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Autore: The_Last_Change    12/03/2013    2 recensioni
Possono, due accordi dissonanti fare una melodia perfetta?
(BetaxGamma) Probabilmente OOC XD
[...]L’atmosfera era combattuta in un silenzio dissacrante, quasi angoscioso. Complice di quella tensione era l’intera distesa innevata, d’un biancore puro e senza macchia, irreale. Ragion per cui, trasmetteva una sicurezza solo apparente. I suoi stivali ricominciarono ad affondare pesantemente nella neve, trascinandosi in un brusio monotono e ovattato. Ritirando la testa all’indietro con l’abilità pari a quella di una tartaruga, nascose il naso sotto la sciarpa, talmente rosso che non riusciva più a percepirlo. Sbuffò.
Quel giorno avrebbe voluto maledire ogni cosa, perché nulla era andato secondo i suoi piani. Si era fatta trascinare troppo dall’uragano della vita, non c’era avvenimento che le fosse sfuggito di mano. Mordendosi le labbra, rammentava il suo difetto di essere una maniaca della precisione, sicché detestava non avere tutto sotto controllo.
E continuava così il suo viaggio senza meta, attendendo un segno qualsiasi. L’importante era che Gamma tornasse da lei. [...]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beta, Gamma
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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- Due accordi dissonanti

Stava dolcemente accoccolata su di una soffice poltrona a sacco in velluto, talmente morbida che a malapena riusciva a starci sopra per una durata superiore ai cinque secondi, senza poi scivolare o rimanere sprofondata nel suo ingannevole abbraccio tutt’altro che piacevole. Alla quinta caduta si rassegnò, condannando il suo povero fondoschiena a subire il gelo del pavimento. Ma non appena avvenne l’ennesimo brusco contatto con il terreno, la schiena si eresse in un movimento quasi involontario,trasformando la colonna vertebrale nel più solido dei pilastri. Volendo trovare un po’di calore, portò la testa alle ginocchia, ma quella posizione non fece altro che peggiorare le cose. Pensò bene di avvicinare ancor di più i piedi, ma si ritrovò come segregata in una sorta di bozzolo da cui non riusciva ad uscire. Non ci fece caso più di tanto. Quella scena apparentemente buffa, era una triste realtà, complice dell’ingente stato in cui vigeva l’orfanotrofio, talmente a corto di fondi che non poteva permettersi nemmeno una stufa, giacché il vecchio camino, pur vantando una preziosa effige marmorea dell’Ottocento cui il valore si aggirava ad un milione di sterline, non era sufficiente a scaldare l’intera abitazione. L’orfanotrofio... uno di quei posti da sempre utilizzato dalle madri delle bambine capricciose, un termine abusato tante di quelle volte, che ormai aveva perso il suo reale significato.
Mangia quella zuppa di ceci, o ti porto in quel posto brutto dove finiscono i bambini cattivi!”
Di certo non si poteva dire che i suoi coinquilini fossero una marmaglia di maleducati che rinnegavano il significato della parola “galateo”, anzi. In quella piccola casa vigeva un’armonia press’a poco stucchevole, talmente percettibile nell’aria che pareva opprimere quelle persone si alienavano dalla massa sociale, come lei. Gli altri avevano superato tranquillamente quel duro colpo che segnò bruscamente la loro infanzia, trovando, negli hobby più disparati, una ragione per vivere. Gamma, ad esempio, si dilettava a suonare il piano, non perché lo amasse, ma perché voleva incanalare la sua rabbia nelle sue lunghe dita affusolate, ritrovandosi a comprimere quei tasti candidi con una velocità tale da romperli spesso. Tutti impiegavano il loro tempo nei lavoretti più futili, continuando a vivere nella falsa speranza di riuscire, un giorno, a dimenticare ogni cosa. Nell’aria si innalzò una dolce melodia, struggente, accompagnata dalle note più acute con una morbosità sempre crescente. Chiuse gli occhi, e mestamente, si lasciò trasportare in un mondo triste, fatto di inganni e false promesse, un universo parallelo che combaciava perfettamente con il suo. Conosceva bene quella melodia che il suo amico suonava di rado, nelle giornate in cui si sentiva malinconicamente poetico. Ben presto, divenne la colonna sonora della sua vita per via del suo ritmo ostinato e al tempo stesso trascinante come il più poetico dei valzer. Il brano era intervallato spesso da qualche pausa, come se l’intera composizione si fosse smarrita. Quel piccolo accordo in re minore si ritrovava solo, senza più nessuno.
