzone. Che parla di due uccelli. Questa storia finirà prima di poter iniziare, vedrai.”
“Che succede se non ce la fai?”
Scrollai le spalle.
“Mi danno delle canzoni che hanno scritto loro. Ne ho ascoltate un paio. Fanno davvero parecchio schifo.”
Lei rise.
“Beh, sappi che io sarò lì per il tuo primo concerto. E che sarò al tuo fianco quando deciderai che è arrivato il momento di fare l'ultimo.”
Sorrisi.
“Davvero?”
“Davvero. Te lo prometto” mi guardò negli occhi con serietà. Era una bella promessa. “Vuoi andare in camera tua? Qui c'è un odore strano.”
“Già. Di vino e profumo da due soldi” concordai. “Aspetta. Eccola qui.”
“Cosa?”
“La canzone.”
Fu il primo singolo rilasciato dal mio album circa un mese dopo. E l'avevo scritta grazie a lei.
“A singer in a smoky room, the smell of wine and cheap perfume. For a smile they can share the night, it goes on and on and on and on.”
Spensi la radio.
“No, che fai? Mi piace questa canzone” Cristina riaccese lo stereo.
“La trasmettono ovunque. Di continuo. Mi tormenta.”
“Perché l'hai scritta tu” mi fece notare. “Mio stereo, mia macchina, si ascolta quello che voglio io.”
“Non vedo l'ora di essere a casa. Lì nessuno mi ricorderà quanto sono nei casini. Il mio cd da dieci canzoni ha solo, tipo, sei canzoni, e la prossima settimana devo incidere il resto. Faccio schifo in questo lavoro.”
“Certo. È per questo che la tua voce è ovunque e ti perseguita. Chiaramente, tutti pensano esattamente che fai super mega schifo.”
Volevo mettermi a scrivere appena arrivata a casa. E lo avrei fatto. Se Addison non avesse organizzato una festa per il rilascio del primo singolo. Adesso tutti sapevano davvero come cantavo, invece di ripetere quello che la mia agente aveva detto a tutti di scrivere nelle loro 'stupide riviste per bambine' come le aveva chiamate lei.
Non ero lì nemmeno da dieci minuti quando qualcuno mi prese per mano, trascinandomi verso la porta.
“Arizona, che stai...”
“Aspetta e vedrai.”
Un quarto d'ora ed un viaggio in taxi dopo, eravamo nel suo appartamento. Mi portò un blocco ed una penna.
“Mettiti a scrivere. Ti mancano quattro canzoni e non si scriveranno da sole.”
Io le sorrisi. “Ti ringrazio. In quel casino non avrei combinato un bel niente.”
“Lo so” ricambiò il sorriso, baciandomi velocemente prima di sedersi accanto a me.

“Ok, questo è folle. Hai trentadue anni e la tua faccia è su una rivista di medicina. Quanto è forte questa cosa?”
“Sono a margine. Il mio nome non si legge nemmeno. A nessuno interessa il fatto che ho creato cartilagine dal nulla, Jackson.”
“A me interessa. Questa cosa salverà milioni di vite.”
“Ci ho pensato a lungo. Voglio passare la fase di sperimentazione della ricerca a qualcun altro.”
“Sei impazzita?”
“No. Ma questa ricerca è davvero importante. Ed è perfetta, lo so che detto da me sembra che mi stia solo vantando, ma lo è davvero. Cambierà la vita ad un sacco di persone, è il tipo di ricerca...”
“...che ti fa vincere un Harper Avery.”
Mi morsi la lingua.
“Mi dispiace.”
“E tu non lo vincerai perché sei sposata con suo nipote. Quindi vuoi togliere il tuo nome da lì sopra.”
“Non è colpa tua, Jackson.”
“No. Eppure lo è.”
“Senti, il mio sogno era diventare un chirurgo. Salvare delle vite, cambiare delle vite. E così posso farlo. Non mi interessa se non vinco premi per questo, o se devo passare la mia ricerca a qualcun altro. Sono felice.”
“Dici davvero?”
“Certo. Questa è la vita che volevo.”

“Questa non è la vita che volevo.”
Corrugò la fronte, guardandomi, sbalordita.
“I soldi, essere famosa, incidere un cd. Questa non era la vita che volevo. Volevo fare il chirurgo, in realtà. Solo quello. Qualcosa di importante, che aiutasse le persone.”
Appoggiò una mano sulla mia schiena.
“Sono felice che non sia successo, però. Chissà dove sarei adesso.”
“Magari saresti stata il miglior chirurgo del mondo” mi disse piano.
“Forse” le detti ragione. “Ma sarei stata senza di te. Quindi di sicuro non sarei stata così felice.”
Mi sorrise dolcemente quando mi voltai per guardarla negli occhi.
“Ti amo, Arizona.”
“Lo so” mi rassicurò. “Ti amo anche io.”
Appoggiai la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi.
“Sarà sempre così?” chiese piano. “Saremo sempre un segreto?”
“Lo sto facendo per te” le ricordai. “Non è che non si capisca dai miei cd che sto con una donna, no? Ma non voglio fotografi che ti pedinano in università, o al tuo appartamento, a casa dei tuoi genitori.”
“No, lo so. E hai ragione. Ma alcune volte vorrei poter tenere la tua mano anche fuori da qui.”
“Anche io, credimi.”
Un paio di volte erano uscite su delle riviste foto di me insieme ad una ragazza dai capelli biondi sempre poco riconoscibile. Nessuno aveva ancora capito di chi si trattasse ed io li avrei lasciati continuare a sparare nomi a caso.
“La prossima settimana parti per il tuo prossimo tour.”
“Già.”
“Se mi tradisci ti lascio.”
“Lo so. Stessa cosa per me.”
Entrambe ridemmo. Poi mi fece alzare la testa dalla sua spalla per guardarmi negli occhi.
Ogni volta che ero partita per un tour negli ultimi tre anni e mezzo, quello era il modo in cui mi aveva guardato. Con nient'altro che amore, ed una promessa di aspettare per me.
Ed ogni volta l'aveva mantenuta.

