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Autore: Eryca    11/03/2013    6 recensioni
Succede ancora, a volte, che esco in balcone, nelle notti in cui il caldo sembra voler sciogliere ogni cosa, e osservo l’orizzonte sopra il mare blu.
Ed è in quelle notti – le notti infinite, le chiamavamo – che chiudo gli occhi.
Chiudo gli occhi e le sue mani sono su di me.
Chiudo gli occhi e bevo una birra insieme a Tom.
Chiudo gli occhi e sfreccio, sfreccio per le strade asfaltate.
Chiudo gli occhi e sono senza limiti.
Chiudo gli occhi e vivo.

***
1969.
Adam non è altro che un neo diplomato, quando La Dea Danzante gli appare davanti agli occhi come un'allucinazione. Il giovane ragazzo viene velocemente trascinato in un mondo stupefacente, fatto di poesie, musica e libertà, dove tutto è lecito e nulla è legge.
Mentre entra a far parte di un gruppo di strampalati ribelli, Adam si farà insegnare dalla sua Dea il significato delle parole vivere e amare.
Ed imparerà ad andare oltre.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Storico
Capitoli:
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1.

La dea danzante

 

 


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Era il 1969.

Il movimento hippie aveva toccato il suo apice, mentre Jimy Hendrix faceva sognare l’America con la sua chitarra elettrica. I giovani patrioti che morivano in Vietnam venivano ricordati dal presidente Nixon con parole vuote lasciate alla stampa e, così facendo, continuava a mettersi contro i pacifisti.

Non era semplice vivere negli anni Sessanta.

Ma avrei scoperto presto che sarebbe stato orgasmico.

 

Quell’anno mi diplomai, in una torrida giornata di inizio estate. Mio padre non si presentò alla cerimonia di consegna dell’attestato – chiaro, non aspettavo il contrario. Stephen Williams si sarebbe fatto tagliare la testa pur di subirsi il Preside Gibson e i suoi eterni discorsi. Tra la folla, però, spiccava una testa castana: Mamma Lauren che si asciugava il naso con un fazzoletto in stoffa e applaudiva esageratamente.

Il professor K. – un dittatore in giacca e cravatta – ci aveva fatto una testa quadra con la storia che il giorno del diploma sarebbe stato il più bello della nostra vita – escludeva sempre la laurea, perché era sicuro che nessuno di noi l’avrebbe mai presa.

Invece, quel tanto agognato evento mi sembrava una semplice messinscena, un po’ come la pubblicità esagerata alle partite della squadra di Baseball.

Comunque, tutta quella cerimonia era passata con la stessa fretta con la quale era arrivata e io, fortunatamente, ero potuto tornare alle mie faccende, ovvero vagabondare per le strade di Los Angeles in compagnia del mio amico Tyler.

«Oggi Claire mi ha detto che stasera da una festa di addio a casa sua»

Il mio amico aveva un modo annoiato di parlare, come se odiasse utilizzare le corde vocali o, in alternativa, odiasse farlo con te. Eravamo saliti in collina, dove avevano le ville i personaggi famosi, e guardavamo la maestosa LA dall’alto. Ty se ne stava seduto sopra un masso grigiastro, mentre rollava una sigaretta fatta a mano.

Lasciai che i miei occhi vagassero e mi soffermai sul mare, il mare che sembrava fondersi con il cielo. Dio, ero nato e cresciuto nella città dei sogni, dove migliaia di persone migravano con la speranza di realizzare i loro desideri, le loro ambizioni.

E io mi ero appena diplomato.

Essere un diplomato a Los Angeles era dannatamente pericoloso: si poteva incappare in fantomatici Talent Scout che ti promettevano soldi e donne a volontà, se eri sfortunato poteva capitarti di cadere nel giro dell’eroina – che all’epoca non risparmiava nessuno – oppure l’alternativa era finire in una di quelle bande di delinquenti.

Los Angeles, negli anni Sessanta, era una sirena: tanto bella quanto letale.

«Ti ha invitato perché vuole che la scopi, Ty» risposi, mentre la mia sigaretta era ormai quasi vicina alla sua morte... e anche i miei polmoni.

Si sistemò il cappellino da baseball, Tyler, per poi rivolgermi un sorriso malizioso che mi indusse a ridere. «E io lo farò con piacere, mio caro!» Concluse sfoderando il suo finto accento british che, a mio avviso, lo rendeva estremamente ridicolo.

Per quanto io e il ragazzo che mi stava dinanzi avessimo condiviso donne, macchine e alcol durante tutti gli anni delle superiori, non avevamo mai avuto nulla in comune, se non appunto quelle cose. Tyler preferiva guardare le partite di Baseball alla televisione con una birra in mano, piuttosto che suonare la chitarra, come invece adoravo fare io.