Chiuse leggermente gli occhi, inumiditi da un pianto di dolore. Le lacrime scesero a fiotti e solcarono il suo viso come fiumi di lava incandescente. E bruciava. Bruciava della consapevolezza di essere inutile davanti all’incommensurabilità crudele del Fato.
Molto spesso i bambini erano sempre in conflitto con i propri genitori, per via dei capricci più inutili. Desideravano di non avere quelle due figure troppo amorevoli tra i piedi, pensando che senza di loro la vita sarebbe stata migliore. Tutto ciò era tremendamente sbagliato. Lo sapeva lei, che avrebbe voluto una vita normale. Non conosceva neanche il suo vero compleanno. Poteva essere una ragazzina di tredici o quattordici anni ma nulla escludeva il fatto che ne avesse molti di più. E poi quel nome, Beta, non poteva sapere se si chiamasse realmente così. Ma era stata chiamata in quel modo dal giorno in cui arrivò lì, e la sua mente precoce pensava che quello fosse appellativo. Vivere nell’ignoto più assoluto, tra bugie ed inganni, era molto più doloroso di quel che sembrasse. Certe cose bisognava capirle al tatto, l’animo infranto poteva diventare la rosa più pericolosa se maneggiata incautamente. Lei stava ancora lì, ad aspettare un piccolo gesto d’affetto che forse non sarebbe mai venuto. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di sentire due braccia cingerle dolcemente il collo, lasciandosi pervadere da un dolce profumo rassicurante, magari di lillà, quel fiore maestoso che molto spesso le portava alla mente dei ricordi un po’confusi, sbiaditi, ma pur sempre momenti della sua infanzia, che erano per lei un baratro senza fondo. Si sarebbe commossa nel sentire quel calore a tratti soffocante, quell’abbraccio sincero che le avrebbe fatto aprire gli occhi, dimostrando che, effettivamente, qualcuno la voleva bene. Girò pesantemente il capo verso destra, in direzione del caminetto. La sua luce soffusa le inondava il viso di calore, quella a cui lei si era abituata da troppo tempo. Un tepore vuoto, privo di emozioni. La fiamma pareva contorcersi da sola, divincolandosi in spiragli confusionari che non andavano oltre il limitare di tre mura, che fungevano da vera e propria prigione. Un limite impostogli dall’alto, che non poteva infrangere, in nessun modo. Eppure voleva provarci, cercava di uscire da quella cella spingendosi lo più possibile, oltre le sue stesse forze. Nonostante tutto ciò, finiva solo per incenerire gli angoli della sua reclusione. Impotente, si consumava nella sua stessa ferrea volontà, opprimendola crudelmente. Di quell’ardore infuocato non restavano che le ceneri.
D’un tratto, quella dolce melodia che aleggiava nell’aria, divenne discontinua, e in vari punti, quasi dissonante.
- Ah, maledizione!- mugugnò Gamma con una voce stridula, rotta dal suo stesso dolore.
Beta voltò quasi meccanicamente il capo in direzione dell’amico. Le sue pupille color indaco si erano dilatate al punto di non riuscire più a distinguere i singoli lineamenti di un oggetto, che sembravano confondersi con l’ambiente circostante. Le sopracciglia assunsero un’espressione così allibita, esterrefatta, che sembrava quasi si stessero staccando dal viso. Vedere l’amico in quello stato, piegato dispoticamente alla sua debolezza, era la prova inconfutabile che una passione dovesse sì essere seguita, ma non al punto di trasformarla in ossessione. Le sue dita, tremanti, stringevano a fatica quel minuscolo pezzo di galalite. Per il timore di farlo cadere accidentalmente a terra, la mano sinistra attanagliò con forza l’avambraccio destro, cosicché quel tremore perpetuo ed incessante si fermasse. Il suo volto, rosso di rabbia, fece chinare gli sguardi di tutti, che asserivano silenziosamente, ignorandolo, come se lui non esistesse. Sapevano bene che quando arrivava uno di quei suoi momenti doveva essere lasciato in pace. Bastava una sola persona che gli chiedesse il perché di così tanta frustrazione, per far si che cominciasse il finimondo. La scorsa volta riuscì a rompere persino il braccio di Alpha in uno dei suoi momenti d’ira. Gli sarebbe bastato poco per farlo a tutti gli altri. Questa volta però, riuscì a trattenersi. Non disse nulla. Si infilò il suo piumino blu e uscì, sbattendo pesantemente la porta dietro le sue spalle. Poco prima di uscire, era sicura di aver sentito Gamma mormorare:
La seconda ballata di Chopin... la seconda!”.
