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Autore: Hika86    10/03/2013    1 recensioni
Il Giappone è in subbuglio: le guerre si incrociano sul territorio, i potenti si alleano e si tradiscono ogni giorno, l'amico che ti ha sempre difeso, un giorno potrebbe pugnalarti alle spalle, coloro che ti sostengono potrebbero non farlo la vota successiva e d'improvviso chi ami oggi, domani potrebbe essere il nemico...
Ora, in tutto questo casino: io che ci faccio qui?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazunari Ninomiya , Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ero di fronte ai tizi peggio vestiti che avessi mai visto. Non che in quel momento fosse la mia primaria preoccupazione, ma le armature che indossavano sembravano prese in un negozio di travestimenti di seconda mano. Quale produzione era tanto scadente da accettare costumi di qualità tanto infima in un film che doveva essere storico e per il quale quindi la scenografia e i vestiti erano importanti?
«Ho chiesto come ti chiami» mi disse l’uomo. Doveva essere il più alto dei due anche se non potevo esserne certo dal mio punto di vista dato che ero riverso a terra.
«Cosa?» domandai incredulo. Da quando avevano cominciato a parlarmi quella era l’unica parola che ero riuscito ad articolare.
«Forse è ritardato» fece il secondo uomo. «Smettiamola di perdere tempo e catturiamolo»
«Cosa?» chiesi ancora, ed era la terza volta. Ora, vorrei essere chiaro, i due parlavano giapponese con uno strano accento ma li capivo e non ero rincretinito tutto d’un colpo: è solo che ripetevo quella parola senza rendermene conto. Ero sotto shock, non capivo dove fossi, né come ci fossi arrivato: pochi minuti prima gironzolavo per gli studi, avviandomi in tutta tranquillità al mio camerino, poi improvvisamente ero caduto a terra. Non “inciampato”, ma caduto! E anche da un’altezza considerevole, cosa che i miei riflessi non erano stati pronti a gestire così il mio impatto col suolo era avvenuto in maniera del tutto scomposta. Risultato? Dovevo essermi rotto o incrinato qualche osso della gamba destra perché in quel momento mi provocava un dolore lancinante.
Quindi ero sotto shock e dolorante, e me ne stavo spalmato sulla strada non perché fossi interessato alla consistenza del terriccio, ma proprio perché non riuscivo ad alzarmi dopo la caduta. Premesso questo, sfido chiunque a fare un discorso sensato in una condizione simile.
«Perché dici che è un ladro? A me sembra solo un po’ tocco» scosse il primo uomo in armatura, data la mia situazione non potevo biasimarlo per ciò che aveva detto
«Guarda com’è conciato: di certo non è un nobile, né un guerriero, quindi nulla giustifica come mai abbia questa con sè» il secondo raccolse un oggetto da terra sfilandomelo di mano e io non mi ero nemmeno accorto di star stringendo qualcosa tra le dita.
«E’ una tachi di buona fattura» ammise il primo
«Direi ottima, deve averla rubata. Catturiamolo»
«Cosa?» domandai di nuovo con un acuto strozzato. In quel caso però non era una ripetizione, ma una vera domanda: il dolore era a malapena sopportabile, io non mi reggevo in piedi e quei due invece di chiamare un’ambulanza o un medico blateravano della qualità di una spada e di catturarmi? Ero io quello sotto shock, allora perché sembrava proprio che fossero loro a ragionare come se avessero avuto delle scimmie urlatrici al posto del cervello?
«Forza alzati, le prigioni ti aspettano» ridacchiò il secondo soldato in armatura facendo un passo verso di me: doveva aver capito che se voleva che mi muovessi avrebbe dovuto alzarmi di peso perché io non avrei collaborato.
«Soldati!» esclamò una voce sottile. «Non avete niente di meglio da fare che tormentare la povera gente?». Un ragazzino dal largo cappello di paglia mi si parò davanti. «La guerra incombe e la gente muore di fame, non dovreste combattere per garantire la pace di queste terre? E invece state qui a discutere se quest’uomo sia un ladro o no? Anche se fosse, la spada è vostra ora. Lasciatelo stare»
«Non potete biasimare la povera gente se cerca un modo per difendersi da sé, dato che voi non fate il vostro lavoro» disse una voce che si levò dai lati della strada.
