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Autore: makeba    20/09/2007    3 recensioni
Quindi, presi il coraggio a due mani, e te li dissi. Ti dissi tutti, ma proprio tutti i motivi per cui ti lasciavo. Ti lasciavo perché dovevo partire. Ti lasciavo perché non volevo restare qui. Ti lasciavo perché mi saresti mancata troppo. Ti lasciavo perché ti amavo. Che cosa squallida.
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Il campo delle lucciole -

Parte I

 

 

 

 

Ciao.

Sembra una parola così vuota, rispetto a tutto quello che avrei da dirti.

Sembra così banale.

Ma è l’unica cosa che mi è venuto in mente.

Ho appena saputo che sei in paese.

È troppo piccolo questo posto per non incontrarsi.

E per quanto mi sforzassi con tutte le mie forze di trovare una frase d’esordio divertente, non ho pensato a nient’altro.

Ho solo la tua immagine davanti agli occhi, e in quelli, tanto, tanto dolore.

Da me causato.

Sarai ancora arrabbiata? Chissà.

In fondo sono passati dieci anni.

Anche se non abbiamo mai avuto la possibilità di confrontarci.

Anche se non ti ho mai detto che mi dispiaceva da morire.

Avrei così tante cose da raccontarti.

Come il fatto che tu mi sia mancata tanto.

O che quella maglietta, l’ultima che mi regalasti, alla fine è diventata la mia preferita.

Mi ricorda te, e a volte quando la indossavo, sembrava di sentire ancora il tuo profumo.

Che quando ci vedemmo l’ultima volta, a quell’incontro tra ex-alunni, sarebbe stato bello, poter parlare meglio.

Ma tu eri circondata dalle tue vecchie amiche del liceo che non ti lasciavano un momento da sola.

Ma ti vedevo, gettare uno sguardo ogni tanto al mio tavolo.

Era per me?

Non lo so, ma mi piace illudermi.

Potrei dirti che per me, tu sei stata davvero importante.

Che non è stato un errore.

Che quella sera, avevo paura.

Tu mi conoscevi, sai bene che avere una ragazza per me, sarebbe significato non poter più partire.

Avrebbe significato lasciare qualcosa qui, qualcosa che mi avrebbe tenuto stretto a questo posto.

 

E sai bene che era l’ultima cosa che volevo.

 

Negli ultimi anni ci sono tornato solo durante le feste di Natale, per salutare i miei.

Ricordi quando andavamo a fare compere insieme in città?

E mi costringevi a stare fino a tardi per negozi?

Ed io imprecavo, e tu ridevi.

A volte, ancora oggi, quando passeggio tra i negozi illuminati a festa, e gli alberi di natale, sembra di vederci.

Di sentirci ridere, di vedermi rincorrerti per la piazza.

 

Due ragazzi innamorati.

Con mille sogni, andati spezzati dal tempo, dalle situazioni, dalle mille strade della vita.

 

So che sei diventata una giornalista locale.

Ho letto i tuoi articoli, e vedo qualche tuo servizio in televisione.

È bello sentire la tua voce - di donna ora - anche se registrata, mentre cucino.

È come averti in casa.

E mi sembra di ritornare ragazzo, quando, in quelle splendide sere d’estate ci sedevamo sul gradini di casa mia chiacchierare del più, del meno, di te, di me, di niente.

Ed erano quelli i momenti che preferivo.

Quando, nella brezza della sera, il campo si colorava di mille luci dorate, mille insetti incantati.

E l’unico rumore che si sentiva erano le cicale, e il vento tra gli steli di grano.

E restavamo lì a bere una tazza di the, guardando il cielo stellato.

E dopo un po’ la macchina di tuo padre che ti veniva a riprendere perché si era fatto tardi, o perché tu non avevi avvisato.

Ed io ti difendevo.

E tu mi prendevi la mano e la stringevi, fino a quando tuo padre non veniva a tirarti via dalle mie braccia.

E in queste ultime feste passate al paese, nelle ultime sere, ho sentito la tua mancanza, più di sempre.

Più di quando metto in ordine l’armadio e ritrovo quella maglietta, che oramai non mi va più.

Più di quando vedo una tua fotografia sul giornale di cui hai la rubrica.

Più di quando vado agli incontri con i nostri amici e tu non vieni, perchè sei impegnata!

Sempre Jane.

Sempre mi manchi.

E ancor di più quando vedo qualcosa- qualsiasi cosa- di rosso.

Era il tuo colore preferito, ricordo.

È il colore della mia maglietta.

Era il colore della gonna che avevi quella sera.

Quando, presi il coraggio a due mani, e te li dissi.

Ti dissi tutti, ma proprio tutti i motivi per cui ti lasciavo.

Ti lasciavo perché dovevo partire.

Ti lasciavo perché non volevo restare qui.

Ti lasciavo perché mi saresti mancata troppo.

Ti lasciavo perché ti amavo.

 

Che cosa squallida.

 

Eppure è successo.

Eppure era quel che in fondo ti stavo dicendo.

Ricordo che urlasti, cosa non ne ho idea.

Ricordo che scappasti via dalla festa e non ti rividi fino a quel dannato giorno.

Tu, tra i fili di grano che tanto amavi ed io, pronto a salire sul taxi che mi avrebbe portato lontano da tutto...lontano da te.

Ci guardammo un’ultima volta per un paio di secondi, poi, la macchina partì.

Ed ho ben impressa l’immagine di una ragazza che con un leggero vestito rosso e con i capelli mossi dal vento, tra il grano del mio campo, mi guarda.