“Bene.”
“Perfetto.”
“Mi fa piacere che siamo d'accordo su questa cosa.”
“Già.”
“Ad essere sincero ero un po' nervoso al pensiero di parlartene. Non sapevo se era qualcosa che volevi anche tu.”
“No, certo. Assolutamente.”
“Ok. Allora, che dovremmo fare adesso?”
“Vuoi iniziare da subito?”
“Ok” scrollò le spalle, avvicinandosi.
Io risi, allontanandolo con una mano sul petto.
“Non in quel senso. Intendevo, da oggi.”
“Oh. Beh, credo di sì.”
“Va bene. Smetto di prendere la pillola e dalla prossima settimana possiamo iniziare a provare.”
Mi rivolse un sorriso smagliante.
“Inizierò a cercare una culla.”
Risi, scuotendo la testa.
“Non sono nemmeno incinta, ancora.”
“No, ma mi ci vorranno secoli per riuscire a montarla.”

Una volta lontana da casa, quando ero in tour e non dovevo scrivere canzoni, quella sembrava l'unica cosa che ero in grado di fare.
La Bailey origliò per sbaglio mentre la canticchiavo e mi disse che l'avrei cantata durante un'intervista che dovevo fare a Los Angeles. Ero via da casa da cinque settimane, ormai. La sentivo ogni sera al telefono, ma non era la stessa cosa.
“Well it’s good to hear your voice, I hope you’re doing fine. And if you ever wonder, I’m lonely here tonight.” Ripensai a quando mi aveva detto che se l'avessi tradita mi avrebbe ucciso. Mi mancava così tanto. “I’m lost here in this moment and time keeps slipping by. And if I could have just one wish, I’d have you by my side. And I love you more than I did before, and if today I won’t see your face nothing’s changed. No one can take your place, it gets harder every day. Say you love me more than you did before and I’m sorry it’s this way. But I’m coming home, I’ll be coming home. And if you’ll ask me I will stay. I will stay” chiusi gli occhi e vidi i suoi. Non mi piaceva non averla accanto. Non che non mi stessi divertendo in tour, i concerti mi facevano battere il cuore e firmare autografi mi sembrava ancora particolarmente strano. Mi piaceva cantare, ma lei mi mancava da morire. “I never wanna lose you. And if I had to, I would chose you. You’re the one that I hold on to, 'cause my heart would stop without you.”
Certo che avrei scelto lei. Se un giorno mi avesse chiesto di scegliere, avrei scelto lei in un batter d'occhio. Ma per il momento, la musica mi rendeva felice quasi quanto lei.
“Dopodomani è l'ultima tappa” le dissi. “Miami. E poi sono a casa.”
“Credevo che Miami fosse casa tua.”
“Nah. Baltimora è casa mia.”
“Scusa, non riesco a sentirti sopra il rumore delle tue bugie.”
Arrossii. Ogni volta riusciva a capirlo.
“Tu sei casa mia” confessai semplicemente.
“Ti amo così tanto, Calliope.”
“Ti amo anch'io. Ci vediamo tra tre, massimo quattro giorni, ok?”
“Ciao, amore.”
Quelle ultime due parole mi scaldarono il cuore.
Così presi un aereo e mi presentai a casa sua quella sera stessa. Sarei potuta rimanere poco, ma era pur sempre meglio di niente. Bussai alla porta sorridendo. Lei mi aprì con gli occhi rossi.
“Credevo stessi andando a Miami.”
Corrugai la fronte.
“Cosa è successo?”
Mi fece entrare, porgendomi una rivista, la chiara causa delle sue recenti lacrime.
Callie Torres ai primi scandali. Svelata l'identità della fidanzata?
Però nella foto non c'era lei.
“Stronzate. Arizona, questa foto è tipo di tre anni fa. Eri lì anche tu.”
“Sì? Perché nella foto io non ci sono.”
“Eri con Addison a prendere i caffè al bancone. Era la mattina prima che Teddy partisse per andare dai suoi a Natale, mi avevi praticamente costretto a venire insieme a voi” ricordai, incredula riguardo le sue lacrime. “Non puoi arrabbiarti per una foto di me ed Erica che parliamo. Lei è amica tua, non mia.”
“Se la foto è vecchia, come mai qualcuno ha fatto una foto a te? Pensi che abbiano preso una persona a caso da fotografare?”
“No, l'ha scattata Teddy. Davvero non ti ricordi?”
“Quindi adesso la mia migliore amica diffonde foto della mia ragazza che mi tradisce?”
La guardai, semplicemente sbigottita.
“In che modo, in questa foto, ti sto tradendo?” le sventolai la rivista davanti agli occhi. “Non ci stiamo nemmeno toccando. Lei guarda me ed io guardo alle spalle dell'obbiettivo, dove tu eri in fila per i nostri caffè.”
“Certo. Di sicuro.”
“Fantastico. Meraviglioso. Sai, devo viaggiare tutta la notte in treno per essere lì in tempo per le prove, ma pensavo che per vederti per qualcosa come sedici minuti ne sarebbe valsa la pena. Bei sedici minuti, una lite in cui credi a una rivista invece che a me” lanciai la rivista senza grazia sul divano e mi diressi verso la porta.
In treno indossai un cappellino e degli occhiali da sole per non farmi riconoscere.
E, di nuovo senza volerlo, mi ritrovai a scrivere.
“Dove diavolo sei?”
“Calma, Bailey. Sto arrivando in treno.”
“Te la sei svignata perché volevi prendere il treno?”
“Già. Sembra che lo abbia fatto” sussurrai, pensando che era l'unica cosa che avevo ottenuto.
“Senti, vedi di arrivare in forma perché ci hanno appena offerto di trasmettere il concerto in diretta tv, quindi ci serve una nuova canzone. Magari una un po' deprimente.”
“Vedrò che posso fare” sussurrai, chiudendo la conversazione.
Fantastico, pensai. Il concerto a Miami sarebbe stato per forza rimandato di almeno una settimana per poter organizzare la diretta televisiva. E in quella settimana nessuna notizia da lei.

