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Autore: EsseTi    10/03/2013    10 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi.

Alessandro BariccoOceano mare, 1993


 

Chapter 24nd: Praga – Milano - Palermo
 
- Ma non hai freddo? –
- A Praga fa più freddo. Qui no. –
Dominik sollevò la manica del maglione, che era scivolata fino a coprirgli la mano, su fino al gomito. Era successo proprio in quel momento, quando aveva sollevato la stoffa e l’avambraccio si era scoperto, provocandogli un brivido, che aveva pensato a Federico.
Era successo proprio una sera di quelle, che lui gli aveva chiesto se non avesse freddo, perché stava sempre a piedi nudi, e gli aveva risposto che no, Praga era molto peggio, anche se a casa faceva sempre caldo perché la mamma teneva acceso il riscaldamento.
Quando aveva pensato a Federico, la sinfonia elaborata di Wagner si era trasformata in un morbidissimo notturno di Chopin, e tutto si era colorato di tutti i colori del mondo.
Non aveva ancora trovato un colore per Federico, e si era convinto che non esistesse, che il mondo non avesse inventato un colore che potesse descriverlo davvero. Era brutto, però, pensarlo: Federico doveva avere un colore, essere un colore.
Ce l’avevano tutti.
Ma forse Federico non ne aveva uno perché era spezzato in tanti piccoli pezzi, e tutti si incastravano con una delle persone che gli ruotavano intorno: c’era il pezzo per Samuele, e quello era colorato di un giallo un po’ spento, come un riflesso; c’era un altro pezzo per lui, quello che gli concedeva la sera quando guardavano la tv; un altro pezzo per la sua famiglia, e uno, quello più grande, riservato a Manfredi, di un colore viola brillante, come la sensazione dolorosa del ghiaccio sulla pelle. Allora, forse il colore di Federico era il bianco: la mamma gli aveva spiegato che i colori nascevano tutti dalla luce, e che quando la luce passava attraverso una cosa chiamata prisma, il bianco si divideva in sette colori brillanti. O forse otto? Non importava.
L’importante era che Federico doveva essere così. I suoi pezzi colorati passavano tutti attraverso un prisma e si riunivano nel bianco lucente.
Chopin defluì delicatamente verso un andante, uno degli esercizi che la maestra gli aveva assegnato per le vacanze, e che gli piaceva particolarmente perché non era solo una serie vuota di note, ma aveva dentro qualcosa.
I tasti del pianoforte della casa di Praga erano così uguali a quelli della casa di Milano.
In una pausa di un quarto, prima di una serie di crome e di semiminime, udì un sospiro leggero come un soffio di vento d’estate. Era il sospiro della mamma, e gli mandò via le note della testa, tanto che, d’improvviso confuso, dovette fermarsi per sfiorare con le dita gli spartiti e studiarne i rilievi. Nel silenzio, adesso, udiva meglio le cose intorno, quelle che la musica aveva zittito.
C’era il respiro lieve della mamma, il rumore dei ferri da lana della nonna, il fruscio delle pagine del giornale di papà, e l’incessante suono dei tasti del cellulare che Aneta pigiava continuamente. C’era anche un altro suono, un pochino più lontano: un rumore di plastica, e una vocina acuta che mormorava sottovoce. Doveva essere Jana che giocava con il suo nuovo regalo di Natale, la casa per le bambole che le avevano comprato la mamma e il papà. E bisbigliava perché la mamma doveva averle detto di far piano, che Dominik stava suonando.
C’era sempre quella strana magia, a casa loro, il giorno di Natale. Anche se era solo un giorno come tutti gli altri, in cui erano comunque da soli, perché la loro famiglia non era poi così numerosa, e la mamma cucinava cose buone esattamente come gli altri giorni, c’era una magia particolare: forse era dovuta alla risata allegra di Jana quando scartava i suoi regali, o all’abbraccio goffo di Aneta quando lo vedeva tornare da Milano e non riusciva ad ammettere che gli fosse mancato, o ancora alla voce calda della nonna che il Natale lo amava da sempre, e tutti gli anni gli chiedeva di suonare una canzone di Natale, al pianoforte. Allora lui abbandonava Chopin, Bach, Strauss, e si concedeva una di quelle canzoncine ripetitive, senza alcun senso e senza alcuna elaborazione: e gli piacevano, perché erano magiche, nella loro semplicità.
La magia era per la nonna che sorrideva, per la mamma che rideva, per il papà che quando si sedeva vicino a lui e gli chiedeva cosa stesse leggendo gli rispondeva sempre e gli spiegava un articolo, a volte di politica, o di economia, o di cronaca, e anche se poi lui si annoiava, il papà non smetteva, perché sapeva quanto gli piacesse sentirlo parlare.
Per tutto questo adorava il pomeriggio del giorno di Natale.
Fece scivolare via le mani dagli spartiti, poggiandole sulle gambe.
I polpastrelli sfiorarono il tessuto morbido e caldo dei pantaloni.
- Volete un po’ di cioccolata ragazzi? – chiese poi la voce della mamma.
Adorava anche l’ora della cioccolata. La cioccolata che faceva la mamma, però, era diversa da quella che preparava Federico; quella della mamma era più liquida, tutta zuccherata e buonissima, ma quella di Federico era densa, così tanto da sembrare davvero cioccolato, e quando la beveva una parte gli restava sempre attaccata al labbro, e allora Federico gli passava un tovagliolo e lo aiutava a pulirsi. Non poteva dire di preferirne una all’altra.
La cioccolata della mamma era di Praga, quella di Federico di Milano.
- Io voglio una fetta del pandoro che hai fatto! –
Aneta era la solita golosa. La mamma aveva comprato un pandoro e lo aveva farcito di crema alle mandorle, che aveva comprato al supermercato, e aveva imposto a tutti di non mangiarlo prima del giorno di Natale. E ovviamente Aneta non aspettava altro che il giorno di Natale per mangiare quel pandoro. Si ritrovò a sorridere.
- Lo voglio anch’io. –
La mamma ridacchiò, il fruscio dei suoi vestiti la accompagnò mentre si alzava in piedi.
- Siete due pesti impertinenti! – li rimproverò bonariamente.
Dominik fece scivolare la mano sui tasti del pianoforte, come in una carezza: erano ancora tiepidi per il contatto prolungato con la sua pelle.
Sorrise. Glielo diceva sempre anche Federico, però con parole diverse.
- Fai il sentimentale, Dom? Cos’è, un modo cazzuto e orgoglioso per dire che sentirai la mia mancanza almeno un po’, tra tutta quella musica che hai nel cervello? –
- Se anche fosse? –
- Lo prendo come un sì. Nella tua lingua, se non è no, allora è sì, anche se non sembra. –
- Lo prendo anche io come un sì, allora. Perché nella tua lingua è sì quando non dici niente. –
- Certo che sei proprio assurdo, lo sai? –