La testa mi girava e stavo sudando parecchio, inoltre avevo il fiatone e se non mi fossi calmato avrei rischiato di andare in iperventilazione. Nel tentativo di scordare il dolore e riprendere una respirazione normale, girai lo sguardo intorno a me e notai una discreta folla accalcatasi probabilmente già prima che il ragazzino intervenisse in mio favore.
«È così che il vostro signore vuole governare?»
«Vi preoccupate di chi non ha nemmeno le bacchette per mangiare invece che del nemico che ha coltelli per ucciderci tutti»
«Abbasso i Tokudaiji!». In pochi attimi scoppiò la rivolta.
Quando un buon numero di persone si furono messe tra noi e i soldati, il ragazzino si girò verso di me. «Forza straniero, approfittane per andartene» suggerì a bassa voce
«Non posso» riuscii a dire a denti stretti
«Ti sei fatto male?» chiese piegandosi a tastarmi la gamba sopra i jeans. «Aggrappati a me avanti» disse passandosi il mio braccio sulla spalla. Si alzò lentamente aiutandomi a rimettermi in piedi così da poter cominciare ad allontanarci.
Il suo fisico era talmente sottile che in un lampo di lucidità ebbi il buonsenso di aiutarlo spostando un po’ del peso sulla gamba sana per non appoggiarmi solo a lui, ma i primi passi furono difficili: il trambusto alle nostre spalle si faceva sempre più vigoroso e tutto quel rumore mi spaventava, quindi tentai di aumentare l’andatura, ma non feci altro che incespicare nei miei stessi piedi.
Mentre avanzavamo zoppicanti, durante una delle mie tante perdite d’equilibro mi aggrappai saldamente al ragazzino e involontariamente gli appoggiai una mano sul petto. Fu allora che mi resi conto che in realtà era una donna. Io però non avevo testa per stare a chiedermi come mai si travestisse, né per chiederle scusa, tanto più che lei non sembrò nemmeno farci caso.
Ad un certo punto la sentii strattonarmi di lato per imboccare una viuzza secondaria e levarci dalla strada principale.
Avanzammo per un po’ lungo uno stretto passaggio tra alcune case basse, poi da due incroci più avanti comparvero degli uomini che se possibile sembravano ancora più ridicoli dei precedenti: indossavano dei kimono scuri e avevano due spade al fianco, conciati proprio come dei samurai.
Man mano che si avvicinavano però, la rapidità dei loro movimenti e l’aria minacciosa cancellarono ogni elemento di ridicolo dalla loro figura. Mi sentii come probabilmente deve sentirsi un topolino da laboratorio: certo che la sua sarà una brutta fine e che non c’è nessuna via di fuga dalla sua gabbietta; ero terrorizzato, vulnerabile e non autosufficiente. Però non potevo fare a meno di assecondare i passi della donna che mi aveva aiutato, anche se non avevo alcuna certezza che lei non mi avrebbe cacciato in guai più seri di quelli che avrei incontrato consegnandomi nelle mani dei due soldati in armatura.
«Rie sama» gli uomini si fermarono a pochi passi e si inchinarono unendo le mani chiuse a pugno davanti al visto
«Prendetelo. Lo portiamo a casa di mio padre» disse la donna lasciandomi tra le braccia di due del gruppo.
Non mi piaceva essere sballottato come un sacco di patate e nemmeno mi piacevano quei tipi che avrebbero potuto rigirarmi come un calzino, ma alla fine fui grato di quel cambio: mi costrinsero a passare le braccia sulle loro spalle, mentre entrambi mi afferrarono per la vita e mi sollevarono. La gamba non toccava terra e il mio peso non la schiacciava quindi fu un sollievo.
La donna si mise a camminare davanti a noi e gli uomini rimanenti si spostarono alle nostre spalle. Senza me a rallentarla, la sconosciuta prese a camminare più velocemente e cominciammo ad attraversare la città, rapidi e silenziosi.
