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Autore: Darik    11/03/2013    3 recensioni
Il destino lotta per far accadere ciò che deve accadere, ma i piani millennari sono ormai compromessi, e mentre nuove figure emergono, i vecchi attori cercano di vincere, sopravvivere o almeno vivere.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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4° CAPITOLO

“E così sei riuscita ad arrivare fin qui?”

Mari non poté nascondere una certa sorpresa quando, da una grata della parete, entrò nella sua cella Misato Katsuragi.

La donna aveva un piede leggermente più gonfio dell’altro, perché sotto la scarpa portava una fasciatura.

Si rasserenò alla vista dell’amica, prigioniera ma almeno sana e salva, e le fece cenno di non alzare troppo la voce, perché fuori dalla porta chiusa c’erano otto guardie armate fino ai denti. “Un amico mi ha permesso di scoprire dove ti avevano rinchiuso, e scoperti i meccanismi di sicurezza, non è stato un problema troppo grande eluderli”, spiegò l’ufficiale Nerv. “Certo non posso stare qui tutto il tempo che voglio, ma comunque…”

Il sorriso di Misato si spense, sostituito da una forte rabbia. “So anche cosa hanno fatto a Mana!”, e spiegando questo, strinse entrambe le mani a pugno, tremando fortemente nel tentativo di non gridare.

“Non ci posso credere! Il comandante Gendo Ikari, che maledettissimo stronzo! Come ha potuto farle una cosa del genere?!”

“E’ il tuo superiore, quindi dovresti saperlo tu”, rispose Mari distogliendo lo sguardo.

La sorpresa di prima era passata con la stessa velocità con cui era venuta.

Ora la ragazza prigioniera aveva lo sguardo di chi contempla il nulla.

“Sei arrabbiata con me?”, domandò Misato.

“Forse sì”.

“Ho capito. Temi che ti abbia venduta, che abbia fatto da esca, quella volta al tuo ristorante”.

“Il pensiero mi ha sfiorato”.

“Non ti ho tradita”.

“Una parte di me ti crede. Tuttavia ho imparato che la diffidenza a volte può essere una virtù”.

Misato allora, si avvicinò a un punto di una parete, con sopra una piccola tastiera, che appariva più recente rispetto al resto della stanza.

Il maggiore digitò un codice e come per incanto i blocchi intorno alle braccia e alle gambe di Mari si aprirono.

Anche il campo di forza che la isolava scomparve.

Mentre Mari si massaggiava i polsi, l'altra andò a mettersi davanti a lei.

“Avanti”, incitò con tono deciso.

“Avanti cosa? Non posso scappare. Altrimenti cosa ne sarebbe di Mana?”

“Non puoi andartene, ma puoi sfogarti su di me. Forza, colpiscimi, puoi anche uccidermi se vuoi. Tanto per la Nerv sostituire un maggiore non è certo un problema, e siccome ti sei dimostrata un pilota formidabile con lo 03, dubito che ti faranno del male. Ulteriormente”.

Mari inarcò un sopracciglio. “Se muori, come aiuterai gli altri?”

“E come posso aiutarli tutti se non sono pronta a rischiare la vita per tutti loro?”

L’altra rumoreggiò con le nocche. “In effetti hai ragione”.

Tirò indietro il braccio destro e sferrò un pugno micidiale: considerato cosa era riuscita a fare in precedenza, con quel pugno avrebbe potuto come minimo trapassare la testa di Misato.

Che tuttavia rimase ferma e impassibile, senza neppure chiudere gli occhi.

Il pugno si fermò a contatto con la sua fronte.

“Volevi vedere se mentivo?”, domandò allora il maggiore.

“No. Volevo vedere se eri davvero pronta a tutto. Hai confermato quello che in fondo già sapevo. Sei una brava persona”.

Finalmente Mari le concesse un sorriso, e infine si abbracciarono.

“Mi raccomando”, le disse Mari nell’orecchio. “Dovrai prenderti cura di Mana, oltre che degli altri. Ma dopo”.

“Anche di te. Troverò un modo per farti uscire da qui”, la rassicurò.

“Non ti devi preoccupare per me. Pensa piuttosto ai piani di Gendo Ikari. Ha in mente qualcosa di losco”.