Glielo diceva sempre ridendo, perché in realtà si divertiva.
E in realtà gli mancava. Non era una mancanza come quella della mamma, per cui bastava una telefonata, la consapevolezza di rivederla presto e che lei fosse contenta di quello che lui stava facendo a Milano.
La mancanza di Federico aveva fatto addensare il tempo, e le giornate trascorrevano più lente.
Si era abituato a quella routine fatta di una giornata intera al conservatorio, un pomeriggio a suonare, in attesa che lui tornasse dal lavoro, e poi una cena insieme, una chiacchierata mentre Federico lavava i piatti, infine almeno due ore insieme davanti alla televisione a scambiarsi i respiri. Era diverso e basta, e anche se erano passati appena tre giorni da quando aveva lasciato Milano, gli mancava. La musica serviva in parte ad attenuare la mancanza di quella routine: con Chopin poteva richiamare Federico e le sensazioni a lui associate, come lo scrosciare rassicurante dell’acqua mentre lavava i piatti, o la sua voce calda mentre parlava a telefono con sua madre, con Samuele, o con uno dei suoi amici. Molto più difficile era rievocare la sensazione delle sue mani, o del suo corpo: forse lo aveva toccato troppo poco per conoscerlo bene come la mamma, per riuscire a ricordare i profili del suo viso e delle sue spalle sotto le dita, però anche ricordare bene la sensazione delle sue mani sul polso, sul dorso della mano, sul ginocchio, era un po’ difficile.
Chissà se anche a Federico mancava. Avrebbe dovuto aspettare di tornare  a Milano per chiederglielo.
- Tieni, Filip – sentì mormorare alla mamma. Aveva quel tono carezzevole e morbido che usava solo con il papà.
- No, zlato, non mi va. Sono ancora pieno per il pranzo. Mangialo tu. –
Dominik avvertì il rumore di una carezza, palmo contro dorso, come quelle che a volte gli faceva Federico mentre pranzavano o parlavano.
Zlatoera il modo in cui il papà chiamava la mamma, da sempre. Anche quando era bambino, e andava a prenderlo a scuola, una volta tornati a casa, la mamma correva ad abbracciarlo, in ginocchio, e il papà non si muoveva dalla porta fino a quando non le aveva mormorato “ciao, zlato” e lei si era alzata in piedi per dargli un bacio.
Zlatosignificava amore. Solo da quando viveva a Milano si era reso conto di quanto fossero diverse le due lingue che conosceva: in italiano, amore era una parola dal suono morbido, caldo, che faceva pensare a una carezza. In ceco, invece, suonava terribilmente sibilante, come una minaccia. Perché, allora, sembrava così caldo, quando lo diceva il papà?
La mamma diceva che tutte le lingue, in fondo, non fossero altro che un insieme di lettere diverse, e che fossero i toni delle persone, le loro espressioni, a fare il vero linguaggio, e che chiunque avrebbe dovuto appigliarsi solo a quelle.
E, che fosse zlato o amore, la mamma e il papà lo erano e basta.
Per questo non capiva Federico quando parlava dell’amore come di qualcosa di brutto, che faceva soffrire, oltre a stare bene, perché l’amore era una cosa bella e basta, come la mamma e il papà.
Alla mamma non aveva voluto chiedere nulla. L’avrebbe chiesto a Federico, una volta che fossero tornati a Milano.
- A cosa pensi, drahà? Ti vedo pensieroso. – La voce della nonna lo chiamò proprio mentre stringeva tra le dita la soffice fetta di pandoro che gli porgeva la mamma.
Ne addentò un pezzo enorme, prima di rispondere, e fu certo di essere sporcato tutto il naso con lo zucchero a velo. Federico sarebbe scoppiato a ridere, se ci fosse stato.
Mandò giù il pandoro, passandosi una mano sul naso per mandar via lo zucchero.
- Non sono pensieroso – osservò. La nonna non gli fece altre domande, lasciandogli finire il dolce con calma, fino a quando lasciò il tovagliolo sul piccolo tavolo accanto al pianoforte, alzandosi in piedi.
Fu lui a tornare dalla nonna. Gli piaceva sedersi sul tappeto, vicino alle sue ginocchia, perché c’era vicino anche uno dei termosifoni, e poteva riscaldarsi, e godere anche del calore e del profumo morbido della nonna.
Si sedette, incrociando le gambe e poggiando le mani sulle ginocchia. Con un ginocchio sfiorava la caviglia della nonna, e poteva avvertire il lembo della coperta che teneva sulle ginocchia solleticargli il viso. Avrebbe voluto poggiarci il capo, su quelle ginocchia, e dormire per un po’. Sentiva la musica affollarsi nella testa.
Poi, la mano della nonna gli accarezzò piano il capo.
- Hai pensato a cosa farai quando a giugno avrai finito gli studi al conservatorio? – gli chiese poi.
Quello era un argomento che tutti cercavano di non toccare mai, perché lo sapeva benissimo come fossero divisi tra la speranza di vederlo tornare e averlo tutto per sé a casa, e la consapevolezza di dovergli lasciar percorrere la sua strada, che probabilmente l’avrebbe portato ancora più lontano. Lui, però, non ci aveva ancora pensato: come aveva detto a Federico, a lui non importava di diventare un grande musicista, di essere ricordato o di essere acclamato.
Voleva suonare e basta.
Si strinse nelle spalle.
- Non lo so, non ho ancora deciso. I maestri mi hanno detto che vedremo cosa fare, prima della fine dell’anno. –  La nonna sorrise, la sua mano calda si insinuò ulteriormente tra i capelli.
- A me piacerebbe tanto che tornassi, drahà. Anche solo per un anno. Tua madre non voleva che te lo dicessi, perché pensa che potrei influenzarti, ma io lo so che non succederà, vero? Tu farai quello che vuoi, come sempre, perché sei un ragazzino cocciuto e testardo. Però io te lo devo dire, che ti vorrei per un anno qui con noi. E non credere, anche a tua madre piacerebbe, però non vuole dirtelo, perché sa che diventerai un grande pianista, e che devi fare la tua strada. –
Tornare a Praga gli sarebbe piaciuto. Anche solo per un anno, come diceva la nonna: tornare a casa, godersi quello che aveva lasciato a tredici anni, e poi ripartire. Però pensava anche a Milano, a Federico, ai maestri, al conservatorio. Piegò il busto appena verso destra, poggiando il capo alle gambe della nonna.
- Io invece vorrei che qualche volta venissi a Milano, babi. Ti porterei a vedere il Duomo, e la Scala, e a girare sul toro alla Galleria, perché dicono che porti fortuna. Poi ti porterei a fare una passeggiata di sera, perché Milano è bella di sera, e ti farei ascoltare la musica dal mio pianoforte di Milano, dentro casa. E poi andremo a mangiare le focacce in un locale buonissimo, e ti comprerei un gelato alla nocciola! –
Avrebbe fatto fare alla nonna le cose che aveva fatto con Federico. Le sarebbero piaciute da matti, perché la nonna adorava il gelato, anche se non poteva mangiarne troppo perché aveva una malattia che le impediva di mangiare troppi dolci.
- Vorresti una vecchietta a Milano? –
- Tu non sei vecchia! – la rimproverò. La nonna aveva appena sessantatré anni, non era vecchia. Aveva un po’ di acciacchi, era vero, ma non era vecchia. – E Milano ti piacerebbe, ne sono sicuro. Poi assaggerai le cose che cucina Federico, sono buonissime, e… -
La nonna rise, travolta dal suo entusiasmo.