“Non capisco perché.”
“Capita e basta, Callie.”
“Non capisco perché a noi” cercai di smettere di piangere.
Lui mi abbracciò.
“Abbiamo provato solo per qualche mese. Forse è ancora presto per dirlo. Anche la dottoressa...”
“Non mi piace quella Montgomery” tirai su con il naso.
“Anche lei ha detto che potrebbe volerci più tempo perché tu rimanga incinta” terminò.
La conoscevamo a malapena. Perché dovevamo fidarci di lei?
Onestamente, non sapevo neanche perché stavo piangendo. Non volevo un bambino così tanto da disperarmi a riguardo, eppure ero lì a piangere come una ragazzina che viene mollata dal primo fidanzatino.
Avrei voluto fare tutto tranne che piangere, in realtà.
Volevo alzarmi ed urlare, volevo arrabbiarmi con me stessa e mi sentivo stupida, così stupida, per essere finita in quel posto, in quella relazione, in quel matrimonio.
Invece continuai a piangere, lasciando che lui mi abbracciasse.

Andava ogni volta a finire su quel fronte e francamente ero stufa di ripetere 'no comment'.
“Recentemente è uscito un articolo che parla di una sua relazione. Conferma ciò che è stato scritto?”
Mi avvicinai al microfono.
“Assolutamente no. La donna della fotografia ed io abbiamo delle amicizie in comune. Questo è tutto.”
“Quindi lei non è impegnata?”
“Non ho detto questo.”
“Quindi sta vedendo qualcuno?”
“Ci sono domande attinenti alla mia musica? No? Nessuno? Perfetto. Questa conferenza stampa è terminata. Vi ringrazio per il vostro tempo.”
Quella sera salii sul palco con un nodo in gola. Fino all'ultimo istante avevo sperato che il cellulare squillasse. Ma lei non aveva chiamato.
Quando si arrivò al gran finale mi presi un attimo di tempo per raccogliere i miei pensieri.
Qualche anno prima, mia madre mi aveva detto che non sarei andata in Paradiso a causa del fatto che mi piacevano le ragazze. La prima volta che avevo baciato Arizona, avevo pensato che forse potevo rinunciare al Paradiso se quello era ciò che avevo in cambio. Poi ho capito che non dovevo rinunciarci, perché lei era il mio Paradiso. Così avevo pregato che potessimo stare insieme, ma lei era perfetta, quindi era stato come sperare che piovesse in mezzo al deserto.
Era triste pensare che mi sarebbe mancata ogni giorno per il resto della mia vita.
“C'è una persona, lì fuori, da qualche parte. Spero che mi stia guardando, perché questa canzone parla di lei.”
Ci siamo, pensai. Ecco che arriva il niente.
“A drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert” tristemente, era quella la verità. E non è che prima non mi fosse mai venuto il dubbio. Lei era quasi troppo perfetta per essere vera. Io e lei non saremmo potute finire insieme. Ma avevo sperato che succedesse ogni giorno dal momento in cui l'avevo conosciuta. “But I'm holding you closer than most, 'cause you are my heaven.”
Speravo che quella canzone dicesse tutto. Tutto quello che non ero riuscita a dirle, neanche quando avrei potuto, tutto quello che le avevo detto e tutto quello che sapeva senza bisogno di una sola parola.
“I don't wanna waste the weekend, if you don't love me, pretend. A few more hours, then it's time to go” nel nostro caso non si era trattato di un week end, ma di sedici minuti. Ma quello rendeva comunque bene l'idea. “And as my train rolls down the East coast” avevo iniziato a scriverla quella notte in treno. “I wonder how you keep warm. It's too late to cry, too broken to move on.”
Avevo scoperto che Teddy non c'entrava con la pubblicazione della foto. L'aveva messa su facebook un anno prima e qualche maniaco l'aveva spedita a un giornale in cambio di un migliaio di dollari.
“Misplaced trust and old friends, never counting regrets, by the grace of God, I do not rest at all. The last excuse that I'll claim, I was a girl who loved a woman like a little girl.”
Lei era la prima donna che avevo amato. Era l'unica donna che avevo amato. E il fatto che potesse dubitarne mi rattristava più di quanto mi faceva arrabbiare.
“Still I can't let you be, most nights I hardly sleep, don't take what you don't need, from me. Just a drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert. But I'm holding you closer than most, 'cause you are my...Heaven doesn't seem far away anymore now, no. Heaven doesn't seem far away.”
Non credevo più a quello che mi aveva detto mia madre. Non da quando avevo capito cos'era davvero il Paradiso. Quel posto in cui nessuno può farti male, quel posto in cui ogni cosa è giusta e tutto è come dovrebbe essere. Ed io quel posto lo avevo già trovato. E continuavo a trovarlo ancora e ancora, ogni volta che ero insieme a lei.
“A drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert. But I'm holding you closer than most, 'cause you are my heaven. You are my heaven.”