“Lo so bene”.

“Ti avverto: proprio per questo, ora, non devi fare niente. Ikari ha calcolato tutto, non riusciresti a fermarlo. Lascia che la tua Mari dia un bello scossone agli schemi dei cervelloni troppo astuti”.

“Che vuoi dire? Che cosa puoi fare adesso, prigioniera e ricattata?”

Le due si separarono e Mari esclamò: “Lascia fare a me!”, gonfiando i bicipiti del braccio destro e battendoci sopra orgogliosa con la mano sinistra.

L’orologio di Misato emise un segnale.

“La registrazione che ho inserito nelle telecamere per ingannare le guardie sta per concludersi. Devo andare!”

“E allora sbrigati, prima che ti becchino”, concluse Mari tornando in posizione e rimettendosi i blocchi alle gambe, mentre Misato dovette rimetterle i blocchi alle braccia.

La misteriosa ragazza notò lo sguardo addolorato della sua amica ritrovata, le fece l’occhiolino e poi annuì.

Misato a malincuore rimise i blocchi e riattivò il campo isolante.

“Un’ultima cosa. Tieni d’occhio la scuola media. Capirai dopo”, aggiunse Mari.

Il maggiore della Nerv non aveva il tempo di domandare cosa significasse, dovette infilarsi nella grata e chiuderla dietro di sé.

 

“Bleah, che schifo!”, esclamò Asuka spingendo via il tavolino con il pranzo.

Era solo il suo secondo giorno nel centro ospedaliero della Nerv, e le sembrava già un’eternità.

Tra l’altro la stanza era vuota, non c’era neppure un televisore, e il letto su cui sedeva in quel momento era scomodissimo.

Anche il pigiama, era talmente convenzionale che per una ragazza dai gusti raffinati come lei, era quasi un insulto.

Dulcis in fundo, sulla fronte si sentiva ancora le fastidiose ventose dei sensori che le avevano piazzato in testa per controllare le sue onde cerebrali.

Qualcuno bussò.

“Se sei l’ennesima infermiera venuta a farmi l’ennesima iniezione, allora puoi andare al diavolo!”, sbottò Asuka.

Invece la porta si aprì rivelando la presenza di Shinji, imbarazzato come non mai, e anche lui con indosso il pigiama dell’ospedale.

Vedendolo, anche Asuka sembrò rimanere imbarazzata.

“Se… se vuoi…. Me ne vado…”, iniziò Shinji.

“No, vieni pure e siediti qui”, rispose l’altra indicandogli una sedia vicina al letto, e lui ubbidì.

 “Come stai?”

“Non è un grand’hotel”, rispose Asuka sistemandosi i capelli, “ma sto bene. E tu?”

“Io?”

“Non credo che i pigiami da ospedale siano l’ultima moda in fatto di vestiti”.

“La dottoressa Akagi mi ha fatto miriadi di test di ogni tipo. Comunque sembro sempre il solito Shinji Ikari”.

“Meglio così”.

A quel punto calò un silenzio di tomba.

Shinji, nervosissimo, prima di recarsi all’ospedale aveva richiamato alla mente tutto il materiale che il suo subconscio aveva assimilato nel corso degli anni dalla visione di storie d’amore cinematografiche, romanzesche e fumettistiche.

Doveva cercare di elaborare una strategia che gli permettesse di avvicinarsi man mano al bersaglio, cominciare da un argomento apparentemente futile per poi, tramite un complicato intrecciarsi di collegamenti, arrivare al fulcro.

Doveva farlo, il desiderio di sapere era troppo forte.

Prima ci aveva riflettuto a lungo, aveva anche fatto delle prove davanti ad uno specchio, e gli sembrava che fosse andata bene.

Perciò era arrivato il momento di attuare la sua strategia sul campo.

Prese un forte respiro e fece la prima mossa.

“Asuka… tu mi ami?”

A quel punto tre opzioni apparvero nella sua mente: scappare dandosi dell’idiota, oppure svignarsela per sfuggire alla reazione furibonda di Asuka, infuriata per il solo fatto che lui avesse pensato una cosa simile, e infine fuggire disperato se lei invece fosse scoppiata a ridere.

