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Autore: Lizard    27/09/2007    2 recensioni
“Chiudiamo qui, Draco” sussurrò atono, come se stesse ripetendo una preghiera imparata a memoria, in una chiesa buia e isolata, dove il rumore avrebbe infranto il credo, spezzato la magia dell’illusione di Dio. E poi ero io il bastardo. * Non c'è miele in questa storia, ci sono pensieri salati, c'è l'amarezza di scelte che non si dovrebbero dover scegliere mai... ma che altrimenti non possono essere. C'è solo fretta di dare Scacco Matto al destino.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Serpeverde
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Non ho molto con cui annoiarvi =) Posso giusto dirvi che non sarà una storia sdolcinata, avrà un gusto un po’ amaro, non terrà di conto del sesto e settimo libro, e prenderà luogo durante il settimo anno.
Per favore lasciatemi commenti costruttivi, sarò davvero felice di seguire i vostri consigli=)
Non so che altro aggiungere...^^’’
È la prima storia che scrivo, non lapidatemi ^^’’

Epitafio

PROLOGO

“Penso... penso di aver capito male...” esalai, volgendomi verso di lui.

Era in piedi sulla soglia della porta, una figura perfetta in un rettangolo di luce. I capelli d’ebano spettinati come sempre, lucenti come seta alla luce del fuoco; indossava un maglione nero, avvitato, di cotone leggero che scendeva con leziosa perfezione sul corpo, esaltandone le forme regolari, atletiche, lasciando scoperte con malizia le clavicole. I jeans chiari, leggermente larghi, fasciavano le gambe, tese in una posa piuttosto rigida, quasi non volesse prendere confidenza con la stanza. Aveva le mani affondate nelle tasche e se ne stava lì, immobile a guardarmi.
Le labbra finemente disegnate erano chiuse in una linea diritta, in un’espressione del tutto atona, se non addirittura fredda che mai gli avevo visto in volto.
Mai.
Sentivo nella testa turbinare migliaia di pensieri sconnessi, tutti suscitati da quelle tre parole che aveva appena pronunciato, ma tentai in ogni modo di mantenere la mia proverbiale impassibilità, incatenato al suo sguardo magnetico.
Il colore di quegli occhi avrei potuto descriverlo in ogni sua screziatura, particolarità, intensità.
Avrei saputo dipingerlo nella mia mente con minuziosa, maniacale precisione, rendendone con cura persino quella luce di vitalità fugace, ricca, che si accendeva in quel verde tingendolo d’oro proprio lì, vicino l’iride, mentre rideva, scherzava, eravamo a letto insieme.
Eppure, in quel momento mi sembrò di vederli per la prima volta.
Stranamente scuri, statici, non c’era nessuna luce, nessuna espressione.
Era fermenti di gelida determinazione.
Una determinazione che sembrava non poter essere intaccata da niente e nessuno, che si era impossessata di lui, e si stava riversando su di me.
Persino il quel momento, tra un pensiero scomposto e una domanda sferzante che mi perforavano la mente, riuscii a rimanere affascinato da quella bellezza lucente, incastrata nella perfezione, negli occhi di chiunque; una bellezza così simile alla mia, che ci accumunava, che ci metteva a confronto, che ci aveva avvicinato, attratto.
Si, perché tra noi c’era questo: solo attrazione, nessun coinvolgimento emotivo.
Si, fino a poco fa.
Fino a quando, due settimane prima, mi sussurrò tra le lenzuola che sapevano di noi, dei nostri pensieri, dei nostri profumi mischiati insieme, in un fruscio indistinto, che mi amava.
Mi amava.
Solo due parole che si infransero bollenti sul mio petto, che non pretesero una risposta, una risposta che sapeva non sarebbe arrivata.
Perché? Perché io ero il perfetto bastardo che ero, e lui lo sapeva.
Sapeva che erano i nostri ruoli, e ricordo ancora che ci scherzavamo su, tra un bacio e un morso, su chi di noi fosse il serpente velenoso, egoista e bastardo e su chi il grifone orgoglioso, altruista e gentile.

Sapeva che io non amavo e, se non me lo avesse detto in quel sussurro che ancora mi risuona dentro, non avrei mai creduto che lui fosse diverso.

Era il nostro gioco di passione e desiderio, e andava bene a me, andava bene a lui.

“Chiudiamo qui, Draco” sussurrò atono, come se stesse ripetendo una preghiera imparata a memoria, in una chiesa buia e isolata, dove il rumore avrebbe infranto il credo, spezzato la magia dell’illusione di Dio.
Tenevo ancora tra le mani il libro che stavo leggendo poco prima che arrivasse; accomodato davanti al fuoco, avevo sbottonato la camicia candida fino allo sterno, spettinato i capelli passandoci le dita affusolate con disattenzione, mentre ero immerso nella mia lettura.
Non riuscii a smuovermi; chiusi con uno schiocco pacato il libro di pelle scura, poggiandolo sul tavolo, senza badarvi troppo, come in una sorta di trance.