Quello era il periodo in cui della mia vita non conoscevo assolutamente il senso: mi limitavo ad alzarmi la mattina, andare a scuola e fare sport.

Sentivo, dentro di me, la mancanza di qualcosa e passavo notti intere a riempire i miei onnipresenti taccuini con frasi angosciate, senza però trovare alcuna risposta al mio malessere.

Ero cieco.

Era il prima.

Ero ancora morto.

«Che cosa farai, ora?» Con una semplice domanda – una sola – Tyler acquistò punti in classifica e mi fece capire che, forse, non era l’idiota che avevo sempre pensato.

Ricordo che non ci guardavamo negli occhi, concentrati com’eravamo ad innamorarci ancora una volta – centinaia di volte – della città che appariva sotto di noi.
Los Angeles, la sirena.

In quegli istanti che sembravano essere infiniti, mentre il sole salutava la mia città e andava a nascondersi dietro le nuvole, pensai a tutto quello che avevo sempre avuto – casa, famiglia, amici – e a quello che desideravo disperatamente avere – libertà.

Ero sempre stato considerato uno di quei bravi ragazzi che passano a prendere la fidanzata a casa per stringere la mano a suo padre e, effettivamente, lo ero; ma il mio spirito era rimasto in silenzio per troppo tempo, accoccolato dentro di me aspettando la sua rivincita, e ora pretendeva di avere ciò che gli spettava, perché io, io non ero come loro.

Io non ero nato per essere uno di quei cadaveri ambulanti che timbravano il cartellino la mattina, passavano l’intero orario di lavoro seduto su una scrivania sfogliando giornaletti erotici per poi tornare a casa la sera e baciare la moglie come se nulla fosse. No.

Io ero nato per qualcosa di più.

Per andare oltre.

La mia anima vibrava. «Qualcosa.» E, anche se poteva sembrare la risposta di un perfetto deficiente, il mio qualcosa stava a significare che avrei dato libero sfogo al mio animo, che non sarei diventato uno di quei padri di famiglia dal cuore di ferro.

Avrei fatto qualcosa di puro.

«Che dici? Ci andiamo da Claire, stasera?» Con quell’uscita, tutta la stima che avevo acquisito nei confronti del mio amico crollò nuovamente, facendomi rendere conto che era veramente il perfetto idiota che avevo sempre pensato.

Ciao, sirena. Come sei bella, questa sera?

Fammi fare un’ultima cavalcata su di te, mia dolce bambina.

Ti prometto che la mia casa sarai sempre tu.

Annuii sicuro a Tyler, mentre dentro di me il cambiamento stava già prendendo piede.

Io ero nato per andare oltre e lei,

lei me lo avrebbe fatto scoprire.

 

*

 

La incontrai quella stessa sera, alla festa.

Quando accettai l’invito di Tyler e Claire, non avevo la minima idea di ciò che mi stava aspettando, alla grossa villa della mia compagna di classe.

Come potevo immaginare che, quella notte, la mia vita sarebbe stata sconvolta?

La prima cosa che vidi, non appena feci il mio ingresso nella villetta, fu una coppietta che, accanto alla porta, pomiciava. Alzai gli occhi al cielo per poi aprire il mio giubbotto in pelle di camoscio e addentrarmi nel corridoio. Mentre mi aggiravo per la grossa abitazione di Claire mi resi conto, notando i capelli laccati dei miei coetanei, di dover sembrare ridicolo agli occhi delle ragazze, a causa del cespuglio scompigliato che mi ritrovavo in testa.

La casa era colma di giovani diplomati con la voglia di festeggiare il loro primo traguardo, troppo presi dalla loro sensazione di liberazione per prendersi conto che erano dei surrogati di uomini, corpi senza anima. Facce vuote, cuori sporchi.

E io brancolavo in mezzo a quella marmaglia, il mio pullover in lana rossa stropicciato che, messo a confronto con l’abbigliamento dei presenti, sembrava essere comprato al mercatino delle pulci, nelle periferie.

Me ne stavo lì, con un bicchiere di punch scadente in mano, mentre una radio malconcia sparava She loves you dei Beatles. Il mondo intorno a me sembrava aver preso la decisione di escludermi definitivamente dal suo corso e ogni giovane sembrava divertirsi, ogni riso mi appariva così irritante.

Ero sempre stato l’esponente principale di quella che era la società, la classe media della popolazione, eppure non mi ero mai identificato in essa. Riuscivo ad essere la persona che non ero. E quella era la mia più grande qualità.

