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Incontri -
II
parte
Fotografie.
Piccoli
frammenti di
te.
Momenti
che sembravo
di aver dimenticato, riprendono vita dinnanzi ai miei occhi, guardando
volti
che avevo rimosso.
Guardando
luoghi che
mi avevano emozionato.
È
strano, osservare
il passato attraverso questi piccoli pezzi di carta.
E
ritrovarti, sempre
bella, allegra e testarda.
Ritrovare
le
lentiggini che ti puntellavano dolcemente il naso e le gote.
L’avevo
dimenticato questo piccolo particolare. Avevo dimenticato quanto amavo
percorrerle, fingere di poterle toccare.
Di
colpo sembra non
essere passato nemmeno un mese.
Ed
invece ne è
passato di tempo.
Troppo
forse.
Cercando
i documenti
dei miei, ho trovato la mia scatola.
Quella
dei ricordi.
Un
trenino di legno,
un foglio di carta ingiallito con una data di cui non ricordo
l’avvenimento, un
fiore secco e un nastro rosso.
E
poi tante, tante
foto.
Ieri
sera è
stato...incredibile sentirti parlare con quel tono pieno di rimorsi e
rabbia
repressa.
Mi
sento un verme per
essermene andato.
Ma
mi sento ancor più
viscido quando mi rendo conto che in fondo non mi dispiace affatto che
tu sia
stata male per me.
Almeno
mi hai
pensato.
Getto
nella scatola
l’ennesima tua foto sorridente e con un sospiro la lascio il
fondo all’armadio
dove l’ho trovata.
Questa
casa mi sembra
così vuota dalla morte di mia madre.
Ricordo
quando
successe.
Appena
due anni dopo
la mia partenza.
Ricordo
il tuo volto
rigato dalle lacrime, e mio padre che non riusciva nemmeno a guardarmi
negli
occhi, tanto il dolore che aveva dentro.
Mia
madre...la donna
che ci fece incontrare, ricordi?
Quando
eravamo
piccoli, e giocavamo ancora con trenini e bambole.
Quando
non sapevamo
ancora niente del mondo al di fuori di questo piccolo paese di campagna.
Quando
non sapevamo
cosa fosse l’amore, la sofferenza, la delusione e la morte.
Quando
non sapevamo
ancora cosa fossero le lucciole.
Ricordo
che avevi
lunghe trecce castane, e ti dondolavi continuamente su
un’altalena improvvisata
con tre metri di corda e un pezzo di legno.
Parlavi
con Mel, la
tua sorellina immaginaria.
E
io ero un bambino
come tanti, un tantino più grande di te.
Dicevo
a tutti che
aiutavo mio padre a lavorare il campo per far colpo sugli altri bambini.
Ma
tu non ci
credesti, perciò mi colpisti.
“Secondo
me tu sei
solo un bimbo stupido. E non è vero che lavori con tuo
padre, perché sei pigro
e giochi ancora con la plastilina. Me l’ha detto
Mel!”
Mentre
correvi via,
riuscii ad urlarti:“Mel non esiste, bambina
viziata!”
Cominciò
così la
nostra amicizia, se così è possibile chiamarla.
Per
quanto abbia
apprezzato e a volte addirittura amato le donne con cui ho vissuto e
sono stato,
ti posso assicurare, che tu le batti tutte.
Non
c’è nessuna come
te, Jane.
Non
c’è mai stata.
Almeno
per me.
La
grossa finestra
della cucina fa un po’ di capricci prima di aprirsi del tutto.
Ed
il campo, con le
prime luci del mattino, è se è possibile, ancor
più bello della sera.
Un
uomo passa in
bicicletta e mi saluta con una mano.
Io
ricambio, pur non
sapendo il suo nome.
È
un’abitudine che ho
sempre apprezzato in posti come questo.
Non
conosci le
persone, eppure loro ti salutano, e non vi trovano niente di strano pur
non
avendoti mai visto prima.
È
qualcosa che non
trovi in nessuna grande città.
La
fiducia reciproca.
L’armonia.
È
fantastico.
Decido
di andare a
fare una passeggiata in paese.
Il
mio arrivo di un
paio di giorni fa è stato un po’ improvviso.