- Deve starti proprio simpatico questo Federico! Ne parli sempre! –
Dominik si strinse nelle spalle, raccogliendo le ginocchia al petto. Non ne parlava proprio sempre, ma c’era un motivo, molto spesso, per tirare in ballo Federico, perché tutto quello che aveva fatto a Milano ultimamente era legato proprio a lui.
- Sono contenta che ti sei fatto un amico – soffiò la mamma, con la sua voce dolce e morbida.
Dominik si alzò in piedi mentre lei non aveva ancora finito di parlare.
- Vuoi sentire Mozart, mamma? – le chiese, sedendosi al suo posto.
Avvertì il fruscio dei vestiti della mamma mentre si sistemava i vestiti, probabilmente passando le mani sulle gambe, come a lisciare pieghe inesistenti sui pantaloni.
Era un vizio che avevano in comune, quello.
- Cosa mi fai sentire? –
Dominik poggiò le dita sui tasti del pianoforte, su quelli bianchi: le mani erano abbastanza distanti da permettergli di tenere i gomiti abbandonati di lato, non troppo stretti sul torace.
Iniziò dalle prime note di quell’allegro, che sapeva che alla mamma sarebbe piaciuto molto. Piaceva anche a lui, perché era come se le dita cercassero di inseguire la musica mentre quella correva in avanti, come un gatto che correva e agitava tutto il mondo intorno.
Però c’era qualcosa che non andava, perché non c’era solo quella musica, ma un’altra musica, un trillo insistente e fastidioso.
Smise di suonare, seccato perché quel trillo aveva interrotto l’allegro proprio mentre iniziava a sorgere dal buio. I passi affrettati di Aneta si spensero verso il corridoio, poi si riaccesero mentre si avvicinava, portando con sé quel trillo. Quando parlò sembrava stranamente delusa.
- E’ il tuo cellulare che suona, Dominik – disse, e il trillo si avvicinò ancora, insieme alla mano calda di Aneta.
Dominik strinse il piccolo cellulare che suonava tra le dita; stava vibrando, ed era caldo, e suonava in modo insopportabile. Doveva essere Federico, per forza: il numero di quel cellulare lo avevano solo lui, la maestra, e la mamma. Poteva essere solo lui. Doveva essere lui.
Cercò con il polpastrello il tasto sopraelevato a sinistra, quello per rispondere, e portò l’apparecchio all’orecchio. Finalmente il silenzio. L’altra mano era rimasta sui tasti del pianoforte.
- Federico? –
Dall’altra parte dell’apparecchio non giungevano rumori di sottofondo, se non un chiacchiericcio soffocato, probabilmente proveniente da un’altra stanza rispetto a quella da cui stava parlando l’interlocutore. E poi arrivò la voce, e fu come una carezza bollente sullo zigomo.
- Come hai fatto a capire che ero io? –
La voce incredula di Federico, quel tono a metà tra il divertito e il sorpreso, insieme a quell’incapacità di trattenere una domanda potenzialmente inopportuna.
Era sempre Federico.
- Questo numero ce lo avete solo tu, la maestra, e la mia famiglia. Loro sono qui, la maestra durante le vacanze non chiama mai…non potevi essere che tu – gli spiegò. Avrebbe voluto dirgli anche che un po’ ci sperava, però non lo fece. Avrebbe anche voluto chiedergli di Manfredi, se lo avesse visto, se si fosse fatto trascinare da lui di nuovo in quel baratro buio, o se stesse bene. Avrebbe voluto chiedergli di Samuele, se stesse bene, e di Milena, e di come fosse Palermo, se gli fosse mancata abbastanza da spingerlo a non tornare più a Milano. Invece non disse nulla, lasciando che fosse Federico a parlare.
- Oh, beh…Ti ho chiamato per farti gli auguri di Natale. Che facevi?...No, aspetta, fammi indovinare…o stavi suonando, o stavi mangiando schifezze al cioccolato! –
- Tutte e due – gli rispose, e quasi all’istante Federico rise, di una risata morbida e calda.
Gli venne da sorridere, e la mano scivolò via dal pianoforte, poggiandosi sulla gamba. Avvertì il calore del proprio corpo sulle punte delle dita; era come quando sfiorava Federico, erano caldi uguali. Solo le mani di Federico erano sempre più calde.
- Tu cosa stavi facendo? – gli chiese, stringendosi nelle spalle. Lo sentiva respirare al telefono, ed era come ritrovarsi insieme sul divano a scambiarsi notizie sulle rispettive giornate. Solo che, attraverso il telefono, Federico non poteva sfiorarlo per sbaglio mentre sistemava la coperta sulle gambe.
- Ho affrontato un pranzo interminabile con una famiglia troppo numerosa, e adesso stavamo giocando un po’ a poker. Ho già perso quasi quindici euro, mentre quello stronzo di Manfredi si sta riempiendo le tasche! –
- C’è anche Manfredi? – Non avrebbe dovuto chiederglielo così, però era sorpreso, e confuso. Se Manfredi gli aveva fatto tanto male, se a malapena sopportava di vederlo, perché era a casa sua, il giorno di Natale?
- Viene tutti gli anni, il pomeriggio di Natale, per giocare a poker. –
Federico parlava quasi come se fosse indeciso, come se si chiedesse se fosse il caso di dirglielo. Lui era sempre più confuso, perché non riusciva a capire: avrebbe voluto chiederglielo, ma temeva di offenderlo, o di farlo sparire di nuovo in quella nuvoletta scura dove si rintanava a volte.
- Abbiamo sistemato le cose, comunque….più o meno. Va un po’ meglio, adesso. E ho sentito Samuele, a proposito, ti manda i suoi saluti!  -  Sorrise.
- Davvero? –
- Certo. Perché dovrei dirti una bugia, scusa? –
- Mh…non lo so. – La verità era che riteneva difficile che qualcuno pensasse a lui, che chiedesse addirittura di salutarlo, però in fondo Samuele era buono come Federico, e gli era sempre stato simpatico. Erano un po’ uguali, Samuele e Federico. Erano buoni uguali.
Federico, all’altro capo del telefono, sorrise.
- Com’è lì a Praga? Fa freddo? –
- Poco più che a Milano. –
- Sapessi qui, c’è un sole caldissimo! Non ti invidio proprio! –
Dominik si mordicchiò il labbro inferiore con i denti. Affossò letteralmente il bordo inferiore dei denti nella mucosa del labbro.
- Sono contento che mi hai chiamato – gli confessò alla fine. Federico, che stava dicendo qualcosa, si zittì: poteva giurare di averlo sentito espirare, nel silenzio.
- Quando torni a Milano? – gli chiese, con la sua voce calda.
- Diciotto gennaio. – Sembrava terribilmente lontano a dirlo così. Federico fischiò.
-  Sarò solo per un bel po’ allora! Io torno il dieci gennaio, non ho potuto prendere troppe ferie adesso. – Una pausa, un lieve fruscio. Forse Federico armeggiava con dei fogli di carta, dall’altra parte del telefono. Poi una voce maschile, il rumore di una porta, la voce di Federico.  – Devo andare Dom, scusa! Una sera di queste ci sentiamo su skype, magari parliamo un po’ di più. –
- Va bene. Ciao Federico. –
Sentì appena il suo saluto morbido prima di chiudere la comunicazione.
Era giunto alla conclusione che la mamma avesse ragione riguardo alle persone e alle parole. Era tutto dai toni, che si capiva, dal loro modo di muoversi.
A telefono, Federico non era Federico. Erano state parole vuote le loro, uno scambio di informazioni reciproco, privo di quella dolcissima tensione che si creava quando stavano seduti sullo stesso divano.
Il diciotto gennaio era ancora più lontano. 
 