“Sì…”, fu la risposta, detta con un filo di voce da una Asuka che stava a capo chino, senza guardare il suo coinquilino.

A quel punto, privato completamente dei suoi piani, Shinji si ritrovò in balia degli eventi.

“Ti amo”, ripeté Asuka, “non so dire com’è cominciato. Forse avevo pian piano capito cosa c’era dietro la tua passività: la paura, l’incapacità di sapersi legare a qualcuno per il terrore di essere feriti nuovamente”.

La ragazza scese lentamente dal letto, Shinji fece per aiutarla, ma lei con un gesto della mano lo fermò, prese una seconda sedia e la usò per mettersi proprio davanti a lui, guardandolo negli occhi.

Shinji non l'aveva mai visto con un’espressione così seria eppure anche così serena.

“Questa paura”, riprese lei, “nelle notti silenziose in cui ero sola e passavo il tempo a guardare il soffitto, mi rendevo conto di averla anch’io, e rifiutavo questo pensiero, come pure rifiutavo l’idea che tu potessi capire e aiutare me ed io te, che insomma ti amassi. Volli sfidare questi pensieri, cercando in tanti modi di farti comprendere cosa provavo, e ogni volta che tu non capivi, anziché essere contenta della tua durezza di comprendonio, ti desideravo sempre di più e questo aumentava la mia rabbia. Continuavo a ripetermi che tu non eri degno della grande Asuka, una bugia che mi ero detta in continuazione fino a crederci realmente. Però ora qualcuno mi ha sbattuto in faccia tale bugia, con la stessa violenza con cui ti colpirebbe un treno in corsa. Adesso so: siamo come due bambini, che hanno conosciuto la sofferenza troppo presto, e che rifiutano la mano dell’affetto, tu non facendo nulla, io allontanando con disprezzo quella mano. Tutto questo è durato anche troppo, non voglio più farmi del male, né farne a te, devo dire la verità, pura e semplice: mi sono innamorata di te, e vorrei restarti affianco per sempre”.

Shinji fissava la ragazza con occhi sgranati, preso dal dubbio di aver avuto un’allucinazione visiva e sonora: possibile che gli avesse davvero aperto il suo cuore? Davvero in quel momento sentiva un vulcano di emozioni di tutti i tipi agitarsi nel suo petto?

“Però immagino che tu preferisca Mana…”

Quell’osservazione piombò come un macigno su Shinji: “Mana!? E perché?”

“Come perché? E tutti quegli appuntamenti?”

Shinji apparve molto sorpreso, poi sembrò capire e fu quasi tentato di ridere, capendo cosa aveva provato Misato quella volta in macchina.

“No, non è quello che pensi tu. Si trattava di un patto che avevamo stretto io e lei, ed è anche il motivo per cui io ho compiuto le due azioni probabilmente più vergognose della mia vita”.

Asuka si sporse in avanti sorpresa e incuriosita: “E cosa puoi averle fatto di così terribile?”

Dopo essersi preso dei lunghi attimi di silenzio per non farsi travolgere dalla vergogna, Shinji spiegò: “Mana si sentiva sola, per pilotare l’Eva era stata strappata al suo mondo, ed io ho sfruttato il suo bisogno di avere un amico per convincerla a farmi un favore egoista e infantile”.

“Ovvero?”

“Durante quegli incontri, lei avrebbe dovuto parlarmi della sua vita in America. Mana ha una famiglia normale, non rovinata dagli Evangelion, com’è invece per noi, e siccome anch’io ho sempre desiderato avere una famiglia normale, volevo che mi raccontasse quel tipo di vita, in modo che capissi cosa si provava”.

Asuka piegò la testa di lato. “Stai scherzando? Cioè, il grande segreto era solo questo?”

“Lo so che sembra una cosa da niente, ma non bisogna guardare al come, bensì a cosa è successo. Se tu vuoi fortemente qualcosa, e qualcuno manipola il tuo desiderio per soddisfare i propri desideri, a lungo andare come ti sentiresti?