“Hai preso questa cosa del bambino parecchio peggio di quanto avevo pensato.”
La sua voce mi fece sobbalzare. Mi voltai verso l'entrata del laboratorio.
“Jackson. Da quanto sei qui?”
“Qualche minuto. Ti stavo guardando lavorare. Non hai fatto altro per due settimane, ormai, e sto iniziando a preoccuparmi.”
“Non dovresti. È tornato tutto a com'era prima. Pensavo che sarebbe stato più semplice per te, in questo modo.”
Ci rifletté un momento.
“Cosa sarebbe dovuto essere più semplice per me nel fatto che praticamente non torni più a casa?”
Scrollai le spalle.
“Tradirmi” spiegai semplicemente.
Vidi la sua espressione praticamente precipitare mentre deglutiva in modo strano.
“Credevi che non sapessi che hai ricominciato a vedere April?”
Mi voltai, continuando ad occuparmi della ricerca sulla cartilagine.
“Non importa, Jackie. Va bene così, è così che le cose devono essere. Lei è innamorata di te. Io non lo sono. Se puoi essere felice, probabilmente dovresti provarci. Io lo farei, se fossi in te. Avrei solo voluto che me lo avessi detto.”
Mi sfilai i guanti.
“Credevo avessi mollato la ricerca.”
“Quando avrai firmato le carte per il divorzio e non sarò più tua moglie, il mio nome sarà il primo sulla lista del Harper Avery, vedrai. Sai come funzionano queste cose. Tuo padre non vorrà che si venga a sapere chi ha tradito chi, chi ha lasciato chi, lo sai, Jackson. D'altronde, sei cresciuto nella tua famiglia, dovresti esserci abituato.”
“Stai...Stai dicendo che lo sapevi dall'inizio e lo tiri fuori adesso perché divorziando col tempismo giusto il tuo nome finirà su quella lista, se lo chiedo a mio padre?”
“Non ce ne sarà bisogno. Lo farà senza che tu dica una parola. Credi che non abbia sempre saputo che l'unico motivo per cui io e te stavamo insieme era perché mio padre e tuo padre volevano questo?”
“Io ti amavo.”
“Non è vero. Tu mi volevi bene” lo corressi, con tono statico. “Ma non mi amavi. Non l'hai mai fatto.”
“Callie, mi dispiace così tanto, ma vendicarti rubando un premio non...”
“Non sto rubando niente, Jackson. Ti ho solo detto, stai a guardare. Se tra sei mesi non ho vinto, hai ragione tu ed il mondo è un posto bello e pieno di unicorni e arcobaleni. Ma, te lo garantisco, sarò su quella lista. Se c'è una cosa che ho imparato dalla mia vita è che l'apparenza è l'unica cosa che conta davvero. Tuo padre lo sa meglio di chiunque altro al mondo, e vedrai fino a che punto si spingerà per mantenerla.”
“Quindi aspetterai e basta?”
“No. Nel frattempo devo scrivere il discorso con cui rifiuto il premio in quanto lo ritengo una mazzetta per non distruggerti con il divorzio, visto che non abbiamo un accordo prematrimoniale e mi hai tradito. Andrò a fondo con stile, Jackie. E tuo padre verrà giù con me.”
“Perché?”
“Perché se lui e mio padre non si fossero messi d'accordo per farci conoscere e 'sistemare' le cose, io avrei detto la verità ai miei genitori e tu saresti rimasto insieme ad April fin dall'inizio.”
Fu solo allora che capì.
“Non può proteggere la nostra credibilità quando non avremo più credibilità.”
“Tu ed April siete destinati a stare insieme, Jackie. Dille questo, ok? E lascia che mi occupi io del resto. Come ho detto, andrò giù in grande stile.”

Dopo un attimo di silenzio assoluto riecheggiarono le urla degli spettatori, insieme ai loro applausi. La canzone era piaciuta.