“Non capisco...”

“Non c’è molto da capire, credimi.
Sapevamo entrambi che questa storia non ci avrebbe portato da nessuna parte; era un gioco e niente di più, Draco”.
La sua voce aleggiò nell’aria satura di calore della stanza, mi giunse di nuovo con quel topo distaccato, lieve, di chi parla del più e del meno in una giornata noiosa.

“Non posso più permettermi di perdere tempo, ho cose più importanti cui pensare e immagino ce le abbia anche tu”.
Sentivo i miei muscoli contratti, qualcosa dentro di me mi mozzava il respiro, congelava la mia espressione.
Rimasi ad osservarlo con ferma compostezza, come si farebbe davanti a un magnifico incendio, davanti a un quadro cubista.
Ma non potevo dare la mia libera interpretazione a quelle parole come avrei fatto con un quadro.

Non lasciavano molto da interpretare.

Inspirai impercettibilmente.

“Tutto qui” esternai, sorprendendomi di ascoltare un tono piatto, così simile al suo.
Non era una domanda, era una constatazione.

Rimase impassibile, come una statua meravigliosamente intagliata, bagnato dai riflessi di luce delle fiamme guizzanti.

“Tutto qui” ripeté lui, e non aggiunse altro.

Abbassai lo sguardo, l’angolo sinistro delle mie labbra si piegò in un sorriso distorto, malato; sentivo un sapore amaro scorrere sulla lingua, sentivo l’indomabile desiderio di urlargli contro qualcosa, qualsiasi cosa, di prenderlo a pugni, di fargli capire che non me ne importava nulla, perché nulla me ne doveva importare di lui.
Che per me era solo sesso, nient’altro! Una storia come tante altre, che non mi avrebbe dato né tolto nulla!
E soprattutto, che non ero un ipocrita io, almeno.
Che non gli avevo detto io quel ‘Ti amo’ due settimane prima e che non ero io a chiudere ora!
Che Draco Malfoy non è tipo che da seconde chance, che non era mai stato scaricato, maledizione!
E che, diavolo, non volevo chiudere!
Ma non perché ci tenessi, no di certo, per me era sesso, sesso e basta, ma perché mi stavo divertendo, ci stavamo divertendo e non c’era motivazione di finirla lì! Non così!
E poi... che non me ne importava nulla!
Nulla!

“Bene, allora ci si vede, Draco”
Alzai lo sguardo per incontrare nuovamente il suo, nuovamente non riuscii a fare nulla, nuovamente tutti i miei pensieri, i miei propositi, le mie intenzioni sfumarono in quel verde troppo intenso da sopportare quella notte.
Strinsi i denti.

“Ci si vede, Potter” freddo, mellifluo, quasi un ringhio, eppure composto, eppure staccato.
Stette ancora un istante a guardarmi poi, senza voltarsi, senza ridere, senza piangere, senza fare null’altro, se n’andò.

Rimasi lì per tutta la notte, a fissare una porta aperta su un corridoio buio, vuoto.
Poi, quando le prime luci dell’alba entrarono attraverso le feritoie incantate del sotterraneo, scattai in piedi, furente di rabbia, una rabbia feroce, che mi divorava l’interno dello stomaco. Rovesciai con ira il tavolino mandando in frantumi i vari oggetti che ospitava, il libro finì tra le braci del camino, scagliai a terra la poltrona e la presi a calci finché non esaurii tutte le forze.
Il fiato usciva veloce, dolorosamente dal mio petto, come se ogni respiro si incidesse più profondamente nella carne.
In pochi passi fui davanti la finestra, dove, chiudendo gli occhi, vi poggiai la fronte e non volli più pensare a nulla, a niente, a nessuno.
A lui.

E poi ero io il bastardo.


*


La notte era particolarmente fredda ed estremamente bella quella sera.
Non se ne accorse. Né dell’uno, né dell’altro.
Camminava lentamente per i corridoi deserti del piano terra, le mani ancora affondate nelle tasche, il viso ancora privo di qualsiasi espressione.
Freddo e distante, come un rettile.
Improvvisamente si fermò, i passi smisero di risuonare per gli antri bui del castello, le ombre si acquietarono dietro di lui, rifuggendo la luce lunare che entrava dalle bifore.

Voltò il viso verso la luna. Una sfera di gelo bianca che si specchiava vanitosa nel lago nero, calmo come se il tempo fosse fermo.

Il sapore metallico del sangue gli macchiò le labbra, i denti candidi, la gola, la voce.
Sentì il labbro rompersi, cedere docilmente alla forza dei canini, alla pressione disperata che gli stava imprimendo, perché voleva sentire dolore, un dolore fisico che lo risvegliasse, che gli facesse capire che c’era ancora qualcosa di vivo lì, in quel corridoio.

Le lacrime scarlatte scesero a imporporare l’angolo della bocca, il mento, il pavimento.


Complimenti Harry...











  
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