«Adam!»

Nell’udire il mio nome mi voltai e mi ritrovai di fronte ad una Claire impacchettata in uno striminzito vestito di paillettes rosa, secondo la moda. Mi abbracciò, non tanto per cortesia, ma perché cercava di portarmi a letto dal primo anno, quando mi avvicinò con la scusa di una gomma da masticare. Non era cambiata molto da allora, Claire: stessi occhi nocciola, stessi capelli cotonati, stesse gonne ampie e di colori improbabili. Stesso modo di fare da gattamorta.

Il discorso che intrattenni con la mia amica fu uno di quelli fatti per essere dimenticati: semplicemente, ci sono certe conversazioni che spariscono dalla tua mente, che le rimuove quasi a volerti dire “amico, non meritano spazio”. E, in effetti, il dialogo tra me e Claire era degno solo ed esclusivamente di quell’appellativo.

«Come stai?» Ricordo che mi pose questa domanda per il semplice fatto che, nello stesso istante in cui stavo rispondendole, prese a parlare del suo voto “scandalosamente” basso al diploma. La lasciai sproloquiare sulle ingiustizie scolastiche, sul fatto che era “chiaro” che il Preside Gibson fosse corrotto. Non la ascoltavo. Non ascoltavo nulla, se non la rabbia che ribolliva sempre più dentro me.

Pensavo al fatto che mi avesse chiesto come stavo solo perché era usuale farlo e non perché le interessasse. A chi interessa davvero la risposta alla domanda come va? Nessuno. Nessuno se ne cura. Tu stai lì, impalato come un pero, mentre le persone non capiscono, non capiscono, non capiscono. Tu stai lì.

Ed era esattamente quello che stavo facendo: stavo lì.

Sorridevo alle risate di Claire, annuivo serio quando la sua espressione mi intimava di farlo, strabuzzavo gli occhi all’innalzamento del suo tono di voce. Il gioco stava tutto lì, nel capire ciò che le persone desideravano sentirsi dire.

«Beh, è bello averti qui, Ad! Divertiti! Ci vediamo dopo!» Si sporse e mi baciò sulla guancia, gli occhi luminosi in cerca di un segnale da parte mia. Chiaramente non lo trovò e, delusa, andò a salutare un altro ragazzo. Sciacquetta.

Tirai fuori dalla giacca una sigaretta e me la accesi canticchiando insieme alla radio Brown Eyed Girl di uno dei miei cantanti preferiti, Van Morrison.

Mi feci spazio in salone, dove un tizio della sezione E stava vomitando in un vaso di fiori, per uscire finalmente nel giardino che ospitava una gigantesca piscina.

Quella villa, messa a confronto con il mio umile alloggio, sembrava una vera e propria reggia; ma d’altronde i genitori di Claire erano importanti direttori d’aziende, ergo non ci si poteva aspettare di meno da loro.

Stavo ridendo alla scena di un emerito imbranato che stava affogando, quando successe.

Successe che i miei occhi la videro.

La prima cosa a cui pensai fu che doveva essere un’allucinazione dovuta all’alcol, oppure una conseguenza della troppo erba che fumavo. Dovetti pensare ad ogni spiegazione logica ed illogica, prima di prendere per buona l’idea che fosse reale.

Capelli biondi e lunghi che scuotevano a destra e sinistra, mentre il suo corpo sembrava splendere alla luce della luna, come se fosse una creatura venuta da chissà quale pianeta lontano.

Danzava, la mia dea – anche quando cammina si direbbe che danzi – sul trampolino che dava sulla piscina: qualunque altra persona sarebbe apparsa goffa a ballare sopra un elemento in bilico, invece lei, lei sembrava una sirena.

Il suo corpo formoso non era fasciato fa vestiti esagerati, come quello delle altre ragazze, ma libero di esprimersi, coperto solo con una gonna larga che le arrivava fino alle caviglie ed una maglietta che le lasciava scoperta la pancia. Si muoveva sinuosamente, tutti gli occhi puntati su di lei... lei che sembrava non curarsi di nulla se non del suo ballo, della sua risata spensierata.

 

Da dove vieni, O Musa?

È un paese di luci e di amore, il tuo

Sei la luna della mia notte, risplendi, risplendi

Danza sulle braci ardenti, O Musa

Danza e io sono tuo

Ridi, O Musa

Ridi e io potrò morire

 

La guardavo. La guardavo e non sapevo che quella dea avrebbe rivoluzionato il mio essere.

Ho sentito milioni di persone ripetere frasi come “con il senno di poi non rifarei mai quello sbaglio”, ma io non lo dirò mai.