Svoltammo in vie larghe e in vie strette, alcune erano deserte e altre più popolate. Lanciando qualche occhiata casuale intorno a me, vidi cortili con anatre o cavalli, fuochi da campo accesi nella terra, piccoli giardini curati e altri del tutto incolti. C’erano case in legno ben costruite e altre più sgangherate, alcune cinte da mura, altri solo da steccati. Si alternavano strade sterrate e altre coperte di pietre lisce un po’ sconnesse. L’odore delle cucine si mischiava a quello degli animali e delle feci o col profumo di fiori e di pini. Alcune strade erano silenziose, altre più rumorose. Incrociammo bambini che correvano gridando da un cortile all’altro, signore in kimono intente a parlottare fuori da qualche locale e uomini che vociavano tra loro mentre lavoravano.
Non c’erano negozi con vetrine, né konbini: sembrava un villaggio di campagna e proprio non capivo come fossi finito lì dal set televisivo!
Gradualmente le strade diventarono un sentiero e una foresta prese il posto delle case. Il profumo della resina si fece più intenso ed ogni altro rumore scomparve lasciando spazio solo ad un grande silenzio, riempito dallo scricchiolare del legno degli alberi.
Non capivo quanto tempo fosse passato, forse ore intere o forse pochissimi minuti. Avevo perso la cognizione del tempo, il dolore mi annebbiava i sensi, la gamba aveva ripreso a farmi male più di prima come se la forza di gravità stesse tirando a sé l’osso ed ogni minimo sballottamento dovuto alla corsa non faceva che darmi una fitta dolorosa. Avrei voluto strillare, non me ne importava un fico secco di sembrare un debole, ma avevo la gola in fiamme e talmente secca che forse non sarei riuscito ad emettere alcun suono.
Ad un certo punto vidi davanti a noi un portale con un enorme cancello in legno, ma quando lo raggiungemmo la donna in testa al gruppo entrò spingendo una porticina laterale più bassa. Dall’altra parte, in un grande spiazzo di terra chiara, sembrava svolgersi un allenamento di kendō: c’erano tantissimi uomini con la loro spada di bambù che si allenavano combattendo gli uni contro gli altri.
«Rie sama» salutarono alcuni inchinandosi profondamente con i pugni chiusi davanti al viso
«Rie, cosa ci fai a casa a quest’ora?» un esclamazione si sollevò dal gruppo.
Mi scaricarono a terra malamente, ma ne fui felice: certo ero tornato alla situazione di partenza, a terra e dolorante, ma almeno non avrei più subito gli scossoni della corsa.
«Per favore, fratello, non ha un posto dove andare e i guerrieri dei Tokudaiji lo avrebbero imprigionato» sentii la voce della donna insistere e strabuzzai gli occhi. Un primo pensiero lucido mi attraversò la mente: stava cercando di farmi ospitare lì? In una palestra di kendō? La gente sembrava uscita di senno.
«Ospedale» rantolai e poi tossii per schiarirmi la voce. «Non qui, va bene l’ospedale» spiegai con le lacrime agli occhi: volevo un medico, un’ingessatura e uno stramaledetto letto! Cosa pagavo l’assicurazione sanitaria a fare se poi mi portavano in una palestra di arti marziali quando mi rompevo una gamba?
«Ma come parla?» domandò un uomo vicino alla donna che mi aveva aiutato. «Che città è questa Ospedale? Non l’ho mai sentita»
«E’ uno straniero, fratello. Aiutiamolo, non ha nessuno che conosce e che possa aiutarlo ed è lontano da casa» insisteva lei
«Non possiamo accogliere tutti quelli che attaccano briga coi Tokudaiji, Rie. Non significa che siano per forza nostri amici» scosse il capo l’uomo
«Ma fratello» fece la donna prima di essere interrotta
«Fatelo vedere a me».
Un uomo con una barba brizzolata e un primo accenno di rughe ai lati degli occhi si piegò su di me e mi costrinse a stendermi del tutto per terra. «Sicuramente non è di queste parti, nessuno si veste così qui da noi» osservò prima di tirar fuori un piccolo pugnale. «Perdonami, ma devo vedere la tua gamba» spiegò per rassicurarmi, dato che alla vista della lama avevo tentato di strisciare all’indietro.