§§§

 
Il soffio caldo del vapore gli accarezzava il viso.
Inspirò. Era una sensazione simile a quella che provava da bambino quando sua madre lo obbligava a fare l’aerosol.
- Samuele? –
- Sono in soggiorno. –
Avrebbe dovuto essere incazzato. Triste anche, forse, invece era solo stanco.
La sagoma alta ed elegante di Riccardo comparve nello spazio incorniciato dalla porta di legno chiaro. Stava sorridendo, con ancora indosso il cappotto, sopra il vestito scuro, con qualche goccia di pioggia sulle spalle.
- Ciao – lo salutò, con voce carezzevole e le mani già tese in avanti, per imprigionarlo in un bacio. Ma Samuele rimase fermo dov’era, in piedi dietro un asse da stiro dove stava stirando delle magliette appena lavate. Le mani di Riccardo ricaddero lungo i fianchi.
- Lo capisco se sei incazzato, Samuele, ma cerca di capire…Natale è proprio un periodo impossibile! –
- Non sono arrabbiato, infatti – gli disse soltanto. Piegò accuratamente la maglietta blu scuro, sollevandola per adagiarla sul divano, prima di poterla riporre nell’armadio in camera da letto. Riccardo non si era ancora tolto il cappotto. – Puoi anche toglierlo, sai benissimo dove metterlo. –
Quasi obbediente, Riccardo fece scivolare il cappotto lungo le braccia, ma piuttosto che appenderlo all’ingresso, lo poggiò con cura sul divano.
- Mi sembra tutto il contrario. –
Samuele tornò al suo posto, tirando via la corrente al ferro da stiro nuovo che aveva comprato appena tre settimane prima e che non aveva ancora capito bene come funzionasse esattamente.
Avrebbe voluto picchiarlo, mollargli solo un cazzotto, per pura soddisfazione, e poi tornare a baciarsi come prima, come se non fosse successo niente. Invece si rimise in piedi, sollevandosi dalle ginocchia, fermandosi a guardare il suo compagno. I capelli brizzolati erano lievemente umidi.
- Non sono incazzato, sono stanco, Riccardo. –
- Sei stanco? –
- Sì. Sai cos’è…è che arrivi a un certo punto della vita in cui pensi che sarà tutto in discesa, che quei casini che hai fatto per trent’anni, per costruirti la tua vita, alla fine ti diano una stabilità. Che ti possa godere la vita, insomma. Invece, guarda un po’, non succede. –
Riccardo lo afferrò per il braccio.
- E’ per quello che è successo che dici così! Che diamine, Samuele, non hai diciotto anni e il cervello pieno di sogni idioti! Non sono riuscito a passare, lo sai che proprio a Natale è un casino! –
Samuele rimase lì dov’era, perché non aveva voglia nemmeno di scrollarsi da quel tocco.
Riccardo non aveva capito, forse non lo aveva capito nemmeno lui.
Andava avanti così da cinque giorni, da quando aveva preso un giorno libero, per la vigilia di Natale, perché tutti gli anni Riccardo passava per un’ora da lui, prima di rintanarsi in casa a fare la farsa con la sua bella famigliola felice. Ogni anno faceva male: non gli importava di scambiarsi i regali, di fare belle cene o di bere costoso vino. Gli sarebbe bastato solo averlo vicino, essere a casa insieme a guardare quei film ridicoli che mandavano in onda tutti gli anni, e fare con lui tutte le cose che si facevano gli altri giorni dell’anno. Gli sarebbe bastato non essere solo il giorno di Natale. Ogni anno, però, cercava di capire che, per uno come Riccardo, non presentarsi a casa quando era piena di parenti, sarebbe stato difficile. Allora sopportava, sorrideva, e si diceva che non gli importava, perché Riccardo passava mezz’ora da lui, anche solo per fargli gli auguri.
Quell’anno, però, aveva voluto fare qualcosa di più, credendola una cosa carina. Aveva comprato un pollo, che sapeva che gli piaceva parecchio, e aveva preparato la cena alle sei del pomeriggio: aveva comprato un pandoro, e lo aveva farcito con la crema al mascarpone, che Riccardo la adorava. Aveva addirittura comprato un albero di Natale tutto spelacchiato, quattro palline rosse, una stella un po’ storta e un festone dorato che perdeva continuamente filamenti di carta luccicante. Era venuto fuori un albero patetico, ma non gli importava troppo: non ne faceva uno da quando, a diciotto anni, se ne era andato da casa dei suoi. Ma Riccardo pensava che l’albero di Natale fosse la cosa migliore di quella festa, e allora lo aveva preso per lui. La sua idea era quella di avere un Natale con lui, condensato in un’ora: avrebbero mangiato il pollo, il dolce, bevuto il vino, avrebbero fatto l’amore in quel salotto, magari urtando per sbaglio quell’albero di Natale e distruggendolo completamente. Ci stava pensando, quella sera, proprio mentre era arrivato un sms di Riccardo, nel quale si scusava di non poter passare da lui, perché sua moglie lo aveva pregato di prendere due cose al supermercato prima di cena, e che tanto avrebbero trascorso insieme il capodanno, in montagna.
Probabilmente non era mai stato deluso come in quel momento: non si era neppure arrabbiato. Con una strana lucidità aveva riposto il pollo e il dolce nel frigorifero, aveva smontato l’albero di Natale e gli aveva trovato un posto nello sgabuzzino, e aveva sistemato il regalo che aveva comprato per Riccardo di nuovo nell’armadio, che glielo avrebbe dato in un altro momento.
Ad ogni singolo movimento che aveva compiuto quella sera, il cuore si era stretto in una morsa, come se qualcuno lo avesse accoltellato e spingesse la lama in fondo a intervalli regolari, e quello si contraesse intorno a quel corpo con il solo desiderio di fermarsi e basta. Aveva trascorso la vigilia di Natale così, seduto sul divano, a guardare un film che aveva visto quasi ogni anno da quando era bambino, mentre dal piano di sopra giungevano le risate e il chiacchiericcio dell’anziana signora che aveva riunito tutti i suoi figli con relative famiglie.
L’ultima cosa che Riccardo avrebbe dovuto fare, di conseguenza, sarebbe stata proprio presentarsi a casa sua, dopo cinque giorni, con un bel sorriso in faccia, a spiegargli che non avrebbe dovuto essere arrabbiato, perché a Natale, proprio, non avrebbe potuto.
- Forse se avessi diciotto anni e il cervello pieno di sogni idioti riuscirei ad arrabbiarmi, e sarebbe anche meglio. Invece, pensa un po’, sono solo stanco. – Scivolò via dalla sua presa non appena lui la allentò. Adesso aveva freddo, sul braccio. – Io vengo dopo qualsiasi cosa Riccardo, persino dopo il vino rosso e i tovaglioli per tua moglie. Sarebbe stato così semplice, che mi stupisce persino che tu non ci abbia pensato. Io sarei andato a prendere queste cose per te, mentre tu finivi al lavoro, così saresti potuto passare da me. Invece no. –
- Io…non ci ho pensato, Samuele, era un casino! –