Chiusi gli occhi per riuscire a non piangere e mi voltai, uscendo dal palco.
“Sei stata incredibile. Gli ascolti sono stati spettacolari” mi aggiornò Bailey riguardo la diretta televisiva.
“Bene.”
“Non sembri eccessivamente felice.”
“Lo sono. Scoppio di felicità. Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Se c'è una sola dannata cosa che la mia vita mi ha insegnato è che non c'è niente che conti meno delle apparenze.”
Mi fermò, afferrandomi per un braccio.
“Si tratta della piccola principessina, vero?”
“Non chiamarla così, Bailey. Sai che lo odia” inspirai. “Non ha più chiamato da quando ha visto l'articolo. Per quasi quattro anni l'ho sentita tutti i giorni e adesso è sparita nel nulla per più di una settimana. Ed ho paura che sia finita. Tipo, sul serio. E la cosa peggiore è che non è colpa sua, ma non è nemmeno colpa mia. Teddy ha fatto la foto, l'ha messa sul suo profilo, ma non è di certo neanche colpa sua, come poteva immaginarlo? Ma anche chi ha venduto la foto ai giornali, e gli editori che l'hanno pubblicata, come potevano saperlo? Non è colpa di nessuno. Sono solo cose che succedono. È solo, difficile, sai?”
“Già. Lo so. Guardati, Callie. Sei...” mosse le mani davanti a me dall'alto verso il basso e poi le scosse da sinistra verso destra. “Cresciuta. Sei una donna matura. Prima che te ne accorga sarai invecchiata. E pensare che sembra ieri quando ti ho sentito cantare in quel locale. Sono così fiera di te.”
“Aw, Bailey. Vuoi un abbraccio?” offrii, allargando le braccia.
La sua espressione si indurì.
“Cosa? No. Tieni le mani lontano da me.”
Io la ignorai, abbracciandola.
“Sono tipo una sorella per te, non è vero? Non ti crederò se mi dici che sono solo un'altra cliente, quindi assecondami e lasciami sognare.”
La percepii sorridere. Ricambiò l'abbraccio.
“Sei un pochino più importante degli altri. E forse una volta o due sei stata tipo una sorella per me, ma questo è quanto. Ora lasciami andare e cambiati. Tra meno di mezz'ora hai una conferenza stampa.”
“Ai tuoi ordini, Bailey.”
Entrai in camerino, guardandomi allo specchio. Due settimane prima la mia vita era praticamente perfetta. Come poteva essere tutto rovinato da una fotografia su una rivista di gossip? Appoggiai le mani sul ripiano davanti allo specchio, chiudendo gli occhi e cercando di non piangere. Ci avrebbe ripensato. Avrebbe capito di aver esagerato e sarebbe tornata da me.
Fu pensando questo che due giorni dopo entrai nel suo appartamento con la chiave che mi aveva dato.
Era vuoto.
Aveva preso tutta la sua roba e accettato un posto per la specializzazione chissà dove, lasciandomi indietro.
Avevo chiamato. Le sue scuse mi erano sembrate ridicole.
È troppo difficile. Dovresti vivere in pieno questo essere famosa. La canzone era bellissima. È meglio se non ci sentiamo. Comunque ti amo.
Ma se mi avesse amato sarebbe stata ancora al mio fianco.
“Ti auguro tutta la felicità del mondo” le dissi.
Risi amaramente, chiudendo la conversazione e la mia vita con lei semplicemente schiacciando un pulsante.
Quando Erica mi aveva voltato le spalle le avevo detto che se ne sarebbe pentita, mentre ad Arizona avevo detto quello. Il motivo era semplice, in realtà. Arizona se la sarebbe cavata molto meglio senza di me. Quello era il motivo per cui mi aveva lasciato. Non potevo biasimarla, perché ci vedevamo per un paio di mesi e poi io sparivo per almeno sei, lei doveva frequentare l'università ed io avevo firmato un contratto dopo l'altro. Avevamo due vite troppo poco compatibili, ma non era questo il motivo. Il motivo era che lei sarebbe stata felice comunque. E quindi io ero d'accordo sul fatto che avrei dovuto farmi da parte.
Fu qualche notte dopo, quando il liquore nel mio organismo aveva inibito le mie paure che mi ero finalmente sentita in grado di lasciarle un messaggio in segreteria. Anche se avrei preferito parlarle di persona.
“Non rimpiango niente. Neanche un attimo. Perché per quanto quello che sento adesso sia come stare in piedi in mezzo al fuoco, ho saputo anche cosa si prova a stare nel posto più felice dell'universo. Con te. E ovunque tu sia adesso questo non cambia, nessuno potrà mai portarmelo via. È davvero come dicono, meglio aver amato e perduto che non aver amato mai. Perché almeno ti ho conosciuto.”
Sentii un beep. Il tempo a mia disposizione era finito. Composi di nuovo il numero, lasciandone un secondo. Parlai velocemente per farmi bastare quei due minuti che avevo a disposizione.
“Mi mancherai. Tutto qui. Tipo, mi mancherai davvero. Ogni momento di ogni singolo giorno, per un sacco di tempo. Finché, un giorno, mi sveglierò e tu sarai sparita. E inizierò a vivere con la mia cicatrice. Non mi accorgerò più nemmeno che non ci sei. E allora tutto l'amore, tutto il dolore, tutto quanto, sarà stato invano. Tutto ciò che adesso mi sembra così grande e infinito, sarà sparito nel nulla” ripresi fiato. “Mi mancherai tanto che mi sentirò morire, finché un giorno non mi mancherai più. E non so ancora cosa mi faccia più paura tra le due cose. Ma so che in entrambi i casi non sarà la cosa giusta. Non se non sarai qui.”
Riattaccai. E ricominciai a bere dalla bottiglia di whisky che avevo in mano.