Sapevamo
che la morte
di mio padre sarebbe stata imminente, ma non credevo che accadesse
così in
fretta.
Anche
se, tutto
sommato, non ci vedevamo spesso, sono in momenti in cui la perdi che ti
rendi
conto davvero della persona splendida che ti ha accompagnato per tutti
gli anni
della tua vita.
Non
voleva un
funerale. Ha sempre odiato le manifestazioni dei sentimenti, qualunque
essi
fossero.
Era
un po’
scorbutico, con due grosse sopraciglia che mettevano paura i bambini
più
piccoli.
Ma
era affettuoso a
modo suo ed è stato un buon padre.
Così
ho esaudito il
suo desiderio di essere seppellito nel campo. Solo io come testimone,
insieme
al vento che sempre lo accompagnava quando lo guardavo dalla finestra,
passeggiare tra i fili di grano.
Poi
ho saputo,
dall’uomo che mi ha aiutato negli scavi, che eri in paese per
qualche giorno,
come me, e mi si è riempito il cuore.
Ma
il testamento e le
varie proprietà, mi hanno tenuto completamente occupato.
Ok,
lo ammetto, non
ho avuto il coraggio di farmi vedere in paese per paura di incontrarti.
Di
incontrare il tuo
sguardo infuriato, o peggio, i tuoi occhi indifferenti.
Ora
che ho finito,
non ho più scuse.
Credo
che mi
divertirò a rivedere i posti dove giocavo da bambino e dove
oziavo, una volta
adolescente.
Prendo
la bici che
sta sul retro della casa.
Ogni
volta che
venivo, i miei mi obbligavano ad usarla, anche in dicembre inoltrato,
perché si
ostinavano a credere che il rumore e lo smog dell’auto
rovinasse il raccolto.
Ed
in effetti, è un
peccato distruggere il paesaggio con un’auto grigia, nuova di
zecca.
Pedalo
fino alla
panetteria e mi fermo a salutare i proprietari.
Poi
è la volta del
piccolo super market, unico nella zona, del barbiere e dei proprietari
del bar.
Loro
li lascio per
ultimi.
Sono
i tuoi genitori.
Entro
un po’
imbarazzato, ma Grechel, tua madre, mi accoglie con un caloroso
abbraccio.
-
Oh, caro, che
piacere averti qui! Mi dispiace tanto per il tuo caro padre.
-
Grazie Grechel.
-
Ma siediti, vieni,
raccontami del tuo lavoro.
-
Mi sto
specializzando per diventare chef, per ora lavoro in un ristorante
vicino al
mio appartamento.
I
suoi occhi si
illuminano.
-
Oh, Louis, senti
come parla? Il mio appartamento! È proprio un uomo di
città, ormai.
Sorrido
a Louis e gli
stringo la mano.
Da
quando ero
bambino, l’ho sempre ed inevitabilmente, paragonato ad un
grosso orso bruno.
Ed
il suo carattere
premuroso, non ha influito affatto nell’ammorbidire la sua
figura possente.
-
Lo so cara, l’ho
sempre saputo. È un piacere rivederti, giovanotto.
-
Grazie.
Louis
e Grechel sono
un po’ come i miei due secondi genitori.
Tua
madre è sempre
stata molto affettuosa con me, come se fossi figlio suo, mentre Louis,
ben
sapendo ciò che c’era tra noi, mi guardava con un
po’ più di sospetto.
Ma
ora sembrava che
quel periodo fosse sparito.
Mi
tratta come se io
non fossi l’uomo che ha spezzato il cuore a sua figlia, tanto
tempo fa.
O
forse sto
esagerando troppo.
Forse
ciò che è
successo per gli altri non è importante quanto lo
è per me.
E
per te?
-
Hai già incontrato
Jane?- chiede ingenua tua madre.
Louis
le da una
leggera gomitata, impossibile da passare inosservata.
Non
posso fare a meno
di sorridere.
-
Si, l’ho incontrata
ieri sera.
-
Oh! Ricordi quando
vi fidanzaste?- chiede ancora, ignara dei segnali che le lancia tuo
padre.
Si,
certo che
ricordo.
Un
giorno qualunque,
alla fermata dell’autobus.
Pioveva
ed era
mattino presto. Dovevo andare in città per un affare di mio
padre che era a
casa influenzato.