Mana soffriva per questo sfruttamento e quando infine vi si è ribellata, cosa ho fatto io? L’ho odiata. Durante lo scontro col 13° Angelo, sottosotto ho desiderato che morisse!”

Asuka rimase scossa da quella notizia, mentre Shinji iniziò a tremare.

“Ti rendi conto? Ho desiderato che una persona morisse! E tutto perché non riuscivo a capire il suo atteggiamento e volevo vendicarmi. Era per questo che non riuscivo più a pilotare l’Eva. Temevo che avrei potuto desiderare la morte di altre persone, perché non riuscivo a capirle”.

Shinji si coprì il volto con le mani. “Io non merito di essere amato! Sono una persona orribile! Tu… tu mi piaci Asuka, mi piaci da morire! Mi fa felice sapere che ricambi, però ho paura di infettarti in qualche modo, con la mia presenza”.

Il ragazzo, sommerso dalla vergogna e dal rimorso, singhiozzando, non ce la fece più, si alzò per andarsene.

Inoltre era ovvio che Asuka lo avrebbe cacciato in malo modo.

Invece una sua spalla fu afferrata, lui si scoprì gli occhi e si ritrovò faccia a faccia con Asuka.

“Io non sono diversa da te. Quando tu e Mana avete litigato, ed io pensavo aveste una relazione, sai cosa ho fatto? Ho gioito! Ho gioito della rottura tra due persone, pensando che così ci sarebbero state più possibilità di averti tutto per me. E quando mi sono accorta della mia meschinità, mi sono vergognata da morire”.

“Non è una cosa grave quanto il desiderare la morte di qualcuno”, ribatté Shinji.

“Ma non l’hai fatto. Le intenzioni sono gravi, però sei riuscito a non concretizzarle. E’ il famoso limite, superato il quale non si può più tornare indietro”, continuò Asuka. “Tu l’hai sfiorato con Mana, ma non l’hai oltrepassato. Tutti prima o poi sono tentati, Shinji. Bisogna imparare a controllarsi”.

Shinji sorrise e delicatamente si tolse la sua mano dalla spalla. “Un bel discorso. Sei molto maturata, Asuka. Io non merito minimamente di starti vicino. Una persona in gamba come te può trovare tante persone che mi superano in tutto”.

La ragazza scosse la testa. “Non voglio altre persone!”, esclamò, per poi arrossire lievemente. “Io voglio te. Semmai, sono io che non dovrei starti vicina, violenta e meschina come sono. Rischierei di farti soffrire ancora di più”.

 Shinji non ci capiva più niente, le cose si erano complicate più di quanto pensasse e lui non era abituato a quelle situazioni.

Si avviò verso la porta.

Forse la cosa migliore da fare era quella di dedicarsi alla sua attività preferita: fuggire.

“Shinji”, lo richiamò Asuka rimuginando, “tu hai sognato recentemente?”

Il ragazzo si girò a fissarla. “Sognato?”

“Sì. Sai, durante lo scontro col 15° Angelo, ho fatto sia un incubo che un sogno. L’incubo è servito a rivelarmi tutte le bugie su cui avevo costruito la mia vita finora. Accidenti, quanti anni sprecati… Il sogno invece… era bello… ha scacciato l’incubo. Vedevo una luce bianchissima e piacevole… e due figure che mi si avvicinavano. Una di quelle figure…”

“…ero io che ti porgevo la mano”, continuò Shinji.

“Sì. E tu, a tua volta, eri tenuto per mano da un'altra figura, una donna…”

“…con bianche ali d’angelo”.

“Che ci sorrideva come una mamma. Io ho preso la tua mano… e mi sono risvegliata”.

“Nell’ospedale”, terminò Shinji.

In effetti lui, quando aveva visto Asuka sotto attacco, aveva desiderato salvarla a tutti i costi, un coraggio disperato e incosciente lo aveva spinto fino al limite del campo di battaglia, e proprio in quel momento aveva provato una strana sensazione, come un presentimento: poteva salvarla.

Non sapeva come, ma poteva salvarla!

Aveva toccato il raggio psichico…

Qualcosa d’incredibile lo aveva attraversato.

Il sogno.

Poi il buio e infine il risveglio in ospedale.

