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Autore: Laylath    11/03/2013    2 recensioni
Una storia che narra l'arrivo del giovanissimo soldato Kain Fury nel team del Colonnello Mustang.
Non sempre gli inizi sono facili, soprattutto quando si è privi di esperienza e si ha a che fare con compagni così diversi da se stessi: bisogna lavorare bene l'impasto per creare un team affiatato.
E soprattutto bisogna saper crescere
Storia finita di revisionare l'11 novembre 2013
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Team Mustang
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Military memories'
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Capitolo 11. Dolorose considerazioni.

 

Se non fosse stato per la pioggia che si vedeva cadere dalla finestra, si poteva pensare che la scena fosse un dipinto, per l’immobilità che la caratterizzava. La donna soldato stava in piedi davanti ai vetri: in genere così dritta e fiera, in quel momento sembrava che sostenesse tutto il peso del mondo da sola.
L’alchimista di fuoco entrò silenziosamente e rimase per qualche secondo a fissare la sua assistente prima di avvicinarsi a lei.
“Abbassi la guardia in questo modo, tenente?” chiese.
“La prego, signore, non è il momento. E comunque l’ho sentita da quando ha aperto la porta” disse la donna continuando a fissare la pioggia che cadeva.
“Allora sono tranquillo. Posso ancora fidarmi di te come guardia del corpo.”
Non ci fu nessuna risposta questa volta.
Mustang prese a guardare la pioggia che cadeva fitta ed insistente nel cortile del Quartier Generale: gli alberi, il terreno… tutto sembrava incredibilmente pesante.
“Ho letto il rapporto dell’autopsia sul cadavere di Slynt: – riprese dopo qualche minuto di silenzio – a quanto pare era stato ferito da te o da Havoc nell’inseguimento precedente; aveva un proiettile nella gamba desta e una grave ferita nel braccio. Un altro si sarebbe arreso, ma non lui: tuttavia non era chiaramente in condizioni di continuare la fuga e quindi si dev’essere rifugiato in quell’edificio.”
Ci fu solo un breve cenno del capo e il colonnello dichiarò:
“Avete salvato la vita del ragazzo: dubito che in condizioni normali quell’uomo si sarebbe fatto uccidere così facilmente. Dovresti essere sollevata.”
Ancora una volta non ci fu nessuna risposta: la verità era che Mustang sapeva benissimo cosa bruciava l’anima della sua assistente.
“Non lo potevi proteggere da qualcosa di inevitabile per un soldato, tenente; – sospirò con stanchezza dopo qualche secondo  – sarebbe successo, prima o poi.”
“Lo so, signore. – rispose finalmente lei - Ma per Fury non era ancora il momento. Non a diciotto anni… non come è stato per me. Avrei dovuto insistere maggiormente e impedirle di farlo partecipare alla missione: avrei dovuto proteggerlo ancora.”
“Hai ragione, non sarebbe dovuto succedere così presto. – annuì Roy cupamente – Sono io che ho fatto un errore imperdonabile nel calcolare i rischi… Ma oramai è successo ed il ragazzo è forte: si rialzerà.”
“Ma non sarà più lo stesso, signore. – replicò con amarezza la donna - Lei non era lì quando sono arrivata, non ha visto i suoi occhi… la morte sul suo viso… la consapevolezza di…” non proseguì la frase, ma Mustang terminò per lei.
“… di essere un assassino. No, non l’ho vista nel suo viso, ma l’ho vista troppe volte a Ishval, proprio come te. Nei soldati e nei civili… in quei ragazzini che impugnavano le armi per proteggere le loro famiglie o semplicemente loro stessi. Molti erano anche più piccoli di lui.” replicò amaro il colonnello.
“Lo so che è da stupidi, ma il fatto è che continuo a dirmi che forse…”
“Che forse potevamo preservare la sua innocenza? –terminò il colonnello al suo posto – Che sarebbe stata una sorta di redenzione?”
“Non ho mai pensato a Fury come a un riscatto per l’orrore che abbiamo visto a Ishval, colonnello. La prego di non fraintendere.”
“Mi sono spiegato male. E’ che alla fine ci siamo tutti affezionati a lui proprio perché è arrivato con quella… purezza che noi abbiamo perso da tempo, in quel posto maledetto. Lui aveva nello sguardo quell’ottimismo, quella fiducia nella vita che… - si fermò incrociando le mani dietro la schiena e sorrise con amarezza. – In realtà sono uno sciocco, tenente. Da una parte mi dico che è stato meglio levarsi subito il dente, ma in fondo alla mia anima continuo a ripetermi che avevate ragione tu e Havoc: avrei dovuto lasciarlo fuori dall’azione; avrei dovuto proteggerlo, ancora per un po’di tempo. Mi sento davvero patetico.”
La donna guardò per la prima volta il suo superiore e si accorse che gli occhi neri, in genere così decisi, erano pieni di stanchezza. Era raro che Roy Mustang si lasciasse andare in questo modo.
“Non so lei, colonnello, ma a me sembra di essere un genitore che ha sbagliato tutto.” confessò.
“Forse non è tanto fuori luogo come paragone: – ammise Mustang con un sorriso tirato - del resto questa squadra è un po’ una famiglia, no? L’unica cosa che mi consola è che sicuramente con lui ci sono i suoi… fratelli maggiori. Almeno non affronterà l’incubo da solo.”
Il tenente riuscì a trovare un minimo di conforto in quelle parole.
“E’ tardi per stare qui in ufficio, considerato che domani avremo molto lavoro da fare. Andiamo, signore?”
“Vai pure avanti. Io resto ancora qualche minuto.”
“Va bene. Buonanotte, colonnello.”
“Tenente?” la chiamò Mustang quando stava per arrivare alla porta.
“Signore?”
“E’ strano quello che sto per dire ma… – iniziò senza girarsi verso di lei – devo confessarti che domani avrò paura di affrontare il suo sguardo ”
“La capisco. – mormorò la donna - Ma non può evitarlo: dobbiamo prenderci le nostre responsabilità.”
 