La
sera prima avevamo
litigato, una cosa stupida mi pare di ricordare.
Magari
qualcuno che
aveva allungato troppo le mani su di te...
Non
era neanche colpa
tua, ma mi arrabbiai lo stesso.
Così
ti trovai lì, ad
aspettarmi, nonostante piovesse.
Mi
dicesti che non
dovevo essere geloso, che tu non avevi occhi che per me.
È
stato strano
sentirtelo dire, ho provato qualcosa che provai solo quando stemmo
insieme per
la prima volta...
Dentro
di me si è
acceso un fuoco...e di colpo la pioggia ed il freddo sono scomparsi.
Ti
ho baciato, mosso
dal sentimento più grande che potessi provare.
Tremasti.
-
Fa troppo freddo
qui. Andiamo a casa?- dissi.
-
Perché no?
Perché
no?
Sono
rimasto
imbambolato qualche secondo di troppo.
Tuo
padre prende la
parola, lanciando un’occhiataccia a Grechel.
-
Vieni con me,
George, ti faccio vedere una cosa.
Mi
porta sul retro
del bar, oltre una piccola serra.
Il
vostro vigneto si
estende a vista d’occhio dinanzi a me.
Bello
come lo
ricordavo.
Viola
come lo
ricordavo.
È
stato lì, una sera
che non era andata come speravamo, che mi hai donato la tua giovinezza.
È
stato lì, che
abbiamo fatto parte l’un dell’altra, per minuti che
sono sembrati un’eternità.
Per
minuti che sono
sembrati troppo perfetti per essere reali.
E
tu sei lì, un
cappello di paglia in testa, china su una vite.
Ti
giri appena e poi
ti allontani lentamente, cercando di passare inosservata.
-
Jane, cara, visto
chi ci è venuto a trovare?
-
Si, papà.
Restiamo
in silenzio
per un po’.
Evidentemente
tuo
padre si è reso conto che non mi hai né degnato
di uno sguardo né salutato.
Decide
che sia meglio
lasciarci soli.
-
Mi sa che mi sta
chiamando Grechel. George, tu resta a controllare l’uva.
Mi
fa l’occhiolino e
sparisce dentro.
Mi
avvicino a te,
cautamente, quasi avessi paura di una tua fuga improvvisa, come fanno i
gatti.
-
Che ci fai qui?
-
Sono venuto a
salutare i tuoi. Tu che fai?
-
Controllo che
vengano su bene.
-
Il colore è
perfetto. Come sempre, giusto?
-
Giusto.
Cambi
un’altra volta
vite, allontanandoti ancor di più.
Ti
seguo.
-
Come va il
giornale?
-
Bene.
-
Come mai sei qui?
-
Qui al paese?
- Sì.
Esiti.
-
Ho pensato di farci
un salto. Non fa male ogni tanto tornare alle proprie origini.
-
Quando partirai?
-
Il prima possibile.
-
Che sarebbe...?
Mi
guardi, con aria
di sfida.
-
Se te lo dico cosa
farai? Metterai le crocette sul calendario?... Ops, scusa tu ora hai un
palmare! Oppure cercherai di trovare un volo prima di me,
così che mi batterai
ancora una volta. No, George?
Sono
ferito da ciò
che mi hai detto.
Come
hai potuto
pensare queste cose?
Possibile
che una
cosa successa dieci anni fa, torni a bruciare così tanto,
anche solo attraverso
uno sguardo?
-
No.
Taci,
spostandoti di
nuovo.
So
che la
conversazione è finita qui.
Quando
esco per
salutare i tuoi genitori, Frank è al bar, che beve una
birra. Mi vede.
Forse
non mi
riconosce subito, ma quando lo fa mi salta quasi addosso.
Siamo
cresciuti
insieme ed è sempre stato il bambino che m’ha
protetto dagli altri bulletti.
Ora
è un uomo, sulla
trentina, in jeans strappati, i capelli castani lunghi sino alle spalle
e quel
maledetto pizzetto che porta da quando aveva sedici anni.
-
George, amico mio!
Ti sei degnato di tornare tra noi! Se ti vedesse Mary!
Mary
e Frank si
conobbero ad una festa, nel paese accanto al nostro, ricordi?
