1.
La dea danzante
Era il 1969.
Il movimento
hippie aveva toccato il
suo apice, mentre Jimy Hendrix faceva sognare l’America con
la sua chitarra
elettrica. I giovani patrioti che morivano in Vietnam venivano
ricordati dal
presidente Nixon con parole vuote lasciate alla stampa e,
così facendo,
continuava a mettersi contro i pacifisti.
Non era semplice
vivere negli anni
Sessanta.
Ma avrei
scoperto presto che sarebbe
stato orgasmico.
Quell’anno
mi diplomai, in una torrida
giornata di inizio estate. Mio padre non si presentò alla
cerimonia di consegna
dell’attestato – chiaro, non aspettavo il
contrario. Stephen Williams si
sarebbe fatto tagliare la testa pur di subirsi il Preside Gibson e i
suoi
eterni discorsi. Tra la folla, però, spiccava una testa
castana: Mamma Lauren
che si asciugava il naso con un fazzoletto in stoffa e applaudiva
esageratamente.
Il professor K.
– un dittatore in
giacca e cravatta – ci aveva fatto una testa quadra con la
storia che il giorno
del diploma sarebbe stato il più bello della nostra vita
– escludeva sempre la
laurea, perché era sicuro che nessuno di noi
l’avrebbe mai presa.
Invece, quel
tanto agognato evento mi
sembrava una semplice messinscena, un po’ come la
pubblicità esagerata alle
partite della squadra di Baseball.
Comunque, tutta
quella cerimonia era
passata con la stessa fretta con la quale era arrivata e io,
fortunatamente,
ero potuto tornare alle mie faccende, ovvero vagabondare per le strade
di Los
Angeles in compagnia del mio amico Tyler.
«Oggi
Claire mi ha detto che stasera da
una festa di addio a casa sua»
Il mio amico
aveva un modo annoiato di
parlare, come se odiasse utilizzare le corde vocali o, in alternativa,
odiasse
farlo con te. Eravamo saliti in collina, dove avevano le ville i
personaggi
famosi, e guardavamo la maestosa LA dall’alto. Ty se ne stava
seduto sopra un
masso grigiastro, mentre rollava una sigaretta fatta a mano.
Lasciai che i
miei occhi vagassero e mi
soffermai sul mare, il mare che sembrava fondersi con il cielo. Dio, ero nato e cresciuto nella
città
dei sogni, dove migliaia di persone migravano con la speranza di
realizzare i
loro desideri, le loro ambizioni.
E io mi ero
appena diplomato.
Essere un
diplomato a Los Angeles era
dannatamente pericoloso: si poteva incappare in fantomatici Talent
Scout che ti
promettevano soldi e donne a volontà, se eri sfortunato
poteva capitarti di
cadere nel giro dell’eroina – che
all’epoca non risparmiava nessuno – oppure
l’alternativa era finire in una di quelle bande di
delinquenti.
Los Angeles,
negli anni Sessanta, era
una sirena: tanto bella quanto letale.
«Ti ha
invitato perché vuole che la
scopi, Ty» risposi, mentre la mia sigaretta era ormai quasi
vicina alla sua
morte... e anche i miei polmoni.
Si
sistemò il cappellino da baseball,
Tyler, per poi rivolgermi un sorriso malizioso che mi indusse a ridere.
«E io
lo farò con piacere, mio caro!» Concluse
sfoderando il suo finto accento british che,
a mio avviso, lo rendeva
estremamente ridicolo.
Per quanto io e
il ragazzo che mi stava
dinanzi avessimo condiviso donne, macchine e alcol durante tutti gli
anni delle
superiori, non avevamo mai avuto nulla in comune, se non appunto quelle
cose.
Tyler preferiva guardare le partite di Baseball alla televisione con
una birra
in mano, piuttosto che suonare la chitarra, come invece adoravo fare io.
Quello era il
periodo in cui della mia
vita non conoscevo assolutamente il senso: mi limitavo ad alzarmi la
mattina,
andare a scuola e fare sport.
Sentivo, dentro
di me, la mancanza di qualcosa
e passavo notti intere a riempire i miei onnipresenti taccuini con
frasi
angosciate, senza però trovare alcuna risposta al mio
malessere.
Ero cieco.
Era il prima.
Ero ancora morto.
«Che
cosa farai, ora?» Con una semplice
domanda – una sola – Tyler acquistò
punti in classifica e mi fece capire che,
forse, non era l’idiota che avevo sempre pensato.