“Quel sogno. Sono… sono stato io a salvarti?!”, esclamò incredulo Shinji. Lui fino a quel momento non rammentava nulla di quel sogno, ricordava solo di averlo fatto e nient’altro. Erano state le parole di Asuka a risvegliare quei ricordi.

“A giudicare da quello che è successo, direi di sì. Forse qualcuno ti ha assistito, ma sei tu che hai iniziato tutto”.

“Anche se fosse così, dopo quello che ho fatto con Mana…”

“Mi hanno raccontato cosa hai fatto quando la mia mente veniva messa sottosopra dall’angelo. Sei stato molto coraggioso. Rischiare la propria vita per gli altri, non è egoistico, e se hai saputo fare questo, allora sei sicuro di essere veramente una persona orribile?”

“Ma… e non ti fa rabbia che qualcuno ti abbia salvato?”

“In condizioni normali, sì. Però essere salvati da chi si ama, non è certo spiacevole”.

Queste parole furono accompagnate da un sorriso, il più dolce e affettuoso che lei avesse mai fatto, e il giovane Ikari si perse in esso.

Ma fu questione di un attimo.

Perché Shinji si ridestò e cominciò a indietreggiare.

“Non… non posso…Non devi farlo, non per uno come me”, mormorò con gli occhi lucidi.

E scappò via.

“SHINJI!”, lo richiamò, invano, Asuka.

Mentre correva via, il ragazzo cercava di asciugarsi le lacrime con le mani.

“Non… non posso, Asuka. Ho troppa paura per te… e per gli altri…. Sei cambiata così tanto… mentre io… se ti succedesse qualcosa…. Quello che ho fatto a Mana… No!”

Continuò a scappare: non solo dal dolore, ma anche dalla saggezza di Misato, dalla felicità a portata di mano, da tutto.

Fuggire era davvero la cosa che gli riusciva meglio.

 

****

 

Il gigante giaceva immobile nell’imponente gabbia, coperto da drappi scuri.

Diverse aste tenevano sollevate alcune parti dei drappi, per permettere a un gruppo di tecnici di lavorare sul gigante.

Alcuni saldavano strani pezzi metallici, altri invece infilavano dentro le zone aperte dei grossi aghi.

Ne estraevano qualcosa, poi uno di loro analizzava il contenuto estratto con uno strano apparecchio simile a un telecomando.

“Il livello di crescita cellulare è sicuramente ottimale. Penso proprio che saremo pronti tra un mese”.

Da una cabina posizionata parecchio in alto, un uomo con gli occhiali osservava scrupolosamente i lavori.

Indossava una divisa nera, sul petto era ben visibile il simbolo della Seele.

“I nostri capi saranno soddisfatti. Tutto sta procedendo esattamente come preventivato. E questi tecnici della Nerv sono degli eccellenti galoppini, al contrario di quelli della sezione giapponese”.

Dopo aver bussato, entrò un uomo che lo salutò con un rapido cenno del capo e gli passò una cartelletta.

 

Belphagor, nel suo nascondiglio, giocherellava con un telefono portatile, per poi accarezzarsi i lunghi e lisci capelli neri raccolti in una coda di cavallo, il tutto sbadigliando molto spesso.

L’idiota della Seele era stato ingannato perfettamente dall’imitatore vocale che lei aveva costruito e dalla falsa immagine digitale.

Una cosa facile, così com’era stato facile impadronirsi delle password e dei codici d’accesso della Seele.

Eppure i suoi sbadigli non erano dovuti all’eccessiva facilità, ma al fatto che si era stancata troppo: far recapitare a quella sezione il nuovo campione genetico da inserire nell’Evangelion che stavano costruendo, unito ai progetti per la nuova armatura, e infine rassicurare su quei cambiamenti lo scagnozzo dei vecchi, intercettando la chiamata a loro diretta per chiedere delucidazioni.

Troppo lavoro, per lei, e dovette convenire che aveva davvero una predilezione per la pigrizia, ma non le importava, finché non interferiva con i suoi compiti andava comunque bene.

Quindi decise di farsi un riposino.

Tanto sapeva che a vegliare sull’analogo lavoro delle altre sorelle ci avrebbe pensato il fratellone.

  
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