- Appunto, non ci hai pensato. Tu non ci pensi mai a quello che potresti fare per cambiare i tuoi programmi. Semplicemente non ce la fai a passare, e allora pazienza. Però, sai, era Natale, almeno un saluto, o una telefonata, avresti potuto farmela. Invece te ne sei fottuto che il coglione qui fosse a casa da solo a rodersi il culo! –
- Non credevo ci tenessi tanto al Natale. –
- Me ne fotto del Natale!! Volevo solo che tu ci fossi, per una cazzo di mezz’ora in un giorno, quando avevo preparato una serata intera solo perché a te sarebbe piaciuto!! Perché io mi ricordo ogni singola cosa che mi hai detto, le cose che ti piacciono, quei cazzo di alberi di Natale che tua moglie ti vieta di fare tutti gli anni e che tu adori, o il pandoro alla crema che non puoi mangiare perché a casa tua preferiscono tutti la crema al pistacchio. A me fa schifo il mascarpone, fa schifo l’albero di Natale e la carne di pollo mi fa venire il voltastomaco! Ma piace a te, e andava bene. E tu non ti sei degnato neppure di venire. –
Adesso l’espressione di Riccardo era cambiata.
Non c’era più quel sorriso velato, o l’irritazione crescente.
Le pupille si erano dilatate, le labbra dischiuse, e le braccia lungo i fianchi si erano irrigidite. Sembrava avere paura adesso, come se potesse aggredirlo da un momento all’altro e sbatterlo contro la parete per riempirlo di pugni. Avrebbe dovuto avere paura di altro, invece, di quel sentimento che gli stava spaccando il cuore a metà, e che non riservava altro che delusioni, una sull’altra.
Di fronte al suo silenzio, Samuele sospirò, sollevando una mano in aria, come se fosse sufficiente a scacciare i mostri di quella delusione. Gli sarebbe passata, con il tempo.
Ma Riccardo lo bloccò, afferrandolo per un braccio e risalendo poi fino a prendergli il viso tra le sue mani fresche e morbide.
- Mi dispiace, Samuele, davvero, ma questo è l’ultimo Natale che passiamo così. A giugno mio figlio si diploma, le cose si sistemeranno. Abbi solo un altro po’ di pazienza. –
Chiuse gli occhi nello stesso istante in cui le labbra di Riccardo si avvicinavano e sfioravano le sue.
- E poi domani io e te partiamo e ci godiamo una bella vacanza in montagna. Ho prenotato per te una piccola baita, la adorerai. – Un altro bacio, uno ad ogni parola tra una carezza e l’altra.
Poi Riccardo si allontanò appena, per armeggiare con le tasche del suo cappotto.
- A proposito, ti ho portato i soldi, così non avrai problemi a… -
- I soldi? – Riccardo sollevò il apo di fronte al suo tono interrogativo.
- Te l’ho detto che questa vacanza è un mio regalo, e che pagherò io. Credevo fossi d’accordo. –
Dalle tasche del cappotto, Riccardo tirò fuori due mazzette di banconote. Non aveva mai visto così tanti soldi tutti insieme, nemmeno nella cassa del locale: erano banconote da cento e duecento euro. Quando l’uomo fece per avvicinarsi, Samuele arretrò come se quello avesse in mano dinamite. Riccardo li poggiò sul tavolo del salotto, guardandolo in modo interrogativo, e Samuele portò le mani avanti.
- Non voglio i tuoi soldi. –
- Non ricominciare, Samuele, voglio farci un regalo! –
- Non così. Se vuoi pagare, se ci tieni tanto, fallo, ma non voglio i tuoi soldi. Posso pagare da me. –
Riccardo espirò.
- Cerca di capire, non posso fare un accredito io al gestore, o si chiederanno perché io stia pagando una baita, il ristorante, e tutto, a uno sconosciuto. Invece dando i soldi a te puoi pagare tu, ma è come se lo facessi io. –
Lo aveva quasi dimenticato, con tutte quelle belle parole e quelle carezze, che loro in quell’occasione sarebbero stati sconosciuti, davanti a tutti. Riccardo gli aveva spiegato che trascorreva spesso le vacane lì, che lo conoscevano tutti, e ci sarebbero stati gli amici di suo figlio.
Loro due si sarebbero incontrati quasi per caso, lui l’avrebbe presentato come un vecchio cliente del suo studio legale, e tutto si sarebbe chiuso lì: così, aveva detto Riccardo, potremo passare le giornate insieme senza insospettire nessuno, e la notte mio figlio farà così tardi che crederà che io sia con gli uomini a giocare a carte, invece che con te.
Adesso gli sembrava tutto terribilmente squallido. Mentire davanti a tutti, godere di Riccardo la notte, al buio di una baita riscaldata, mentire a un ragazzino di diciotto anni convinto che suo padre lo avesse portato in montagna solo per passare del tempo insieme.
Andare in giro con i soldi di Riccardo in tasca. Come una puttana d’alto borgo.
Non l’avrebbe sopportato.
Fece un passo indietro.
- Non posso venire, Riccardo. –
- Smettila, Samuele, davvero, non… -
- Non posso venire. Non ce la faccio. E’ troppo. –
Riccardo lo fissò, battendo le palpebre una sola volta. E Samuele crollò seduto sul divano, stropicciando le maglie che aveva appena stirato, senza curarsene. Nascose il viso tra le mani, con i gomiti poggiati sulle ginocchia.
- Non posso venire, davvero. Non potrei sopportare di trovarmi tuo figlio davanti, magari vederlo gentile con me perché crede che io sia solo un cliente di suo padre, sapendo invece che io e suo padre scopiamo! Non sopporterei di andare in giro con i tuoi soldi, come una puttana, e mentire davanti a tutti. Non ce la faccio, veramente. –
- Noi siamo qui, e mio figlio crede comunque che io sia a lavoro. Qual è la differenza? –
- C’è la differenza! -  Sollevò gli occhi, incrociando quelli di Riccardo. – Perché io sono qui, e mi sento pulito, a modo mio! Ti amo, non pretendo niente da te, o almeno ci provo, e se tuo figlio mi vedesse, un giorno, lo farebbe sapendo chi sono! Ma se io venissi in montagna con te e tuo figlio…sarei solo uno sporco pezzo di merda bugiardo, che ha mentito davanti a tutti e davanti a un ragazzino! No, Riccardo, non ci vengo. –
Nascose di nuovo il capo tra le mani.
Si stava spezzando ad ogni respiro. Non aveva mai pensato a quanto fosse squallida la situazione nella quale si trovava, però non era colpa sua se si era innamorato di un uomo sposato.
Cercava di non fargli pressione, di aspettare che fosse pronto, eppure non era giusto neppure che fosse lui a soffrirne se quell’uomo non amava più sua moglie e amava lui.
La mano di Riccardo si poggiò sulla sua spalla, seguita subito dopo dal suo braccio, dal suo corpo, dall’altra mano, in un abbraccio morbido.
- Non è colpa tua, Samuele. Ma abbi solo un po’ di pazienza, sto facendo quello che posso – gli mormorò. Alzò il viso, sotto la spinta delle sue dita che premevano sul mento. – Con quei soldi faremo un altro viaggio, senza nessun altro. Noi ci godremo questa serata. Sarà l’ultima serata dell’anno, no? Dobbiamo festeggiare. –
Gli venne un po’ da sorridere, mentre Riccardo affondava la lingua nella sua bocca.
 