 

Con il senno di poi ti guarderei danzare altre mille volte, O Musa

Con il senno di poi i miei occhi sarebbero ancora tuoi, per sempre

 

Non sono mai stato un tipo particolarmente romantico o melodrammatico, ma sono quasi certo che quella donna era la mia anima gemella, la mia compagna spirituale inviata per me. Solo per me.

Me ne stavo imbambolato, il punch ormai dimenticato, quando una voce mi riportò alla realtà, facendomi distogliere lo sguardo dalla mia dea. «Non è roba per te, ragazzo.»

Aveva le basette lunghe e folte, quest’uomo con la voce roca che si era appena rivolto al sottoscritto. Non appena posai lo sguardo sulla sua camicia a fiori e i pantaloni malconci, mi resi conto che era un fricchettone che mio padre avrebbe definito come “uno di quei cazzari che vanno in giro a predicare minchiate sull’amore”.

Non lo avevo mai visto prima, né a scuola né per il quartiere, quindi compresi che doveva essere un imbucato. «La conosci?» domandai indicando la mia dea danzante, intenta a dimenarsi sul trampolino, ancora ignara degli sguardi osceni dei ragazzi.

Aspirò dalla sua sigaretta girata, il basettone, guardando la Musa, proprio come stavo facendo io. Ripensando a quella notte, mi rendo conto che doveva essere un presagio: due uomini che, invece di interagire tra di loro, rivolgono tutta la loro attenzione a lei.

Una calamita – o calamità – per ogni uomo.

«Nessuno la conosce, amico.» Questa volta si girò verso di me e scandì bene le parole, quasi a volermi far capire alla perfezione ciò che mi stava dicendo. Ricordo bene la sensazione di confusione che la sua affermazione mi provocò. Che cosa poteva significare che nessuno la conosce, amico? «Ma è sicuro, però, che non è pane per i tuoi denti.»

Tornai a fissare la donna: si era appena tuffata in piscina – il salto degno di una sirena – e stava nuotando e schizzando tutto intorno a sé, mentre qualcuno rideva di fronte allo spettacolino.

 

Sei una Musa

Sei una dea

La tua pelle risplende sotto la luna – oh, come la vorrei toccare

Ma il Nemico ha ragione

Lo schiavo non è degno

Di amare la Regina

 

Sì. Pensai di mollare.

Pensai che, proprio come tutto il sentimento era arrivato – in un attimo, in un battito di ciglia -, sarebbe svanito: in fondo non sapevo nulla di lei, nemmeno il suo nome.

Sapevo solamente che era ferro e io una stupida calamita.

«Io, non... Stavo pensando di... Voglio dire, cioè... Sì, ecco... Beh, è stato un piacere.» Balbettai, proprio come facevano i ragazzini di fronte alla ragazza di cui erano infatuati, e fu un colpo terribile vedere come il basettone sogghignava divertito. La figura del completo idiota l’avevo fatta. Ora potevo anche squagliarmela.

Girai sui tacchi e, mentre rientravo nell’abitazione, cercai di riordinare i pensieri e gli eventi: avevo sentito la mia testa girare di fronte alla donna più sensuale che avessi mai visto e quello che doveva sicuramente essere un suo amico mi aveva colto sul fatto. Dieci punti a te, Adam.

Posai il bicchiere di punch su un mobiletto e vidi Tyler venire verso di me, quindi simulai un attacco di nausea e corsi verso la porta d’ingresso, ovvero la mia salvezza. Il mio orgoglio – ne avevo anche se può sembrare di no – pretendeva una fuga.

Stavo per posare la mano sulla maniglia quando sentì una voce – voce soave, voce di dea – mormorare al mio orecchio: «Te ne vai già, bambino

Il mio oltre ebbe inizio con quella domanda.

 

*

 

 

 

Angolo di Eryca

 

Ringrazio Vì per aver betato il capitolo.

Eccomi con l’effettivo primo capitolo, signori lettori!

Scopriamo che il protagonista si chiama Adam e iniziamo a conoscerlo. E, ovviamente, viene anche presentata la dea danzante, la nostra bellissima folle, che subito attira l’attenzione del giovane Adam. 

Le canzoni citate nel capitolo esistono realmente e sono bellissime: vi invito ad ascoltarle, se ne avete l’occasione. !!

Beh, spero vivamente che l’inizio vi sia piaciuto! Vi invito a dirmi cosa ne pensate, è sempre bellissimo per un autore leggere ciò che i lettori pensano. :3

 

Un abbraccio,

Eryca.

   
 
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