Ero abbastanza certo che non volesse pugnalarmi e infatti non era per quello che avevo cercato di allontanarmi, ma piuttosto perché avevo intuito che volesse rompere i jeans e quei Levi’s costavano una fortuna!
Però ero sempre un topo in gabbia, quindi non avevo né il modo, né tantomeno la forza di oppormi: ascoltai a malincuore il rumore dello strappo nei pantaloni. Una persona normale penserebbe che è più importante la salute di un paio di jeans, ma… cavoli, erano costosi e non li avevo nemmeno comprati io! Detesto sprecare i buoni regali.
Senza tante cerimonie e senza nemmeno avvertirmi mi prese la gamba e con un gesto deciso riassestò le ossa. Per qualche secondo non vidi nulla, accecato dal dolore. Forse non riuscii nemmeno ad urlare nonostante avessi aperto le labbra per farlo, o forse emisi qualche suono ma non riuscii ad udirlo. Tutti i muscoli del corpo che si erano contratti per lo spavento e il dolore si rilassarono improvvisamente e mi sentii sul punto di svenire.
«Qualche bastone e alcune tele» ordinò lo strano medico. «Uniteli insieme e usiamoli per trasportare lo straniero».
Dopo i primi momenti il mondo tornò ad essere visibile, anche se mi sembrava pieno di chiazze scure e un po’ appannato. Alcuni uomini si erano raggruppati intorno a noi dopo aver interrotto l’allenamento e mi fissavano, qualcuno incuriosito, qualcuno con l’espressione sofferente, come se partecipasse al mio dolore. Perché c’era quella gente intorno a me invece di esserci dottori, chirurghi ed esperti?
«Padre, lo volete prendere in casa?» domandò il tizio che era contrario alla mia permanenza lì esattamente quanto me
«Fino a prova contraria lo straniero non è nostro nemico e non sarebbe cortese lasciarlo ferito e solo fuori da casa nostra ora che è qui» spiegò l’uomo passandomi una mano sulla fronte. Non aveva ancora capito che doveva portarmi in ospedale, ma almeno era gentile. «Ha la febbre alta. Rie, vai in casa e fai preparare gli impacchi. Toshiaki, ordina che sia preparata la stanza degli ospiti, intanto i tuoi fratelli mi aiuteranno a trasportare il nostro ospite» spiegò ad un bambinetto che annuì e si allontanò di corsa.
L’uomo impartì altri ordini e con grandi sofferenze (per me) venni spostato su una barella di fortuna. «Come ti chiami straniero?» mi chiese con un sorriso benevolo
«Nino» tossii e mi passai una mano sul viso togliendomi di dosso uno strato di sudore. «Ninomiya Kazunari» risposi con voce roca
«Ninomiya sama, il mio nome è Toshiya e sono il capo della famiglia Morikawa. Ti ho sistemato la gamba, anche se non so dirti se ci sia qualcosa di rotto o meno. Comunque mi occuperò io di te»
«L’ospedale va benissimo» ribattei. Non è che non apprezzassi la cortesia del signor Morikawa, che mi aveva appena sistemato un osso e mi trattava anche con grande rispetto, solo che volevo che un medico vero mi facesse una lastra e mi mettesse il gesso. Avrebbe dovuto essere così e non capivo perché quegli sconosciuti si ostinassero a voler fare tutto da sé, accidenti.
«Sei lontano da casa, Ospedale non si trova da queste parti, ma ti prometto che farò del mio meglio perché tu possa rimetterti presto» rispose l’uomo, angelico.
Non c’era niente da fare. Mi rassegnai ancora una volta: come il topo, non potevo scappare e in quel momento non sapevo nemmeno come spiegare che “ospedale” era un edificio, non una città.

Quando mi svegliai era giorno. Aprii gli occhi e vidi un soffitto a me sconosciuto illuminato dalla luce che inondava la stanza. Mi dava fastidio e nascosi la faccia sotto la coperta con un gesto che sembrò costarmi tutte le energie che avevo in corpo.
«Sei sveglio?» pronunciò una voce sottile.
Quando girai la testa vidi una donna seduta di fianco al mio futon, steso a terra. «Chi sei?» mormorai stancamente
«Sono Rie» rispose lei con un sospiro e un sorriso benevolo
«Devo andare in bagno» dissi subito dopo, sentendo lo stimolo
«Dove vuoi andare?» chiese confusa
«La pipì» spiegai rapidamente. Più ci pensavo più mi scappava.