Ricordo che non
ci guardavamo negli
occhi, concentrati com’eravamo ad innamorarci ancora una
volta – centinaia di volte –
della città che
appariva sotto di noi.
Los Angeles, la sirena.
In quegli
istanti che sembravano essere
infiniti, mentre il sole salutava la mia città e andava a
nascondersi dietro le
nuvole, pensai a tutto quello che avevo sempre avuto – casa,
famiglia, amici –
e a quello che desideravo disperatamente avere – libertà.
Ero sempre stato
considerato uno di
quei bravi ragazzi che passano a prendere la fidanzata a casa per
stringere la
mano a suo padre e, effettivamente, lo ero; ma il mio spirito era
rimasto in
silenzio per troppo tempo, accoccolato dentro di me aspettando la sua
rivincita, e ora pretendeva di avere ciò che gli spettava,
perché io, io non ero
come loro.
Io non ero nato
per essere uno di quei
cadaveri ambulanti che timbravano il cartellino la mattina, passavano
l’intero
orario di lavoro seduto su una scrivania sfogliando giornaletti erotici
per poi
tornare a casa la sera e baciare la moglie come se nulla fosse. No.
Io ero nato per
qualcosa di più.
Per andare oltre.
La mia anima
vibrava. «Qualcosa.» E,
anche se poteva sembrare la risposta di un perfetto deficiente, il mio qualcosa stava a significare che avrei
dato libero sfogo al mio animo, che non sarei diventato uno di quei
padri di
famiglia dal cuore di ferro.
Avrei fatto qualcosa di puro.
«Che
dici? Ci andiamo da Claire,
stasera?» Con quell’uscita, tutta la stima che
avevo acquisito nei confronti
del mio amico crollò nuovamente, facendomi rendere conto che
era veramente il
perfetto idiota che avevo sempre pensato.
Ciao,
sirena. Come sei bella, questa sera?
Fammi
fare un’ultima cavalcata su di te, mia dolce bambina.
Ti
prometto che la mia casa sarai sempre tu.
Annuii sicuro a
Tyler, mentre dentro di
me il cambiamento stava già prendendo piede.
Io ero nato per
andare oltre e lei,
lei
me lo avrebbe
fatto scoprire.
*
La incontrai
quella stessa sera, alla
festa.
Quando accettai
l’invito di Tyler e
Claire, non avevo la minima idea di ciò che mi stava
aspettando, alla grossa
villa della mia compagna di classe.
Come potevo
immaginare che, quella
notte, la mia vita sarebbe stata sconvolta?
La prima cosa
che vidi, non appena feci
il mio ingresso nella villetta, fu una coppietta che, accanto alla
porta,
pomiciava. Alzai gli occhi al cielo per poi aprire il mio giubbotto in
pelle di
camoscio e addentrarmi nel corridoio. Mentre mi aggiravo per la grossa
abitazione di Claire mi resi conto, notando i capelli laccati dei miei
coetanei, di dover sembrare ridicolo agli occhi delle ragazze, a causa
del
cespuglio scompigliato che mi ritrovavo in testa.
La casa era
colma di giovani diplomati
con la voglia di festeggiare il loro primo traguardo, troppo presi
dalla loro
sensazione di liberazione per prendersi conto che erano dei surrogati
di
uomini, corpi senza anima. Facce vuote, cuori sporchi.
E io brancolavo
in mezzo a quella
marmaglia, il mio pullover in lana rossa stropicciato che, messo a
confronto
con l’abbigliamento dei presenti, sembrava essere comprato al
mercatino delle
pulci, nelle periferie.
Me ne stavo
lì, con un bicchiere di
punch scadente in mano, mentre una radio malconcia sparava She loves you dei Beatles. Il mondo
intorno a me sembrava aver
preso la decisione di escludermi definitivamente dal suo corso e ogni
giovane
sembrava divertirsi, ogni riso mi appariva così irritante.
Ero sempre stato
l’esponente principale
di quella che era la società, la classe media della
popolazione, eppure non mi
ero mai identificato in essa. Riuscivo ad essere la persona che non
ero. E
quella era la mia più grande qualità.
«Adam!»
Nell’udire
il mio nome mi voltai e mi
ritrovai di fronte ad una Claire impacchettata in uno striminzito
vestito di
paillettes rosa, secondo la moda. Mi abbracciò, non tanto
per cortesia, ma
perché cercava di portarmi a letto dal primo anno, quando mi
avvicinò con la
scusa di una gomma da masticare. Non era cambiata molto da allora,
Claire:
stessi occhi nocciola, stessi capelli cotonati, stesse gonne ampie e di
colori
improbabili. Stesso modo di fare da gattamorta.