Salii sul palco con un sorriso sulle labbra, nonostante avessi la morte nel cuore.
L'uomo col completo mi fece segno di avvicinarmi al microfono. Così lo feci, accettando il premio che mi stava porgendo.
“Cavolo. D'accordo, sto tenendo in mano un Harper Avery, ho bisogno di un attimo per registrare questa sensazione” scherzai.
Sentii qualche risata dal pubblico.
Avevo vinto il premio che era stata invece negato ad un certo Preston Burke. Non avevo mai sentito il suo nome, quindi non poteva aver fatto niente di troppo importante, no?
“No, ma seriamente, non posso dire di essere sorpresa” ci fu qualche altra risata.
Aspettai qualche momento che ci fosse silenzio, poi ripresi a parlare senza traccia di divertimento nella voce.
“No, dico sul serio, non sono affatto stupita. Sapete perché? Perché sto tenendo in mano l'oggetto con cui il signor Avery, figlio di Harper” incontrai il suo sguardo facilmente, visto che era seduto in prima fila “sta cercando di corrompermi, in modo che quando divorzierò da suo figlio non mi prenda metà del suo patrimonio di famiglia. Beh, mio carissimo signor Avery, sono onorata di essere l'oggetto della sua corruzione, quest'anno, ma per quanto mi riguarda da quando suo padre è venuto a mancare questa cerimonia si è trasformata in una pagliacciata, e questo premio ultimamente viene sempre assegnato al miglior offerente, non è così? Mi dispiace ma io non mi farò comprare. Non voglio questo premio, e non voglio neanche un centesimo dalla sua famiglia. La lascio a cercare un modo per distruggere la mia carriera e la mia vita, adesso” dissi, allontanandomi dal microfono e lasciando la statuetta nelle mani dell'annunciatore, che aveva sul viso un'espressione di impagabile meraviglia.

Dopo otto anni ero di nuovo davanti a quella casa.
“Me la ricordavo più grande” dissi ad Addison.
“Forse eri tu ad essere più piccola.”
“Già.”
La porta si aprì. Mio padre scese i due scalini che vi erano davanti, fermandosi. Mia madre gli si mise affianco. Alle loro spalle vidi Aria esitare sulla porta, poi sparì, correndo al piano superiore. Per sei anni l'avevo sentita tutte le sere al telefono.
Aria amava ballare.
I nostri genitori le avevano detto che quello non era un lavoro, era un gioco. Che doveva continuare a studiare e smettere di perdere tempo a sgambettare in giro.
Stavano distruggendo lei ed il suo sogno come avevano distrutto me ed il mio.
Aspettai qualche secondo, poi la vidi uscire dalla porta con in mano una sola valigia. Proprio come avevo fatto io otto anni prima.
Si voltò verso i nostri genitori, lessi le sue labbra mentre sussurrava loro uno spezzato 'mi dispiace davvero' con le lacrime agli occhi.
Aprii la portiera posteriore della macchina. Lei salì senza dire una parola. Addison salì dalla parte del passeggero.
“Dove la stai portando?” sentii mio padre urlare mentre si avvicinava, una volta ripresosi dallo stupore.
“In un posto dove può essere se stessa. Che non è qui” risposi, aprendo la porta dal lato del guidatore e lanciando un'ultima occhiata alla casa. “Adesso è maggiorenne. Può fare ciò che vuole. E ciò che vuole è ballare, non fare il dottore. Avevi una figlia che voleva fare il medico, ma l'hai disconosciuta, ti ricordi? Le hai detto che essere se stessa era sbagliato, proprio come stai facendo con Aria. Il mio sogno era fare il chirurgo. Voi avete rovinato quel sogno per me. Non vi permetterò di rovinare il suo.”
“Sei felice?” sentii la voce speranzosa di mia madre.
Pensai a quando ero stata a Miami per un concerto tre anni prima. A quando poi ero tornata a casa e avevo scoperto che Arizona se n'era andata via.
A come il mondo e la vita mi erano crollati addosso.
Nessuno dei miei sogni si era realizzato, in fondo.
Il Paradiso mi era sfuggito proprio mentre lo tenevo tra le mani, come acqua.
E dopo anni ancora mi mancava.
“No. Non lo sono.”
Salii in macchina.
“Grazie per essermi venuta a prendere. So che non mi devi niente, Callie.”
“Sei mia sorella, Aria. Sai quanto ti voglio bene. Sarei venuta prima, ma eri minorenne e mi avrebbero arrestato per rapimento.”
Lei rise. “Ti voglio bene.”
Misi in moto, guardando Carlos paralizzato e Lucia che piangeva in silenzio.
“Ti porto via da qui” sussurrai, partendo.