«Vado a chiamare qualcuno che ti dia una mano ad alzarti. Tornerò quando avrai fatto» spiegò alzandosi da terra e uscendo da una porta a scorrimento.
Un giovane in kimono da lavoro venne ad aiutarmi dato che non stavo in piedi da solo. Ero stanco e mi scappava troppo per fare storie, ma quando mi fossi sentito meglio speravo vivamente mi avrebbero concesso di andare sul serio in bagno, perché non mi entusiasmava l’idea di dover fare i miei bisogni in un vaso da notte.

Mi svegliai una seconda volta ed era notte.
Il buio sembrava totale e il silenzio era talmente profondo da farmi pensare che oltre la mia stanza il mondo fosse scomparso, inghiottito dal nulla. Mi chiesi addirittura se non stessi ancora sognando, ma i miei occhi si abituarono all’oscurità e cominciai ad intuire lo spazio intorno a me: al contrario, i sogni di solito sono luminosi, alcune cose ci appaiono indistinte e un po’ opache, ma quello che dobbiamo vedere, anche se sogniamo una scena notturna, lo vediamo sempre benissimo. Ad avvalorare l’idea che fossi sveglio per davvero si aggiunse una folata di vento. Il silenzio era tale che non sentii solo l’agitarsi delle foglie, ma anche lo scricchiolare dei rami e una pigna o altro che cadeva a terra. Quel rumore d’alberi sembrò quasi frastornante e immaginai dovesse esserci una foresta fuori da quella stanza.
Stavo sudando, quindi decisi di mettermi seduto e levarmi di dosso le coperte. Quando provai un movimento la gamba mi fece male e trattenni a stento un’imprecazione, ma quel dolore mi regalò una consapevolezza che avevo temporaneamente perso. Improvvisamente ricordai ogni cosa: la caduta, i soldati, la folla, la corsa, il dolore…
Lentamente, aiutandomi con le mani, mi misi a sedere lasciando le gambe distese sul materasso e una volta raddrizzatomi scostai le coperte. Non lo feci certo per guardarmi, dato che a malapena intuivo la mia sagoma scura che spiccava sul bianco del futon, quanto per sentire un po’ di aria fresca sulla pelle. Tastandomi con grande delicatezza le gambe mi resi conto che il ginocchio destro era più gonfio e l’arto era steccato e fasciato, ma non mi avevano ingessato quindi non doveva essere così grave.
Sentendomi un po’ più sollevato cercai di fare mente locale di ciò che ricordavo, ma non trovai risposta alle mie domande, quindi decisi di capire prima di tutto dove fossi e se fossi al sicuro.
La stanza era buia e la notte era silenziosa, ma riuscii a distinguere dapprima dei capelli neri lunghi che spiccavano sul pavimento chiaro, dopodiché intuii tutto il resto del corpo di una donna che dormiva a terra vicina al mio futon.
«Ehi senti» accennai a bassa voce, un po’ intimorito.
Bastò quel mio sussurro e lei si svegliò immediatamente, mettendosi a sedere. «Ti sei svegliato» osservò acutamente. Sembrava totalmente sveglia dalla voce, quindi forse prima non stava dormendo. «E sei persino seduto, significa che stai meglio»
«Chi sei? E dove siamo?»
«Mi chiamo Rie. Ti ricordi dei guerrieri al mercato? Sono io che ti ho portato via di là»
«Sì, mi ricordo. Ti ringrazio» dissi piegando il capo. «Io sono»
«Ninomiya Kazunari, lo so» mi interruppe. «Nelle ultime due settimane ti sei svegliato spesso e ogni tanto, oltre a chiedermi chi fossi, ti sei presentato a tua volta» spiegò ridacchiando. «Riguardo al “dove sei”, questa è casa mia. O meglio, è la casa di mio padre: Morikawa Toshiya. La nostra tenuta si trova nelle terre degli Ujie, sotto il dominio della famiglia Tokudaiji. Tu da dove vieni?».