§§§

 
Era uno di quei giorni in cui, dopo 365 giorni trascorsi a dimenticare il terrificante Natale precedente, tutti i motivi che avevano portato a detestarlo ritornavano freschissimi.
Gli capitava tutti gli anni, il 2 di Gennaio.
Di solito si svegliava con un mal di testa allucinante, la nausea e i coglioni fino al pavimento.
Quell’anno, in aggiunta, c’era una sensazione opprimente alla bocca dello stomaco.
Per un insieme di cose che rimandavano tutte al fatto che se ne stesse seduto di fronte al computer alle due del pomeriggio.
Era iniziato tutto quella mattina, quando si era svegliato e aveva chiamato Samuele. Aveva provato a rintracciarlo il giorno prima, per fargli gli auguri, ma quello non aveva risposto: allora aveva pensato che dovesse essere ancora in montagna con Riccardo. Ci aveva riprovato quella mattina, e quando Samuele aveva risposto, aveva scoperto che fosse rimasto a casa per tutto il tempo, perché alle fine non se l’era sentita di partire con Riccardo e trovarsi suo figlio davanti.
Forse erano state le parole di Samuele su Riccardo, sulla situazione in cui si trovava, forse il maglione di Manfredi abbandonato sul pavimento dalla sera prima, quando era stato a casa sua a giocare a carte, forse quella sensazione di inquietudine con cui apriva gli occhi tutte le mattine chiedendosi quanto mancasse al suo ritorno a Milano, fatto sta che prima di pranzo aveva chiamato Dominik. Era stata una chiamata velocissima, per chiedergli di connettersi su skype, e lui aveva risposto che sua sorella era fuori con la madre, ma che sarebbe tornata presto, e si sarebbe connesso per le due.
Così Federico aveva pranzato in camera sua, e dall’una e mezzo se ne stava a fissare lo schermo del computer, in attesa. I suoi genitori erano usciti presto per andare a lavoro, quella mattina: lavoravano entrambi in banca, e non tornavano mai a casa prima delle sei del pomeriggio. Anche per pranzo preferivano restare in centro, perché per tornare a casa e poi di nuovo al lavoro ci avrebbero messo due ore.
E lui se ne stava lì, da mezz’ora, ad aspettare che il nome Aneta Marek comparisse sullo schermo del computer.
Parlare al telefono con Dominik non gli piaceva per nulla: era letteralmente ermetico nel modo di parlare, e non si capiva mai cosa stesse pensando. Era completamente diverso dall’averlo vicino: quando erano a casa insieme poteva sempre cogliere una scintilla di ripensamento nel suo modo di muoversi quando gli dava una risposta e poi si pentiva, o un accenno di divertimento o di dubbio nella sua voce, accompagnato da un gesto nervoso della mano.
A telefono, Dominik era uno sconosciuto.
Con Manfredi non avevano più parlato veramente: erano usciti insieme, si erano comportati come sempre, si erano lasciati sfuggire qualche sguardo e una carezza, ma niente di più. Manfredi lo aveva accuratamente evitato, e lui non era riuscito neppure ad affrontarlo, perché il casino che aveva in testa era ancora tutto lì, ingarbugliato.
Lo aveva sciolto un po’ proprio Dominik, quando aveva parlato con lui al telefono, il giorno di Natale.
- Che facevi?...No, aspetta, fammi indovinare…o stavi suonando, o stavi mangiando schifezze al cioccolato! –
- Tutte e due! –
Dominik era semplice.
Quando voleva.
Era semplice il suo modo di interpretare il mondo, il suo modo di suonare e di proiettare la musica sulle persone e sulle cose. Era stato semplice anche parlarci, per quel poco tempo: era stato come riportare l’ordine.
Palermo lo stava distruggendo, di nuovo. Non sarebbe dovuto tornare, probabilmente, perché non era ancora pronto. Non era pronto a ritrovare Manfredi, ad affrontare il sorriso fiero di sua madre quando lo guardava, sapendo invece benissimo di aver trascorso a Milano i mesi migliori degli ultimi anni, ad assaporare quella città in cui era cresciuto ma che gli stava troppo stretta.
Non era ancora pronto a staccarsi così da Dominik, da Samuele, da Lorenzo, e da quello che era diventato a Milano. A Milano era cresciuto, era cambiato, ma allontanarsi da Samuele e da tutti era stato come strappare da una ferita la crosticina non ancora del tutto formatisi, riaprendo i lembi e facendo scorrere il sangue.
La verità era che non riusciva più a stare a Palermo così.
Voleva tornare a Milano.
Un trillo dal computer lo fece sobbalzare.
L’icona, sul pc, lo informava di avere una chiamata in arrivo su skype. Si affrettò a rispondere, e quando si aprì l’immagine sfocata, un po’ pixelata, distinse subito la matassa di capelli biondi che aveva imparato ad associare a Dominik. Stava agitando le mani, e parlava nella sua lingua d’origine, probabilmente con la sorella.
Loro non potevano vederlo, perché lui non aveva installato la webcam. Dominik era cieco, non avrebbe avuto senso. E, in fondo, era un modo per sentirsi un po’ protetto. Un modo un po’ infantile.
- Federico? Federico mi senti? –
- Si, Dom, ti sento. –
- Oh, allora è vero…credevo mia sorella mi stesse facendo uno scherzo. –
Federico sorrise, stringendosi su se stesso.
La figura di Dominik gli appariva dai colori poco vivaci, attraverso la webcam, ma era tutta lì. Era lì con i suoi capelli biondi, con le guance un po’ arrossate e le labbra carnose, con le mani poggiate sul piano di una scrivania di legno scuro come se fosse la tastiera di un pianoforte. Indossava uno dei suoi maglioni sformati, ma teneva le maniche sollevate fino a gomiti, mostrando la pelle chiara degli avambracci. Sarebbe rimasto ore così, a fissargli le mani, con quella strana irritazione pe il non poterle sfiorare come faceva di solito.
Era la prima volta che lo “rivedeva” da quando si erano lasciati a Milano.
La prima volta da quando aveva fatto quel sogno assurdo.
La prima volta da quando era riuscito ad ammettere, a se stesso e a Manfredi, che gli piacesse.
E nonostante sarebbe dovuto essere strano, non c’era mai stato niente di tanto naturale.
- Come stai, Federico? –
Dominik aveva reclinato il capo di lati, e le mani erano sparite, finendo sotto la scrivania, probabilmente poggiate sulle sue gambe. Come se gli avesse letto nel pensiero, gli aveva tolto la possibilità di fissare quelle dita sottili. Lo faceva sempre anche quando erano insieme e si sentiva osservato.
- Bene, Dom. A parte che non credo di aver mai mangiato così tanto in un anno intero, però bene! Tu come stai? –
- Bene. Ho fatto sentire alla mamma tutte le ultime cose che ho imparato, anche se a lei piace Chopin, e il lo suono per lei. E mia sorella Jana ha imparato a leggere, e ha raccontato una poesia di Natale che ha imparato a scuola. E poi Aneta, ti ricordi di Aneta vero? La nonna diceva che lei e Roman erano fidanzati perché erano andati al cinema insieme… -
- Si, Dom, me lo ricordo – gli rispose ridacchiando per tanto entusiasmo. Non aveva mai visto Dominik tanto preso da qualcosa. Lo rendeva più…umano.
- Ecco, aveva ragione la nonna, perché Aneta si è fidanzata con Roman, anche se il papà non è che sia tanto d’accordo. Però tu avevi detto che non sempre se due persone vanno al cinema insieme allora sono fidanzate – osservò, con un’espressione confusa che lo fece sorridere. Odiava quella webcam, che con quella bassa qualità gli impediva di godere appieno delle sfumature nella sua espressione, ma sempre meglio che niente. Federico si sistemò meglio sulla sedia, piegando il busto indietro e reclinando appena lo schienale.
- E’ così infatti. Non sempre sono fidanzate, ma possono anche esserlo. Dipende dalle persone, Dom. Ci sono quelle che escono insieme perchè sono amici, e quelle che sono fidanzate. –
DOmink annuì vigorosamente, come se all’improvviso lo avesse colpito una rivelazione.
- Sì, è vero. Anche io e te usciamo insieme perché siamo amici. –
- Ehi, si, visto? –
Deglutì, mordendosi la lingua. Si sentiva un po’ un verme, perché aveva appena pensato al sogno che aveva fatto, a quella lieve consapevolezza che Dominik non lo vedesse poi più tanto come un amico. Però non gli disse niente, perché le cose erano già abbastanza incasinate così. Non gli era bastato innamorarsi del suo migliore amico, no! Adesso doveva anche piacergli un ragazzino fissato con la musica, e sicuramente etero! Avrebbe voluto chiederglielo, però. Dominik, sei etero?
Se lo immaginava già quanto sarebbe stata stupida quella domanda.
- Ci sei stato al mare, Federico, adesso che sei a Palermo? – gli chiese poi Dominik.
- Ci sono stato una volta. - 
C’era stato con Manfredi, il giorno dopo Santo Stefano. Manfredi aveva il giorno libero al lavoro, ed erano scappati a Mondello, di prima mattina, perché c’era un sole spettacolare.  Poi, però, a mezzogiorno il cielo aveva iniziato a oscurarsi all’improvviso e loro, che a Mondello c’erano andati con gli scooter di quando erano ragazzi, erano arrivati a casa di Federico zuppi di pioggia.