Parlai con i miei genitori con calma, raccontando la storia fin dall'inizio e spiegando loro perché avevo lasciato Jackson, raccontai del suo tradimento, del fatto che non lo avevo mai amato e sposato solo perché volevo tenere un segreto.
E poi parlai loro di quel segreto.
Per anni mi avevano visto essere infelice. E ciò che pensavano fosse meglio per me, era cambiato nel corso del tempo.
Mi dissero che tutto quello che volevano era che tornassi a sorridere e che i miei occhi brillassero di nuovo.
E se avessi trovato una donna che mi amava tanto da spingermi a ricominciare a vivere, a riprendere tutto in mano, se un uomo non sarebbe mai stato in grado di farmi battere il cuore, allora anche una donna andava bene.
Ero così fiera di loro in quel momento.

“Ne sei assolutamente sicura?”
“Me lo hai già chiesto, Bailey. Sono sicura. Questa è l'ultima volta.”
“Sì, però, lo sai. È un peccato. Tutti quei soldi, tutti quei ragazzi che ti adorano.”
“Ho abbastanza soldi per questa vita e quell'altra. E poi questa canzone è il mio capolavoro. Me ne vado con i fuochi d'artificio. Voglio che il mondo mi ricordi così. Salgo su quel palco e lascio questa canzone a quei ragazzi e spero che chiunque l'ascolti senta quello che provo io quando la canto.”
“E con chiunque, intendi in modo dolorosamente ovvio lei.”
“Già.”
“Un vero peccato” ripeté sottovoce. “Tutto questo talento” lasciò la frase in sospeso. “Le hai spedito il cd?” chiese a voce più alta.
“L'ho fatto. Con Don't Stop Believing, Stay, A Drop in the Ocean e la canzone di stasera.”
“Hai mai riflettuto sul fatto che i tuoi più grandi successi sono stati scritti per lei?”
“Non sai ancora se questa sarà un successo. Potrebbe fare schifo al pubblico, per quello che ne sai.”
“Come no. Comunque” continuò “lei che ha detto?”
Scrollai le spalle, distogliendo lo sguardo dal mio riflesso.
“Niente.”
“Che vuol dire niente?”
“Niente. Non ha risposto niente. Non si è fatta sentire. Comprensibile, dopo tre anni. Sarà una persona diversa adesso, immagino. Magari ha una famiglia, si è sposata, ha continuato a vivere nel modo in cui io non sono riuscita a fare.”
“È davvero quello che pensi?”
“È davvero quello che spero.”
Non disse niente per diversi secondi.
“Sul palco tra due minuti” uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Non me la sentivo di fare un gran discorso d'addio. Così chiusi gli occhi e inspirai lentamente.
“Questa canzone è per l'amore della mia vita. Ovunque sia adesso, spero che stia sorridendo proprio come era solita sorridere a me.”
La musica partì e solo in quel momento realizzai che era davvero la fine. Era l'ultima canzone che avevo scritto. Era il mio ultimo concerto. L'ultimo palco su cui stavo in piedi. Ma lei non era lì per vederlo come aveva promesso.
“It's cold again and I do not know what to do. I need a friend, but all I really want is you. Where have you been? I haven't seen you for so long. I guess you're gone, you're really gone.”
Ricordai di aver pensato che era stata una bella promessa, ma in fondo erano solo parole, quello era tutto ciò che aveva significato. E, come ogni promessa che mi aveva fatto, anche quella era destinata ad essere infranta.
“So long ago, you told me you'd never leave. What do you know? Things have changed so suddenly, and here I am. I am moving on without you. Without you.”
Chiusi gli occhi. Già. Stavo andando avanti senza di lei. Allora perché ogni volta che chiudevo gli occhi tutto ciò che vedevo era l'azzurro dei suoi?
“Now the years have passed us by, and I still do not know why before you tried you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”
Ricordai una conversazione che avevo avuto con Addison qualche settimana prima. Era la conversazione che aveva ispirato quella canzone.
“Quello che hai fatto per Aria è stato meraviglioso, Callie. Le hai dato la possibilità di avere la vita che vuole. Se Arizona fosse qui, sarebbe fiera di te.”
Mi irrigidii.
“Sì, beh, non c'è. Lei non è qui. Non è qui per vedere le cose che faccio, la persona che sono diventata.”
“E fidati di me, quando ti dico che la persona che sei diventata è meravigliosa. E lei sapeva che saresti stata in grado di diventare ciò che sei anche senza di lei, altrimenti non se ne sarebbe mai andata.”
“Ma non ha avuto senso. Tutta la mia vita, tutta quanta, non ha avuto e non ha il minimo senso, perché le cose buone che faccio, la persona che sono, lei se le sta perdendo. Si sta perdendo tutto quanto. Si sta perdendo me.”

