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Autore: Melian_Belt    10/03/2013    3 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il caldo brucia la strada e il vapore sale a deformare l’orizzonte, rendendo l’immagine dei guerrieri che si trascinano per la strada ancora più miserevole. Il cavallo procede lento, per quanto desideri lanciarlo al galoppo verso Ostia, ma soprattutto verso il medico.
Stringo con cautela il braccio intorno al petto di Giuliano, cercando di tenerlo contro di me per evitare che cada in avanti. Ogni buca su cui il cavallo incespica lo fa sussultare dal dolore, nonostante oscilli nell’incoscienza. La benda provvisoria non riesce a fermare il sangue, che mi sembra bollente nel punto in cui infradicia la mia tunica. Piego il capo verso il suo, abbandonato contro la mia spalla. Gli sposto i capelli dalla fronte, liberando il viso contorto dalla sofferenza.
“Ha la febbre…” mormoro, la voce roca. Alessandro, che impassibile ci zoppica accanto, solleva la testa.
Poggia una mano sulla gamba di Giuliano e la stringe appena, un gesto silenzioso che vuole solo far sentire la propria vicinanza. Non mi piace la sua presenza, ma fino ad ora il suo comportamento è stato…apprezzabile. Non lo perdonerò, questo mai, ma è stato un coraggioso difensore della casa e ancora adesso non si allontana mai da noi, scrutando il cugino con occhi cupi.
“Quanto manca per arrivare?”.
“Mezz’ora, continuando di questo passo”.
Emetto un lungo respiro e inizialmente non sento la voce che mi sussurra contro il collo. Solo la seconda volta spalanco gli occhi, a percepire il fiato caldo sulla pelle: “Antares…”.
Il petto appesantito, sposto il braccio per incrociare i suoi occhi: “Giuliano?”.
Le palpebre si aprono lentamente, scoprendo due iridi lucide, dalle pupille dilatate. Un lieve sorriso si tende sulle labbra insanguinate, ma subito si piega in una smorfia: “Vedrai il mare…per la prima volta”.
Rimango per un attimo immobile, prima di esplodere: “Che vuoi che me ne freghi!”.
Giuliano mi guarda stanco, ma con una scintilla di umorismo. Torna a poggiarsi contro il mio petto, sfiorandomi con i capelli che adoro, anche se ora sono sporchi di polvere e sangue. Passo delicatamente le dita tra le ciocche, scendendo per accarezzare il collo.
“Stupido filosofo con la testa tra le stelle…” bofonchio, ma Giuliano non risponde, continuando a rimanere con la fronte bollente stretta contro la mia spalla. Abbasso la voce e gli sussurro piano, così che solo lui possa sentirmi: “Resta con me, va bene?”.
Le sue dita si stringono flebilmente nella mia tunica, ma non apre nemmeno gli occhi, privo di forze. Non è da me, diavolo se non lo è, ma poggio le labbra sulla sua pelle calda e increspata, stringendolo un po’ di più.
Alessandro ha distolto lo sguardo, dirigendolo verso la strada che ancora ci si para davanti. Solo ora noto che ha un taglio profondo sulla coscia destra, che ancora perde sangue e macchia il manto del cavallo. Seguo la scia vermiglia e scorgo una bisaccia dall’aria familiare, quella che Giuliano mi ha donato. Bene, avrò l’occasione di bruciargli davanti quello stupido testamento.
Chissà che fine ha fatto il mantello di porpora, il mio ultimo ricordo è Luciano che me lo pone sopra. Luciano…mi giro verso la città, le fiamme che la invadono si alzano terribili verso il cielo oscurato dal fumo. Non so nemmeno se fosse davvero Greco, se Luciano fosse il suo vero nome. Ma io e questi venti uomini gli dobbiamo tutto, gli devo Giuliano tra le mie braccia. Quindi davvero tutto.
Posso solo sperare che anche la sua vita verrà risparmiata, ma non ho idea alcuna di ciò che si siano detti lui e il capo barbaro, non sono nemmeno riuscito a comprendere in che rapporti fossero.  
Aumento un poco l’andatura e supero due uomini, uno che sorregge pesantemente l’altro. Sono simili, hanno gli stessi colori e lineamenti. Devono essere fratelli, quello che porta l’altro praticamente sulle spalle dev’essere il maggiore. Il sudore gli cola per la fronte e anche lui è ricoperto di tagli e contusioni, ma fissa lo sguardo davanti a sé, portando un piede avanti all’altro con la mascella serrata. Il minore ha il fiato pesante, ma gli occhi sono aperti e presenti. Vorrei potergli offrire aiuto, ma Giuliano è in condizioni più gravi e non posso rischiare di muoverlo.
Lo stringo come il bene prezioso che è e mi costringo a superarli, lasciando indietro anche Alessandro. Sospiro di sollievo e mi sciolgo di un malinconico stupore a vedere un immenso specchio d’acqua che si tende verso l’infinito, brillante di mille scaglie lucenti sotto il sole. Mi hanno detto che l’acqua del mare non si può bere, ma la sua vista non può che evidenziare la mia gola roca e le labbra secche.
Veniamo individuati da sentinelle lontane, sento delle grida e poi il silenzio, poi ancora richiami lontani. Alcuni di noi crollano appena entrati nella città, altri riescono a trascinarsi fino alla casa della famiglia di Giuliano, sotto la guida di Alessandro che è riuscito a tornare alla testa del gruppo. È lui che prende il cavallo per le briglie e lo porta fino ai giardini profumati che circondano la villa, ignorando chi gli chiede notizie della città con l’angoscia nella voce e nello sguardo.