Le
chiedemmo un
indicazione e la rincontrammo poi accanto all’uomo dello
zucchero filato.
Frank
si innamorò del
suo sorriso, e da quel giorno sono diventati inseparabili.
E
dopo dieci anni
eccoli, ancora insieme, ormai sposati.
È
incredibile come
certe cose siano scritte chissà dove.
Come
un amore è
destinato ad andare avanti, per così tanto tempo.
Non
pensi, Jane?
-
Giusto in tempo per
la festa del paese. Stasera verrai?
-
Credo di sì.
-
Ci saranno anche le
majorette!- dice, facendomi l’occhiolino.- Io sono un uomo
sposato ormai, ma
tu, hai ancora la libertà!
Sorrido.
-
A proposito, sai
che Jane è in paese?
-
Si, l’ho
incontrata...- dico restando appositamente sul vago.
-
E cos ha detto?
Stringo
involontariamente i pugni, senza però abbandonare il mio
sorriso.
-
Non mi va di
parlarne Frank, raccontami un po’ tu invece!
Restiamo
a parlare di
come vanno le cose nel suo ranch, di come sia l’uomo
più felice sulla faccia
della terra e poi racconto io, di cos ho fatto in tutti questi anni. Di
come
sia riuscito a diventare ciò che desidero.
E
nonostante sbirci
ripetutamente su quella porta che conduce alla serra, tu non esci.
Dopo
un po’ mi porta
a casa sua.
Mary
è sempre più
bella, nonostante la gravidanza.
E
il piccolo Tommy ha
quegli enormi occhi azzurri della madre che potrebbe incantare tutti.
Quando
torno a casa è
ormai buio.
Giusto
il tempo per
cambiarmi, e sento la banda cominciare a suonare.
Ricordi
Jane, quando
ci divertivamo a prendere in giro i musicisti, per quei tremendi abiti
tradizionali?
Ricordi
quando
correvamo tra la folla, tenendoci per mano, per raggiungere uno stand
di
caramelle?
E
l’odore della
festa, dei biscotti della signora in fondo alla strada?
E
ricordi quella
strega che ci predisse il futuro?
Ricordi
cosa disse?
-
Cosa vedo qui...?
Ridacchi e mi guardi sconcertata alzando le spalle.
Non so perché mi sono fatto trascinare in questa roulotte
che puzza di gatto
morto per ascoltare una vecchia pazza che guarda dentro un palla di
vetro.
Ah, certo.
Perché sei tu che me l’hai chiesto.
- Vedo un albero di mele... e un cane.
Ti mordi il labbro inferiore per non scoppiare a ridere.
La donna alza lo sguardo:- Vi potrebbe ricordare qualcosa?
- Beh, si, il melo che abbiamo piantato da bambini.- dici.
Mi dai una gomitata ed io annuisco.
Non abbiamo mai piantato un melo, a dire il vero, non abbiamo mai
piantato
niente.
- Esatto! Ma rappresenta anche l’albero della vita. Lo vedo
rigoglioso. Avrete
una vita fortunata. E una bella famiglia. Il cane sta a significare
questo.
- Ma insieme?- chiedi con un gesto della mano.
La vecchia pazza ci scruta per un momento.
- Aprite la bocca e guardate in alto.- dice.
Un po’ esitanti, obbediamo.
Lei borbotta qualcosa per un po’, mentre noi stiamo cercando
in tutti i modi di
sembrare seriamente concentrati in quel che facciamo.
- Si. Direi di si. Le vostre anime sono complementari. E due anime
così sono
inscindibili
Inscindibili.
Quante
risate facemmo
ripensando a quel momento.
Solo
ora temo che
quella donna abbia davvero avuto ragione.
Che
non sia stata un
pazza.
Che
quel che ha detto
sia vero.
Entrambi
abbiamo
sempre amato questa festa.
Dovresti
essere di
buon umore stasera.
Dovremmo
esserlo
entrambi.
E
allora perché ora
sembra così triste?
Perché
tu non ci sei?
O
per via di questo
cielo nuvoloso che non promette niente di buono?
Chissà.
Forse
stasera riuscirò
a parlarti.
Forse
stasera
qualcosa cambierà.
Forse
stasera non
vedrò le lucciole