Il discorso che
intrattenni con la mia
amica fu uno di quelli fatti per essere dimenticati: semplicemente, ci
sono certe
conversazioni che spariscono dalla tua mente, che le rimuove quasi a
volerti
dire “amico, non meritano spazio”. E, in effetti,
il dialogo tra me e Claire
era degno solo ed esclusivamente di quell’appellativo.
«Come
stai?» Ricordo che mi pose questa
domanda per il semplice fatto che, nello stesso istante in cui stavo
rispondendole, prese a parlare del suo voto “scandalosamente”
basso al diploma. La lasciai sproloquiare sulle
ingiustizie scolastiche, sul fatto che era “chiaro”
che il Preside Gibson fosse corrotto. Non la ascoltavo. Non
ascoltavo
nulla, se non la rabbia che ribolliva sempre più dentro me.
Pensavo al fatto
che mi avesse chiesto
come stavo solo perché era usuale farlo
e non perché le interessasse. A chi
interessa
davvero la risposta alla domanda come va?
Nessuno. Nessuno se ne cura. Tu stai lì, impalato
come un pero, mentre le
persone non capiscono, non capiscono, non capiscono. Tu stai
lì.
Ed era
esattamente quello che stavo
facendo: stavo lì.
Sorridevo alle
risate di Claire,
annuivo serio quando la sua espressione mi intimava di farlo,
strabuzzavo gli
occhi all’innalzamento del suo tono di voce. Il gioco stava
tutto lì, nel
capire ciò che le persone desideravano sentirsi dire.
«Beh,
è bello averti qui, Ad!
Divertiti! Ci vediamo dopo!» Si sporse e mi baciò
sulla guancia, gli occhi
luminosi in cerca di un segnale da parte mia. Chiaramente non lo
trovò e,
delusa, andò a salutare un altro ragazzo. Sciacquetta.
Tirai fuori
dalla giacca una sigaretta
e me la accesi canticchiando insieme alla radio Brown
Eyed Girl di uno dei miei cantanti preferiti, Van Morrison.
Mi feci spazio
in salone, dove un tizio
della sezione E stava vomitando in un vaso di fiori, per uscire
finalmente nel
giardino che ospitava una gigantesca piscina.
Quella villa,
messa a confronto con il
mio umile alloggio, sembrava una vera e propria reggia; ma
d’altronde i
genitori di Claire erano importanti direttori d’aziende, ergo
non ci si poteva
aspettare di meno da loro.
Stavo ridendo
alla scena di un emerito
imbranato che stava affogando, quando successe.
Successe che i
miei occhi la videro.
La prima cosa a
cui pensai fu che
doveva essere un’allucinazione dovuta all’alcol,
oppure una conseguenza della
troppo erba che fumavo. Dovetti pensare ad ogni spiegazione logica ed
illogica,
prima di prendere per buona l’idea che fosse reale.
Capelli biondi e
lunghi che scuotevano
a destra e sinistra, mentre il suo corpo sembrava splendere alla luce
della
luna, come se fosse una creatura venuta da chissà quale
pianeta lontano.
Danzava, la mia
dea – anche quando cammina si
direbbe che danzi –
sul trampolino che dava sulla piscina: qualunque altra persona sarebbe
apparsa
goffa a ballare sopra un elemento in bilico, invece lei, lei
sembrava una sirena.
Il suo corpo
formoso non era fasciato
fa vestiti esagerati, come quello delle altre ragazze, ma libero di
esprimersi,
coperto solo con una gonna larga che le arrivava fino alle caviglie ed
una
maglietta che le lasciava scoperta la pancia. Si muoveva sinuosamente,
tutti
gli occhi puntati su di lei... lei che
sembrava non curarsi di nulla se non del suo ballo, della sua risata
spensierata.
Da
dove vieni, O Musa?
È
un
paese di luci e di amore, il tuo
Sei
la luna della mia notte, risplendi, risplendi
Danza
sulle braci ardenti, O Musa
Danza
e io sono tuo
Ridi,
O Musa
Ridi
e io potrò morire
La guardavo. La
guardavo e non sapevo
che quella dea avrebbe rivoluzionato il mio essere.
Ho sentito
milioni di persone ripetere
frasi come “con il senno di poi non
rifarei mai quello sbaglio”, ma io non lo
dirò mai.
Con
il senno di poi ti guarderei danzare altre mille volte, O Musa
Con
il senno di poi i miei occhi sarebbero ancora tuoi, per sempre
Non sono mai
stato un tipo
particolarmente romantico o melodrammatico, ma sono quasi certo che
quella
donna era la mia anima gemella, la mia compagna spirituale inviata per
me. Solo
per me.