Poi le mani strette a coppa contro al viso, e la fuga.

Ero partito, l’avevo fatto davvero.

 

Ti avevo lasciato, Jane.

 

In quel posto che odiavamo entrambi, che non ci dava futuro.

Di cui avevamo discusso a lungo, ed avevamo deciso di scappare insieme.

Ed invece, arrivò quella borsa di studio ed io ti abbandonai.

Fui egoista, lo ammetto.

E tu non me lo avresti mai perdonato.

Continuai a ripetermi questo concetto in mente un milione di volte, prima di arrivare all’aeroporto.

Poi, tutto ciò che venne dopo, ora è quasi...sbiadito per me.

È strano da descrivere...come se non l’avessi vissuto a fondo.

Come se avessi premuto il tasto FFW e la mia vita abbia viaggiato così velocemente da non accorgermi di cosa accadeva intorno a me.

Ed eccomi dopo dieci anni a rimpiangere una vita che avrei potuto avere.

Seduto su quei gradini che conoscono ogni nostro segreto, per svelare anche questo.

Ti amo ancora Jane.

Non so quando me ne sono reso conto, non so per quanto tempo lo sto nascondendo, non so nemmeno se riuscirò ad avere la faccia tosta di tornare da te.

Non so, Jane.

So solo che questa tazza di the, è fredda senza te.

So che senza te, il vento tra il grano urla parole che non conosco, e che non riuscirò mai più ad andare per negozi sotto Natale.

Questa notte, non è poi così stellata e le lucciole non sono poi così magiche.

Il rombo del motore della macchina di tuo padre però, mi pare quasi di sentirlo.

Chiudo gli occhi, per immergermi in quel ricordo, che sembra così vivido.

Il rombo si ferma.

Rumore di una portiera che sbatte.

 

Colpo di terrore

“Non hai avvisato.”

Colpo di rabbia.

“È tardi.”

 

- George?

La tua immagine sembra quasi irreale.

Come se fossimo in un cartone animato.

Come se questa fosse solo un’altra delle mie fantasie e tu non fossi davvero dinnanzi a me.

Non riesco a proferire parola, accecato dalla tua semplicità, da modo in cui tieni i capelli legati alla base della nuca.

Vorrei poterli toccare. Questo mi viene in mente.

Ma cosa posso dirti, ora?

Dopo tutto quello che ti ho fatto.

- Vuoi una tazza di the?

Non sembri arrabbiata.

Mi sorridi e ti siedi accanto a me, stringendo le gambe al petto, come facevi da bambina, per non far gonfiare il tuo vestito - allora come ora - rosso.

Ignori la mia domanda.

- Come va la vita nella grande città?

- Bene. Eppure quando torno qui, sento la nostalgia di questo posto. È sempre bellissimo.

- È vero. Mi dispiace. Ho…saputo di tuo padre.

Annuisco.

- Per fortuna è successo nel sonno. Almeno non ha sofferto.

- Già.

La sera sta calando ormai.

Vediamo la prima lucciola emergere dal campo e rimaniamo entrambi incantati.

Poi lo spettacolo che rivedo solo nei miei ricordi di ragazzo, mi si materializza davanti agli occhi.

È stupendo ed è come ricordavo.

È incredibile come certe cose non cambino mai.

Il campo sembra prendere vita, il vento si fa più forte, ma forse è solo il mio cuore che ha accelerato i battiti.

Minuscole luci dorate si alzano contemporaneamente quasi, fatte a posta per far godere noi, di quel meraviglioso spettacolo.

Danzano insieme, si incrociano, si allontanano, volteggiano nel buio della notte, che ancora una volta fa da palcoscenico alla loro innata bellezza.

Quasi mi dimentico della tua presenza, troppo preso da ripercorrere con la mente momenti che sembravo aver dimenticato.

Io da bambino che cercavo di raggiungerne una e catturarla.

Mia madre che mi richiamava. Non potevo spezzare il ritmo, distruggere la magia.

 Era vietato. Quella era la danza delle fate, mi diceva sempre.

 

Ancora non parli, quando le lucciole cominciano a dileguarsi, forse per cercare cibo.

Io lancio delle occhiate dalla tua parte, ma sembri concentrata su qualcosa.

Forse un ricordo.

Forse di noi due.

- Questo ce l’hanno anche lì? Nella grande città?

Questa volta le tue parole sono aspre, ironiche quasi.

- No.- ammetto, senza riuscire ad aggiungere altro.

Ridacchi, senza ilarità.

- Lo immaginavo.

Piomba nuovamente il silenzio, solo che questa volta è più pesante del precedente.

- Sai, ho pensato a lungo a cosa mi dicesti quel giorno...-

La gola mi si secca improvvisamente.

- Cosa intendi dire?

- Forse avevi ragione tu. Restare qui, ti avrebbe rovinato. Ma avrebbe rovinato anche me- fa una pausa, per voltarsi a guardarmi- Non mi chiedesti se avessi voluto venire con te.

Sono spaesato, spaventato dalla piega che ha preso la conversazione, e ammetto di essere terrorizzato di aver fatto un grosso errore.

Per paura di farne un altro, preferisco tacere, che è meglio.

- Io ci sarei venuta George. Ti avrei seguito anche in capo al mondo...se solo me l’avessi chiesto.

Non provo neanche a trovare una scusa decente, un banale “mi dispiace”, che tu scappi via.

Mi dispiace Jane.

Io...non credevo.

Io...non ho pensato.

Sono stato stupido, ma avevo solo diciotto anni e volevo scappare da qui...mi dispiace.

 

Tu non immagini quanto.

   
 
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