Niente di irreparabile.
No, questa frase non suonava più come una volta; ora suonava come la nota uno strumento musicale  che ti ha accompagnato per tutta la vita, ma che all’improvviso si rompe. Perché c’era qualcosa di irreparabile nella vita, qualcosa di orribilmente irreparabile.
Stava seduto sul pavimento della sua stanza, la schiena contro il bordo del letto, con le braccia che stringevano le ginocchia al petto. Cercava conforto in quella posizione fetale che spesso gli aveva dato l’illusione di essere protetto dal mondo esterno, ma questa volta non funzionava: si sentiva oppresso, con l’angoscia che gli premeva dentro il petto e che non accennava a diminuire.
 Se chiudeva gli occhi poteva vedere ancora la pozza di sangue che si allargava sotto il corpo di quell’uomo. Era un pluriomicida, una persona malvagia: sarebbe morto comunque per mano del boia. Eppure c’era qualcosa di sbagliato in quello che era successo. Non aveva il diritto di prendere una vita in questo modo… così facilmente: una sola pressione sul grilletto.
Il tenente aveva ragione: nessuno l’avrebbe potuto preparare a delle sensazioni simili; non il colonnello, non Havoc, non sua madre: nessuno.
Il mondo gli sembrava vuoto, pieno di orrore, di incubi. Non era una goccia di pioggia sugli occhiali, era la realtà: aveva ucciso un uomo. Sentiva ancora le braccia del tenente che lo tenevano stretto, la sua voce che continuava a dire che andava tutto bene. Ma era una bugia, non andava tutto bene. Non era come fare una figuraccia a scuola ed essere presi in giro. Era scoprire di essere capace di levare una vita.
Continuava a ripetersi che era un soldato, e dunque aveva fatto solo il suo dovere. Ma proprio non riusciva a sentirlo come una giustificazione.
Con che coraggio poteva rialzarsi e dirsi che non era niente di irreparabile?
Trasse un breve singulto e subito dopo sentì bussare.
“Ciao ragazzo, eccoti qui” disse una voce mentre la porta si apriva e Havoc, Breda e Falman entravano.
“Per favore - mormorò il giovane, senza riuscire a guardarli – non voglio vedere nessuno.”
“Mhpf – sbuffò Havoc facendosi avanti – non è proprio una bella accoglienza. E pensare che sto rinunciando a una serata al pub per te.”
“Non far caso a questo idiota, Fury. – disse Breda inginocchiandosi accanto a lui – Dovresti levarti questa giacca, ragazzo: è ancora fradicia e rischi di prendere un brutto raffreddore.”
Con apatia non si oppose alle mani del sottotenente che provvidero a levargli l’indumento e poi gli misero una coperta sulle spalle.
“Dai, - proseguì il rosso, provvedendo a frizionargli i capelli umidi con la stessa – asciughiamo questa chioma, piccoletto… coraggio.”
E lui rimase fermo, come un bravo bambino, solo in parte consapevole di quei gesti gentili e del sollievo che la coperta calda stava dando al suo corpo irrigidito.
“Direi che va meglio, – annuì Falman sedendosi nel pavimento, proprio accanto a lui – ora non ci resta che aspettare.”
“Non ne voglio parlare” scosse il capo con voce rotta.
“Nessuno vuole che ne parli. – replicò quietamente il maresciallo, mentre Breda finiva di asciugargli i capelli e li arruffava con gentilezza – Diciamo che la nostra presenza è necessaria”
 “Non capisco per cosa sia necessaria” sussurrò.
“Non sforzarti di capirlo, ragazzo – disse Havoc, sistemandosi nella sedia della scrivania accanto al letto– verrà da sé.”
“Come è giusto che succeda” gli fece eco Breda alzandosi in piedi e portandosi accanto al suo pari di grado.
“Che cosa verrà da sé?” serrò gli occhi, mentre una prima lacrima iniziava a cadere. Non aveva immaginato che le voci dei compagni potessero fargli un simile effetto.
“Ecco, ci siamo: – disse con gentilezza Falman posando la mano sopra la sua testa – direi che siamo arrivati proprio al momento giusto.”
Quel gesto e quelle parole furono la goccia che fece esplodere la diga. A una lacrima ne seguì una seconda e in pochi attimi fu scosso da violenti singhiozzi che gli laceravano l’anima. La mano del maresciallo lo guidò gentilmente nel proprio grembo e lui si aggrappò con gratitudine ai pantaloni del suo commilitone, come se fossero un’ancora in mezzo a una tempesta.
E pianse disperatamente, come mai gli era successo in vita sua.
Tuttavia nessuno dei suoi compagni cercò di consolarlo, di bloccare il suo pianto: si limitavano a stare accanto a lui, con la mano di Falman che gli accarezzava i capelli.
Perché erano lacrime che andavano versate… per la perdita irrimediabile dell’innocenza.
“Dannazione – mormorò la voce di Havoc – qui non c’è nemmeno un posacenere. Eppure sarà una nottata lunga:”



 
  
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