La fissai stancamente. Che razza di indicazioni erano quelle? Non ce l’aveva un nome quella città? Sapere chi ci abitava non mi avrebbe di certo aiutato a capire dov’ero finito, quindi qual’era la provincia in cui mi trovavo?
«Io vengo da Tōkyō, nella prefettura di Tōkyō. Questa che prefettura è?» cercai di indagare
«Cos’è una prefettura?» chiese lei. «È così che si chiamano i territori dalle tue parti?»
«Veramente si chiamano così in tutto il Giappone» le feci notare
«Capisco» annuì la donna incrociando le gambe
«Io no, faresti capire anche a me?»
«Dopo, ora avrai fame immagino» e nel momento in cui me lo disse sentii una voragine al posto dello stomaco. «Vado a prenderti qualcosa dalle cucine e quando ti sentirai meglio parleremo ancora» propose prima di alzarsi in piedi. Uscì silenziosamente dalla stanza e mi lasciò da solo.
Sentii i suoi passi sul pavimento del corridoio. Il legno scricchiolava lentamente segnalandomi che stava passando alle mie spalle e che quindi doveva esserci un passaggio dietro quella parete della stanza. Quanto lungo però non potevo dirlo con certezza perchè i rumori continuarono a sentirsi ancora per molto, sempre più attutiti: anche l'uscita era da quella parte? Quanto lontano? Ma non era importante, non sarei mai riuscito a non fare rumore in una casa pavimentata in parquet antico.
La donna tornò dopo parecchi minuti con un vassoio: c’erano una ciotola di riso, del pesce abbrustolito e della misoshiru con tōfu. Il tutto rigorosamente freddo. Dato che aveva portato anche una candela sul vassoio ne dedussi che mancava la corrente, altrimenti come spiegare la mancata scaldatina al microonde? Il pesce non era nemmeno pulito, quindi mi ritrovai nel cuore della notte a togliere le spine al lume di una candela.
«Posso dirti la mia opinione?» domandò la donna fissandomi mentre succhiavo avidamente anche la più piccola lisca: mi sembrava di non mangiare da una vita! «Tu sei uno spirito»
«Ritenta» biascicai con le labbra già sull’orlo della ciotola della misoshiru
«Parli proprio strano» annuì. «Allora, sei uno spirito o no?»
«E’ una candid-camera?» chiesi appoggiando le bacchette al vassoio e guardandomi in giro. Grazie alla candela non vedevo più niente dell’ambiente intorno a me, a meno che non lasciassi abituare di nuovo gli occhi all’oscurità.
«Senti, vogliamo andare avanti a farci domande senza dare risposte?» fece lei con uno sbuffo. «Io ti chiedo una cosa, tu rispondi e poi ne chiedi una a me»
«Ok» risposi tornando alla cena, convinto che fosse un po’ esagerato rompermi la gamba per una candid-camera. «Va bene» dissi quando notai che la donna davanti a me mi fissava come se le avessi parlato in russo.
«Bene, dunque sei uno spirito?» insistette
«Oh che diavolo, no! Mi sono rotto una gamba, come faccio ad essere uno spirito?» sospirai esasperato
«Non ho detto “fantasma”, ho detto “spirito”» ribattè sussurrando. «E non urlare o sveglierai tutti!»
«Ok, ok, non urlo» borbottai. Cosa non quadrava in quella situazione? Perché qualcosa sicuramente impediva alla nostra conversazione di andare nel verso giusto. «Non sono né un fantasma, né uno spirito. Come diavolo ti viene in mente?»
«Ti ho visto quando sei comparso. Prima non c’era nessuno e improvvisamente sei apparso nel cielo. Eri nell’aria, sopra la via del mercato, e poi sei piombato a terra. Se non sei uno spirito chi può fare magie simili?» domandò aggrottando le sopracciglia.
Alla luce della candela, e finalmente con un po’ di lucidità, riconobbi il suo viso. Il giorno che mi ero ferito, i capelli erano nascosti sotto il cappello, ma ricordavo come un sogno alcune delle volte in cui dovevo essermi invece svegliato: lei era sempre stata vicina al mio letto. Aveva il viso tondo e i tratti morbidi, ancora un po’ fanciulleschi. Gli occhi avevano le ciglia lunghe e sembravano vedere nel buio meglio di quanto non facessero i miei.