Me ne stavo
imbambolato, il punch ormai
dimenticato, quando una voce mi riportò alla
realtà, facendomi distogliere lo
sguardo dalla mia dea. «Non è roba per te,
ragazzo.»
Aveva le basette
lunghe e folte,
quest’uomo con la voce roca che si era appena rivolto al
sottoscritto. Non
appena posai lo sguardo sulla sua camicia a fiori e i pantaloni
malconci, mi
resi conto che era un fricchettone che mio padre avrebbe definito come “uno di quei cazzari che vanno in giro a
predicare minchiate sull’amore”.
Non lo avevo mai
visto prima, né a
scuola né per il quartiere, quindi compresi che doveva
essere un imbucato. «La
conosci?» domandai indicando la mia dea danzante, intenta a
dimenarsi sul
trampolino, ancora ignara degli sguardi osceni dei ragazzi.
Aspirò
dalla sua sigaretta girata, il
basettone, guardando la Musa, proprio come stavo facendo io. Ripensando
a
quella notte, mi rendo conto che doveva essere un presagio: due uomini
che,
invece di interagire tra di loro, rivolgono tutta la loro attenzione a lei.
Una calamita
– o calamità – per ogni
uomo.
«Nessuno
la conosce, amico.» Questa
volta si girò verso di me e scandì bene le
parole, quasi a volermi far capire
alla perfezione ciò che mi stava dicendo. Ricordo bene la
sensazione di
confusione che la sua affermazione mi provocò. Che cosa
poteva significare che nessuno la conosce,
amico? «Ma è sicuro,
però, che non è pane per i tuoi denti.»
Tornai a fissare
la donna: si era
appena tuffata in piscina – il salto degno di una sirena
– e stava nuotando e
schizzando tutto intorno a sé, mentre qualcuno rideva di
fronte allo spettacolino.
Sei
una Musa
Sei
una dea
La
tua pelle risplende sotto la luna – oh, come la vorrei toccare
Ma
il Nemico ha ragione
Lo
schiavo non è degno
Di
amare la Regina
Sì.
Pensai di mollare.
Pensai che,
proprio come tutto il
sentimento era arrivato – in un attimo, in un battito di
ciglia -, sarebbe
svanito: in fondo non sapevo nulla di lei, nemmeno il suo nome.
Sapevo solamente
che era ferro e io una
stupida calamita.
«Io,
non... Stavo pensando di... Voglio
dire, cioè... Sì, ecco... Beh, è stato
un piacere.» Balbettai, proprio come
facevano i ragazzini di fronte alla ragazza di cui erano infatuati, e
fu un
colpo terribile vedere come il basettone sogghignava divertito. La
figura del
completo idiota l’avevo fatta. Ora potevo anche squagliarmela.
Girai sui tacchi
e, mentre rientravo
nell’abitazione, cercai di riordinare i pensieri e gli
eventi: avevo sentito la
mia testa girare di fronte alla donna più sensuale che
avessi mai visto e
quello che doveva sicuramente essere un suo amico mi aveva colto sul
fatto. Dieci punti a te, Adam.
Posai il
bicchiere di punch su un
mobiletto e vidi Tyler venire verso di me, quindi simulai un attacco di
nausea
e corsi verso la porta d’ingresso, ovvero la mia salvezza. Il
mio orgoglio – ne
avevo anche se può sembrare di no – pretendeva una
fuga.
Stavo per posare
la mano sulla maniglia
quando sentì una voce – voce
soave, voce
di dea – mormorare al mio orecchio: «Te
ne vai già, bambino?»
Il mio oltre ebbe inizio con quella domanda.
*
Angolo di Eryca
Ringrazio
Vì per aver betato il capitolo.
Eccomi
con l’effettivo primo capitolo, signori lettori!
Scopriamo
che il protagonista si chiama Adam e iniziamo a conoscerlo. E,
ovviamente,
viene anche presentata la dea danzante, la nostra bellissima folle, che
subito
attira l’attenzione del giovane Adam.
Le
canzoni citate nel capitolo esistono realmente e sono bellissime: vi
invito ad
ascoltarle, se ne avete l’occasione. !!
Beh,
spero vivamente che l’inizio vi sia piaciuto! Vi invito a
dirmi cosa ne
pensate, è sempre bellissimo per un autore leggere
ciò che i lettori pensano. :3
Un
abbraccio,
Eryca.