Si ricordava benissimo di quando Manfredi, sfilandosi il maglione e appoggiandolo alla sedia in cucina, aveva borbottato che adesso è tornato il sole, bel pezzo di merda.
- Ci sei stato con Manfredi? – La voce di Domink colpì come una stilettata dritta al centro del petto.
- Perché? –
- Tanto lo so che ci sei andato con lui. Si capisce dalla tua voce che anche se ti sei divertito sei triste, perché c’era lui. Io non ti capisco, Federico. -  
- Guarda che io non ho usato proprio nessuna voce, come dici tu! – Tentava di difendersi, ma non stva mentendo. Non era veramente “triste”.
- Invece sì, si sente tutte le volte che parli di Manfredi. E se lui è stato così cattivo con te da farti parlare così anche dopo tutto questo tempo, perché continui a starci insieme, ad invitarlo a casa tua, ad andare al mare con lui? –
Ragazzino cocciuto e indisponente.
Aveva letteralmente perso il conto di tutte le volte in cui avevano affrontato quel discorso, e puntualmente non erano mai giunti a una conclusione, perché lui continuava a dire che erano comunque amici, al punto da non potersi allontanare davvero, e Dominik si fissava che chi si comportava male non poteva essere considerato un amic.
Alla fine lasciavano perdere, e Dominik si lasciava corrompere da un quadratino di cioccolato.
- Te l’ho spiegato, Dom. Siamo amici io e Manfredi, e tra amici funziona così. Anche se uno dei due fa degli errori, l’altro lo perdona, anche quando ad altre persone sembra una cosa imperdonabile. – Dominik assunse un’espressione corrucciata.
Ecco, adesso avrebbe voluto averlo vicino, sul loro divano a casa. Avrebbe seguito il decorso di quelle labbra imbronciate con le dita, e probabilmente non sarebbe riuscito a fermarsi.
Lo avrebbe convinto che aveva ragione lui, o forse lo avrebbe irritato ancora solo per non fargli perdere quell’espressione terribilmente eccitante.
- Ti faccio un esempio. Se io facessi qualcosa di brutto a te, una cosa qualsiasi, tu non mi rivolgeresti più la parola? –
- Tu non faresti mai una cosa cattiva. –
- Sono umano, Dominik, potrebbe succedere, ed è successo spesso. Ma sto parlando per ipotesi. Se succedesse. Rispondimi. –
Dominik dischiuse le labbra, poi le chiuse di nuovo del tutto, spingendosi indietro sulla sedia che occuava e raccogliendo le ginocchia al petto. Non ci entrava proprio in quel modo in quella sedia piccola, ma si stava raggomitolando tanto perché, cocciutamente, doveva entrarci.
- Credo che ti parlerei. Mi arrabbierei, però non riuscirei a non parlarti – confessò alla fine, con voce bassa e terribilmente morbida, perché l’idea di avere avuto torto doveva risultargli insopportabile.
Federico sorrise, raddrizzandosi sulla sedia e spingendo il busto in avanti, ancorandosi con i gomiti sul piano della scrivania. Era vicinissimo allo schermo, nella vana speranza di sentirlo più vicino così.
Ma Dominik era lo stesso terribilmente lontano.
- E dimmi, ti sono mancato? – lo provocò.
Non avrebbe dovuto farlo. Forse, se fosse stato più lucido e meno preso dall’entusiasmo di averlo di nuovo davanti così, attraverso uno schermo impersonale, non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di pronunciare una sola parola. Ma Dominik era lì, strano nella sua momentanea fragilità, quella n cui aveva gettato le armi a terra per concedergli ragione almeno su una cosa, e lui non voleva sprecarla a parlare di Manfredi.
Domiik dal canto suo non fece una piega. Fece scivolare via le gambe dal petto, ma le incrociò sul piano della sedia, nascondendoci in mezzo le mani. Doveva averle poggiate sulle cosce, sul ventre. Federico si chiese quanto potesse essere caldo, lì, il corpo di Dominik.
- Si – mugolò alla fine, un incrocio tra la delusione di essere di nuovo debole e la consapevolezza che, in fondo, quella fosse solo la verità.
A vederlo così, a Federico si strinse il cuore in una morsa, una sensazione di calore e di turbolenza che da dentro il petto si spostava lungo le braccia fino alle mani, e lo riempiva.
Riempiva quel vuoto che la lontananza da Milano aveva procurato, chiudeva i lembi di quella ferita che tornare a Palermo aveva riaperto. E gli animava qualcosa dentro, che lo faceva sentire di nuovo vivo.
Si era accorto che la risposta alle sue domande non fosse tornare a Milano, ma riportare Milano da lui.
- Dominik, senti…ti piacerebbe vedere il mare? –
- Il mare? –
- Si. Vieni qua a Palermo. Solo qualche giorno. E poi torniamo a Milano insieme. –
Suonava tanto simile ad una preghiera, che Federico si fece paura.
- Se puoi, ovviamente. E se vuoi – si affrettò ad aggiungere.
Dominik era rimasto immobile, nella sua posizione di sempre, ma le mani erano tornate sulla scrivania, come se tentasse di aggrapparcisi.
- A Palermo con te? –
- Si! Stai qui a casa da me, c’è la stanza di Milena, e ti porterò al mare, così non mi dirai neppure che vado al mare con Manfredi anche se non devo. –
Dominik sorrise. Era terribilmente soffice il modo in cui sorrideva, che la voglia di afferrarlo per le spalle stava diventando insostenibile. Si era sporto con il busto così tanto in avanti che sarebbe finito di lì a poco contro lo schermo del computer.
SI sentiva una strana frenesia addosso. Adesso che si trovava di fronte la possibilità di rivederlo di lì a pochi giorni, di trovarlo a Palermo, nell’ambiente che lo aveva visto crescere, il tempo sembrava essersi condensato. Anche i movimenti di Dominik sembravano più lenti.
- Dici davvero? –
- Perché non dovrei dire sul serio, scusa? –
- Non lo so, io…le persone dicono tante cose, Federico. Quando me l’hai detto una volta, che sarei potuto passare da Palermo e avremmo visto il mare, ho pensato che fosse una frase come quelle che dice sempre zia Petra, quando promette a me e ad Aneta che ci porterà in vacanza con lei l’anno prossimo e poi non ci porta mai. La nonna lo dice sempre che la zia parla tanto per parlare, però non lo dice mai davanti a zio Viktor, che è suo figlio, perché lui si lamenta sempre che alla nonna sua moglie non è mai piaciuta. – Federico sorrise. Quella storia gli ricordava tanto l’astio di sua nonna per quell’idiota di sua nuora. Certe cose non conoscevano proprio differenze di nazione. Ma Dominik era già andato oltre, agitando le mani in aria. – Dici davvero che posso venire a Palermo con te? -
- Davvero, non sono mai stato così serio! –
- Allora lo chiedo alla mamma e poi ti dico. –
- Dille che penso a tutto io. Vengo a prenderti in aeroporto, ti prenoto anche l’aereo se necessario. Stiamo a casa mia e poi torniamo a Milano insieme. Non ci sarà nessun problema. –
Vieni, Dominik, vieni in questa cazzo di città e portaci tutto quello che mi hai dato a Milano.
Dominik avrebbe esorcizzato quella città, l’avrebbe strappata dalla nuvola di ricordi che la circondavano. L’avrebbe migliorata. E l’avrebbe rivisto, dopo più di dieci giorni che erano parsi un anno.
- Grazie, Federico – lo sentì mormorare.
- Non devi ringraziarmi. Però mi sembri stranamente contento, può darsi? – lo provocò, con una mezza risata. Stranamente, anche Dominik rise.
- Lo sono, perché tu sei buono, e perché mi è mancato parlare con te. –
A me sei mancato tu, avrebbe voluto dirgli. Ed era certo, con una parte del suo corpo, che il significato di quella frase, mi è mancato parlare con te, significasse che gli era mancato tutto, e basta.
- Allora mi fai sapere, Dom?– mormorò, quasi come se avesse bisogno di accertarsi che lui se ne ricordasse, che lo avesse preso sul serio..
- Più tardi chiedo il permesso alla mamma, e poi ti chiamo! – lo rassicurò, con quel viso tutto sorridente che sembrava di essere tornati indietro al giorno di Natale. Gli sorrise di rimando: anche se sapeva che non potesse vederlo, era convinto che, in qualche modo, lui potesse sentirlo.
- Ah, Dom, sai cosa mi è successo l’altro giorno? Ero vicino al Teatro Massimo, qui a Palermo, e… - iniziò a raccontare, con il viso ancora così vicino al computer da entraci quasi dentro.
C’era di nuovo quella strana complicità della loro ultima uscita insieme, quando Dominik aveva voluto concedersi una passeggiata dopo la loro cena fuori e aveva sorriso tutto il tempo.
Tu fai un sacco di cose per me, ma ho la sensazione che non lo sai nemmeno tu perché lo fai.
Eccome se lo sapeva il perché lo faceva.
Si stava cacciando in un mare di guai. Era troppo, troppo speranzoso che lui venisse.
Sarebbe finito in un bel casino.
Ma, in fondo, qualche giorno cosa poteva mai fare?
 