«Non faccio magie» le dissi. Non era proprio la verità, ma io facevo trucchi di prestigio, mentre lei parlava di capacità ben diverse. «Sono un essere umano come te. Vengo da Tōkyō e ti giuro che io ero lì, poi non so cosa è successo ma, puff, mi sono ritrovato qui e sono caduto a terra. Non volo e non so teletrasportarmi. Non so che giorno sia, dove siamo, né come ci sono arrivato» spiegai con calma. «Avete un telefono? Posso chiamare qualcuno che mi faccia venire a prendere»
«Telefono?» ripetè lei
«O un cellulare» suggerii, ricordandomi che era saltata la corrente e la rete fissa quindi non avrebbe funzionato
«Cellulare?» continuò a dire pensierosa. Mi prendeva in giro o era solo scema? Quel suo farmi il verso cominciava ad infastidirmi. «No, non esistono queste cose da noi. Ospedale dov’è? È vicina a Tōkyō, la tua città?»
«Vorrai scherzare, un ospedale non è una città» sospirai esasperato, posando sul vassoio la ciotola di riso svuotata fino all’ultimo chicco. «Vuoi dirmi che non avete un ospedale nelle vicinanze? Né un telefono? E nessuno ha un cellulare? Ma dove siamo, in Burundi?». Ero sconcertato, per un attimo pensai che la fasciatura fosse una finta e che io fossi veramente vittima di un pessimo scherzo.
«Te l’ho detto, siamo nel regno dei Tokudaiji. Qui sono loro che hanno preso il comando dopo che lo shōgun ha perso influenza, forse nel tuo territorio quelle cose ci sono, ma qui da noi no» mi spiegò lei con molta calma. Mi rispondeva con la pazienza di una maestra d’asilo in presenza del più somaro della classe. Era snervante.
«Un attimo. Shōgun?» domandai, improvvisamente colpito da quella parola. «Che significa? Il sistema shogunale è stato smantellato da più di un secolo». La guardai con gli occhi sgranati, mentre lei non sembrava altrettanto sorpresa. Forse perché si era abituata all’idea che io fossi uno spirito quindi qualsiasi cosa mi fosse successa ad un uomo qualsiasi non poteva essere più tanto strabiliante. «Che giorno è oggi?» domandai
«Sono passate quasi due settimane dal tuo arrivo qui, hai avuto la febbre molto alta. Oggi è il ventitreesimo giorno del decimo mese di quest’anno» rispose
«Di quale anno?» insistetti
«Non saprei, queste sono cose che sa uno studioso. Comunque credo che il tennō¹ si chiami Go-Kashiwabara».
Non avevo mai sentito un nome simile, ma a parte tutto, a meno che in quelle due settimane l’imperatore non fosse morto, io vivevo nell’epoca Heisei. «Non sai dirmi l’anno nel calendario cristiano?»
«Cos’è un calendario cristiano?».
Avevo perso il conto delle parole di cui non conosceva il significato e grazie a quell’irritante particolare cominciai ad unire i puntini: non sapeva cosa fosse un cellulare, quindi dovevo essere finito in una campagna molto isolata, ma se non c’era nemmeno un telefono, o ero finito nel posto più remoto del Giappone oppure c’era qualcosa di strano. Le prime telecomunicazioni moderne in Giappone erano arrivate alla fine dell’800, così come la figura dello shōgun² era scomparsa a metà del diciannovesimo secolo, ma se la donna davanti a me non sapeva nemmeno cosa fosse un calendario cristiano allora dovevo andare molto più indietro! I primi contatti con gli occidentali erano avvenuti nel 1500, ma non potevo certo pretendere che un popolano qualsiasi sapesse subito chi fossero i portoghesi e cosa fosse il cristianesimo: era un’epoca feudale, mica usavano twitter per farsi sapere le cose. Quindi o gli europei c’erano e lei non lo sapeva, oppure non c’erano affatto e quello era un Giappone ancora più antico.
«Chi è lo shōgun?» domandai sudando freddo. Non sapevo molto degli imperatori, ma qualcosa degli shōgun sì: avevo giocato un sacco di videogame di strategia e di combattimento ambientati nel Giappone feudale.