“You're missing it. All the things that I have done, you're missing it, everything I have become. So wave goodbye. You can never get it back, no you can't. You really can't. 'Cause now the years have passed us by, and I still do not know why, before you tried, you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”
La cosa peggiore di tutte era che io mi stavo perdendo lei. Andandosene, mi aveva portato via il privilegio di vederle vivere la sua vita, anche solo dal margine.
Sarebbe potuta essere ancora lì al mio fianco, in quel momento. Ma aveva scelto di andarsene senza neanche provare a fare in modo che le cose tra noi funzionassero, ed il perché ancora mi sfuggiva in realtà.
Forse per paura, forse per coraggio. Forse per qualcosa che non aveva nemmeno niente a che vedere con noi o con me. Forse per la mia carriera, per la mia musica, per la mia celebrità.
Non sapevo perché, ma in realtà poco importavano le ragioni di un risultato che comunque non cambiava. Ed il risultato era che se n'era andata.
“There'll be a day, when you wish you could go back. When your mistakes will catch up with where you're at. Before you know, all your chances will be gone. They will be gone.”
Aveva distrutto la mia vita.
Per tutto quel tempo avevo vissuto in funzione di lei, che non era più nemmeno lì.
Mi aveva spezzato.
“'Cause now the years have passed us by, and I still do not know why, before you tried, you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”

“Mi scusi. Lei è Calliope Torres?”
Era successo che altri dottori mi riconoscessero in ospedale. In fondo la scenata che avevo fatto aveva fatto il giro tra i miei colleghi di tutto il mondo. Non era una cosa da tutti i giorni vedere qualcuno rifiutare un Harper Avery. O essere onesto.
Mi voltai con un sorriso di cortesia sulle labbra.
“Già, la pazza che ha rifiutato un Avery, sono io.”
“A dire la verità, volevo complimentarmi per la brutale sincerità. Non voleva quella vita, ed ha avuto il coraggio di cambiarla. La stimo davvero molto per quello che ha fatto.”
Per un momento rimasi in silenzio. Mi aveva colto totalmente alla sprovvista.
“Oh. Ehm, la ringrazio.”
Mi sorrise.
Fu allora che la guardai davvero.
Era molto bella, qualcosa di lei era davvero familiare.
“Ci conosciamo?” chiesi distrattamente, studiando i suoi tratti.
Lei guardò in basso, con un sorriso che sembrava quello di qualcuno che stava tenendo un segreto.
“Abbiamo frequentato la Hopkins nello stesso periodo, ma non ci conoscevamo. Io sono due anni più grande di lei, ma abbiamo avuto un paio di classi insieme.”
“Oh, giusto” ricordai all'improvviso, un'immagine chiara di lei che prendeva appunti in classe mi apparve per un momento quasi come se potessi toccarla. “Mi scusi, ma non ricordo il suo nome.”
Lei continuò a sorridere, spostando lo sguardo per guardarmi negli occhi.
Tese una mano nella mia direzione.
“Arizona Robbins.”
I suoi occhi mi avevano ipnotizzato. Afferrai la sua mano delicatamente.
“Callie Torres.”
Dio, quanto era bella.
“Già” mi ricordò. “Lo so.”

Entrò in camerino con circospezione. Quasi come se pensasse di non doversi trovare lì. Fu la prima a parlare.
“Ciao.”
“Ciao.”
Rimasi in silenzio.
“Sei stata meravigliosa.”
“Mi dispiace davvero, per tutto quello che ho fatto e che non ho fatto.”
“Non sai nemmeno per cosa ti stai scusando.”
“Qualsiasi cosa sia, mi dispiace. Perché qualsiasi cosa sia, ti ha portato via da me.”
“Non è stata colpa tua. Per quanto suoni banale, era colpa mia. Ero io che non potevo starti accanto come avrei voluto. Ma adesso sono qui, per vedere le cose che hai fatto e la persona che sei diventata, Calliope. Non voglio più perdermi neanche un attimo.”
“Sei tornata adesso perché era il mio ultimo concerto?”
“Sono tornata adesso perché fino a quando non hai mandato quel cd pensavo di aver sprecato la mia unica occasione con te.”
Sembrava sincera.
“Ok.”
E aveva le lacrime agli occhi.
“Ok.”

C'erano una volta due uccellini posati su un filo della corrente. Uno dei due provò a volare via e l'altro disse che anche lui voleva provare. Ma era soltanto un bugiardo.
L'uccellino che volò via ebbe una vita difficile, incontrò molte tempeste e fu costretto ad abbandonare alcuni dei suoi sogni per sopravvivere, ma alla fine, essere libero di volare fu la più grande esperienza della sua vita.
L'altro uccellino rimase su quel filo per moltissimo tempo, la sua vita fu semplice, non ci furono giorni di pioggia e quella familiarità era confortevole il più delle volte. Realizzò i suoi sogni ed i suoi genitori furono sempre al suo fianco, ma non fu mai davvero felice, perché non poteva dispiegare le ali e spiccare il volo. Solo molti anni dopo, si rese conto del terribile sbaglio che aveva fatto, e capì che i suoi sogni non si sarebbero mai davvero realizzati se non fosse mai riuscito a volare.
C'erano una volta due uccellini posati su un filo della corrente. Uno dei due provò a volare via e l'altro...l'altro, un giorno, lo seguì.




Perdonate l'incredibile ritardo, chiedo umilmente venia! Mi volete bene lo stesso, vero?

Fatemi sapere quello che ne pensate, e soprattutto...su facebook è nata una pagina dedicata a questa storia, alle shot e ai banner, a me e Trixie...quindi, niente...se vi va, passate! :)

Hermixie ~ Calzona Fanworld



  
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