§§§

 
Più tardi, mentre a Palermo era buio e se ne stava seduto su una panchina in Piazza Politeama con gli amici, a Federico vibrò il cellulare. Una sola vibrazione, segno di un sms.
Quando prese il cellulare, vide che si trattava di un sms da un numero sconosciuto.
Alitalia. Sabato 5 Gennaio. Praha (Ruzyne) 8:45 a.m.– Palermo (Punta Raisi) 11:00 a.m.
Federico sussultò.
Appena tre giorni e Dominik sarebbe stato a Palermo.
Lo aveva chiamato appena un’ora prima, mentre a casa era appena uscito dalla doccia, e gli aveva detto, entusiasta, che aveva avuto il permesso.
- All’inizio la mamma ha detto di no, che era pericoloso viaggiare da solo in un posto che non conosco, e che voleva stare ancora con me. Però la nonna si è impuntata e le ha detto che non sono più un bambino e che devo fare quello che voglio, e che se la mamma vuole stare con me può venire lei a Milano. Io le ho detto che le voglio bene, e che vorrei stare con lei, ma le ho anche detto che voglio venire a Palermo da te. E alla fine mi ha detto di sì. –
- Io non volevo crearti problemi, però, Dom. –
- No, la mamma lo ha capito, e mi ha detto di stare attento e di dirti grazie perché mi porterai al mare e mi riporterai a Milano. –
- Quando vieni? –
- Questa sera con la mamma e con Aneta guardiamo i voli e ti faccio sapere. Aneta ha detto che scriverà un sms per me, o che comunque mi aiuterà! –
Il cuore aveva mancato un battito nello stesso istante in cui gli aveva sentito dire Federico, vengo! Tutto il resto - il suo entusiasmo, il racconto di come lo avesse chiesto a sua madre, le domande su cosa dovesse portare con sé - erano state solo la dolcissima continuazione di quello che avevano interrotto a Milano dieci giorni prima.
- …te lo ricordi, Fede? –
Sollevò il viso, e un soffio di aria fresca lo riportò al presente, alla panchina fredda e alle voci dei suoi amici. Era stato Rosario a parlargli, e a chiedergli qualcosa riguardo un particolare che evidentemente avrebbe dovuto ricordare, di una cosa della quale non aveva ascoltato una parola.
Ripose il cellulare nella tasca del giubbotto, per passare inosservato, e si limitò ad annuire con una risata, una mezza bugia che non avrebbe fatto del male a nessuno.
Si voltò subito a cercare lo sguardo di Manfredi, come faceva sempre quando si trovavano insieme. Lui non si era accorto di niente: si era appena acceso una sigaretta e stava mormorando qualcosa all’orecchio di Giulia, una delle ragazze del gruppo, che in tutta risposta rise, quasi con le lacrime agli occhi. Poi, sentendosi osservato, anche Manfredi si voltò verso di lui; gli sorrise appena, sollevando un angolo delle labbra, e Manfredi gli rispose con un occhiolino e un largo sorriso.
In quel momento decise che, per il momento, non gli avrebbe detto nulla della visita di Dominik.









Nota al capitolo 24:
Finalmente ce l'ho fatta!
E' praticamente una settimana che lavoro a questo capitolo, e finalmente sono riuscita a finirlo.
Pensavo di aggiornare domani sera, o martedì sra, e invece sono riuscita a farlo adesso.
In questo capitolo, come si capisce anche dal titolo, abbiamo tre contesti: Praga con Dominik, Milano con Samuele, e Palermo con Federico. Sono tre contesti niti dalla chiamata che Federico fa a Dominik e poi a Samuele, e dalla chiamata in skype che Dominik fa a Federico.
Samuele, alla fine, decide di non andare in montagna con Riccardo. Giuro che all'inizio avrebbe dovuto prendere un aeeo e andare in vacanza con Riccardo, passandosi dei bei giorni, perchè volevo dargli un po' di felicità. Però, alla fine, è venuto fuori così, Samele non c'è voluto andare, decide lui! xD A parte lo scherzo, la situazone sarebbe stta davvero squallida, e Samuele è troppo buono per sostenere una cosa del genere. QUi avete avuto l'immagine di un Samuee un pò provato, stanco, sofferente, ma Samuele non è solo questo: questo Samuele è quello che esiste quando c'è Riccardo, ma il vero Samuele è quello che emerge quando Riccardo non c'è, nemmeno nei suoi pensieri. E' il Samuele dei primi capitoli.
Quanto ai nostri amori.... *_* Alla fine Federico ha invitato Dominik a Palermo. Sono mesi che aspetto questo momento, e quando mi chiedevate di rendere le vacanze un momento che passasse rapido, dovevo trattenermi dal dirvi che alla fine Federico avrebbe ceduto e l'avrebbe invitato! 
Come vedete, Manfredi è una presenza un po' più marginale, adesso, segno che le cose sono cambiate.
E anche DOminik e Federico non sono gli stessi che avevamo lasciato, almeno nella prima parte del capitolo: volevo che emergesse questa differenza nel loro rapporto tra il moemento in cui parlano al telefono, un po' imbarazzati perchè nn si sono visti negli ultimi giorni, e quando si ritrovano con skype di mezzo, in cui Federico riesce a vedere Dominik.
Questo perchè il loro è ancora un rapporto così instabile, che anche il non vedersi per qualche giorno lo fa mutare. Muta di giorno in giorno e di ora in ora.
Una volta che vi ho annoiati così, posso anche rotolare via....xD
Spero che questo capitolo vi piaccia, e ovviamente non perdetevi il capitolo 25! Spero di metterci una sola settimana, ma vedremo come si metteranno le cose!
Nella mia pagina facebook troverete sepre aggiornamenti su come procede la scrittura, e sui nostri personaggi: http://www.facebook.com/pages/100-sbavature-di-Esse/509052772480144
Vi lascio con un bacio e un ringraziamento a tutti, e risponderò prestissimo alle recensioni, non appena riavrò il mio adorato pc, domani, visto che questo l'ho letteramente "preso vigorosamente in prestito!. xD
Alla prossima,
Esse

 

   
 
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