Una donna emette un breve grido e la sorella di Giuliano ordina ad una schiava di portare via le bambine, prima di correre verso di noi. Afferra la mano del fratello: “Giuliano…”.
Le lacrime agli occhi, ci aiuta a farlo scendere da cavallo. Ma non lascio che nessun’altro lo prenda e lo porto tra le braccia fino all’ombra del porticato, che si posa come una carezza sulla pelle bruciante. La donna mi guida ad una stanza, mentre con il fiato spezzato ordina che si chiamino i due medici.
Poggio il corpo inerte di Giuliano sul letto e qualcosa mi muore dentro quando la sua testa cade di lato, a peso morto. Mi inginocchio sul pavimento piastrellato e prendo tra le mie la sua mano, poggiando la bocca sulle nocche rovinate.
Alessandro si mette alla testa del letto, sempre silenzioso. Un uomo sulla quarantina corre nella stanza, con dietro un giovane schiavo.
“Via, fatemi spazio!”.
Trattengo l’istinto di morderlo e mi allontano, ma non districo le dita di Giuliano dalle mie.
Il medico dà una rapida occhiata e subito fa segno allo schiavo di avvicinarsi con vari panni e bisacce. Con delle forbici, taglia la tunica di Giuliano . La sorella, rimasta fino ad allora sul ciglio della porta, impallidisce e si porta una mano alla bocca per il turbamento.
“Vado…vado ad assistere gli altri”.
A passi rapidi, si affretta verso il cortile. Il medico non da segno di accorgersi di ciò che gli accade intorno. Quando uno schiavo porta una bacinella colma di acqua pulita, vi immerge un panno e lambisce la ferita sul fianco per pulirla dallo sporco. Giuliano si irrigidisce e geme di dolore, muovendo appena il collo.
Il secondo medico giunge altrettanto di fretta. In mano ha un calice di vino color rubino e vi mette dentro una polverina nera.
Si rivolge a me con un accento che ricorda quello di Luciano: “Prova a svegliarlo”.
Spalanco gli occhi, orripilato all’idea di rendere Giuliano cosciente per il dolore delle cure: “Cosa?”.
“Deve bere questo. Forza, muoviti!”.
Faccio un po’ fatica a respirare e ho la testa leggera, ma mi costringo a poggiare una mano sulla fronte imperlata di sudore. Lo chiamo due volte, poi lo scuoto piano per una spalla. Gli parlo contro l’orecchio: “Giuliano, devi svegliarti”.
Con cautela, mi siedo sul letto e lo sollevo, poggiandolo contro il mio fianco. Spalanca gli occhi con un sussulto e subito il fiato gli si spezza. Gli prendo le mani prima che riesca a toccarsi la ferita e gli sussurro sciocchezze senza senso per farlo calmare, odiando la sua espressione confusa e atterrita.
Il medico mi porge il calice e glielo porto alla bocca: “Forza, devi bere questo”.
Ma la mente di Giuliano sembra distante e non mi ascolta, sposta il viso con una smorfia disgustata, cerca flebilmente di liberarsi dalla mia presa. L’anziano greco gli poggia una mano sulla spalla e per un attimo i suoi lineamenti si addolciscono: “Figliolo, è la mia bevanda ai semi di papavero. Diminuirà il dolore”.
Malgrado i nostri sforzi congiunti riusciamo a farlo bere solo quando l’altro medico poggia il panno con più forza contro lo squarcio nella carne. La promessa di meno dolore sembra dare un messaggio ai pensieri confusi di Giuliano, che quasi si strozza nell’affannato tentativo di affievolire quello che deve essere un male atroce. Mi sforzo a non guardare il buco che gli dilania la carne, il cui solo pensiero mi fa salire una nausea acida.
Il Greco prende un pezzo di corteccia lungo quanto un palmo e lo mette tra le labbra di Giuliano, che lo stringe disperatamente tra i denti. “Corteccia di salice. Masticala figliolo. Bravo, così”.
Giuliano sembra andare a fuoco, le sue gote sono arrossate e prende ampi respiri col naso. Tossisce e subito Alessandro mi porge un panno bagnato, col quale gli pulisco il viso da sangue e polvere.
Quelli che vengono dopo sono tra i momenti più miserabili della mia vita. Io e Alessandro teniamo fermo Giuliano mentre i medici estraggono schegge dalle sua carne, la puliscono più e più forte. I suoi gemiti strozzati mi echeggeranno nella mente molto a lungo, come ricorderò i suoi grandi occhi sbarrati. Quasi crollo per il sollievo nel momento in cui si arrende all’incoscienza, quando cominciano a suturare.
È ormai il tramonto quando finiscono di curare ogni sua ferita e la stanchezza mi invade le ossa, ma non mi allontano. Alessandro emette un lungo sospiro e crolla a terra, poggiando la testa contro il materasso. Subito i medici si rivolgono a lui ed è semi-svenuto mentre due schiavi lo portano via, nonostante le sue flebili proteste.
Nell’innaturale silenzio che segue, allungo un braccio verso una caraffa colma d’acqua e bevo qualche sorso, con cautela per non agitare il mio stomaco. Le guance arrossate di Giuliano, in contrasto con il pallore del resto del volto, danno un illusorio tocco salubre, ma è la febbre a causarle. Accarezzo i capelli, ora puliti, faccio scorrere la punta delle dita sulla sua spalla, evitando le ferite che la costellano.
Lo copro con un lenzuolo candido e con cautela lo circondo con un braccio. Poggio la testa accanto alla sua, ma non chiudo gli occhi, pronto a vegliare per ogni attimo della notte.   

  
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