«Ti ripeto che non ne so molto di politica» mi rispose scuotendo il capo. «Non mi interesso e poi lo shōgun ora non è tanto importante. Ormai sono alcuni anni che molti dei suoi sottoposti agiscono in maniera totalmente indipendente. I Tokudaiji erano una famiglia cadetta, ma i legami con le persone al potere erano molto blandi quindi sono stati i primi a commettere tradimento e a dichiarare proprio questo territorio» tentò di raccontarmi ciò che sapeva. Non era molto, ma per essere una donna di quel periodo sapeva anche troppo.
Non erano molte informazioni, e tutta la situazione in sé era abbastanza assurda, comunque quel che sapevo era sufficiente per farmi capire che il periodo al quale si riferivano i racconti della ragazza era quello a cavallo tra il 1400 e il 1500, in una delle epoche più sfruttate da sceneggiatori di manga, anime, film e videogiochi: l’era Sengoku.³
Mi lasciai andare tornando disteso sul futon. «Stai bene? Sei pallido» mi fece notare lei. Mi veniva voglia di strozzarla: ma come si fa a stare bene quando tutto fa pensare di essere stati catapultati indietro nel tempo? Senza sapere nemmeno come, tra l'altro.
«Va bene, mi avete spaventato a sufficienza. Adesso basta per favore, lo scherzo è durato anche troppo» sbuffai cercando di rigirarmi su un fianco, ma la gamba dolorante e steccata mi impedì il movimento. Era una realtà che non potevo negare, ma ancora non volevo crederci.
Mi gettai la coperta addosso nascondendo anche il viso e non risposi a nessun richiamo e a nessuna domanda. Quando si fossero decisi a smetterla di prendermi in giro avrei ripreso a parlare, ma non avrei dato altro materiale da far mandare in onda per quella stupida candid-camera.
Lei se andò di nuovo, portando via il vassoio e la candela, ma poi tornò, spense la fiamma e rimase con me nella stanza, senza muoversi.

¹ Il tennō 天皇 è il nome giapponese della carica di imperatore
² Lo shōgun era la carica più alta delle forze armate del paese. Dopo un po' che si era stabilita questa carica e con il decadere dell'effettivo potere della corte imperiale, lo shōgun era colui che a tutti gli effetti controllava l'impero giapponese (anche perchè la forza militare è sotto il suo comando)
³ L'epoca Sengoku (1478 - 1605) viene chiamata anche periodo degli stati combattenti in cui il potere dello shōgun era indebolito e i suoi sottoposti che controllavano varie zone del Giappone cominciarono a combattere tra loro per avere maggior potere. Questo periodo è molto sfruttato per videogiochi, libri, anime e manga (es: Inuyasha).


Nel prossimo capitolo
«Ok, senti, sono confuso, quindi non so bene da dove cominciare»
«Comincia col dirmi chi sei» propose fissando lo sguardo sul giardino di casa sua
«Io sono giapponese e sono un essere umano. Solo che non appartengo a questo Giappone. Sono abbastanza sicuro di venire dal futuro».

«Va bene, ti credo» annuì ed io non riuscii a trattenere un sorriso di vittoria che forse l'oscurità le nascose perchè non sembrò notarlo. «Vai a riposare, Ninomiya sama. Domani ti aspetta un lungo colloquio» sembrò ordinarmi. «E se non prendi sonno comincia a pensare a cosa dirai. Io non farò parola a nessuno di ciò che abbiamo scoperto stasera: dire la verità o inventari qualche storia è una tua scelta; farò finta di non sapere nulla».
Perchè non rivelare ai suoi stessi parenti chi stavano tenendo nelle loro stanze? O magari era un test per vedere se avessi detto tutto anche dandomi la possibilità di mentire?

«Vorrai capire come tornare a Tokyo, no?» domandò con un sorriso timido
«Ti ringrazio, ma non è detto che io rimanga in questa casa». Io che venivo dal futuro avevo solo un'incognita grossa come una casa davanti a me.
«Se al mio ritorno sarai ancora qui mi racconterai qualcosa del tuo mondo?»

  
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