Il rumore dei suoi passi che scendevano le scale ansiosamente si fece via via più lieve, fino a dissolversi del tutto. Beta accennò un sorrisetto di compassione, quasi compiaciuta della scenata del tutto immotivata alla quale aveva qualche minuto fa. Non era l’unica a pensare che la reazione dell’amico fosse stata del tutto immotivata, se non eccessiva.
Ma quello era il suo carattere, e lei non era nessuno per costringerlo a cambiare. Si alzò, e dopo essersi assicurata che ogni vertebra era al suo posto, avvertì uno scricchiolio decisamente inusuale. Non volle farci caso più di tanto. Alzò le braccia per aria e le allungò sagacemente con la stessa abilità di un gatto persiano che, non appena sveglio, volge il suo saluto al sole. Indossò la sciarpa e se ne andò. Voleva comprendere maggiormente il carattere introverso del compagno di stanza, che da sempre era stato freddo e schivo nei suoi confronti. Da sempre si rinchiudeva in un paio di movenze eclettiche, facendo sfogare la bocca solo quando fosse strettamente necessario, giacché soleva tenersi tutto dentro. Per la prima volta, si rese conto che dopotutto, un’altra persona caratterialmente simile a lei, esistesse davvero. Due accordi dissonanti di una melodia universale, che forse insieme avrebbero formato una nota perfetta.
La neve scendeva lenta, inesorabile, soggiogata in uno spiraglio di profonda malinconia. Si adagiava delicatamente sul terreno, e fiocco dopo fiocco, come un’immensa distesa di cotone, copriva ogni cosa, rendendo indistinguibili persino i gatti, neri al punto da sembrare pece. D’inverno erano soliti a trascorrere intere nottate sugli alberi, miagolando appassionatamente canti d’amore alla pallida luna. Eppure, quella notte non c’erano, non c’era nessuno. Le strade asfaltate erano prive del fragore incessante di cui si rivestivano abitualmente, lasciando morire le auto parcheggiate sopra il marciapiede in una gelida coltre nevosa. Nemmeno l’erba bramava più di crogiolarsi alla luce del sole al fiorir della primavera, voleva solamente affondare le sue radici nella terra, tornare all’alba delle origini, quando il principio era il nulla e il suolo era arido, senza una nota di colore. In un angolo sperduto del paesaggio, nella minuscola fessura lasciata da due case strettamente vicine tra loro, vi era una bambola di pezza, senza un braccio. Stava lì, tacita e serena, con quella bocca cucita in un volto perennemente felice, impossibilitata a manifestare espressioni diverse. Ad un primo impatto comunicava finta tranquillità accentuata da due occhi asimmetrici, vuoti, senz’anima. Stava quasi per soffocare in quella fenditura angusta. Nella sua omertà invocava aiuto, senza avere il modo di farsi sentire da qualcuno. Beta si fermò improvvisamente, e mentre un rivolo di sudore percorreva tutto il viso sin sotto al mento, deglutì la saliva che le si era fermata in gola. L’atmosfera era combattuta in un silenzio dissacrante, quasi angoscioso. Complice di quella tensione era l’intera distesa innevata, d’un biancore puro e senza macchia, irreale. Ragion per cui, trasmetteva una sicurezza solo apparente. I suoi stivali ricominciarono ad affondare pesantemente nella neve, trascinandosi in un brusio monotono e ovattato. Ritirando la testa all’indietro con l’abilità pari a quella di una tartaruga, nascose il naso sotto la sciarpa, talmente rosso che non riusciva più a percepirlo. Sbuffò.
Quel giorno avrebbe voluto maledire ogni cosa, perché nulla era andato secondo i suoi piani. Si era fatta trascinare troppo dall’uragano della vita, non c’era avvenimento che le fosse sfuggito di mano. Mordendosi le labbra, rammentava il suo difetto di essere una maniaca della precisione, sicché detestava non avere tutto sotto controllo.
E continuava così il suo viaggio senza meta, attendendo un segno qualsiasi. L’importante era che Gamma tornasse da lei.
Dopo aver camminato per una buona mezz’oretta venne finalmente ascoltata, anche se quello che i suoi occhi videro non era esattamente si aspettavano, ma andava bene lo stesso. Più in là, non molto lontano dal suo takeaway preferito, vi era una panchina, un piccolo angolo di paradiso illuminato dalla luce soffusa del lampione accanto. Sfinita com’era, non ci pensò più di due volte: fece un ultimo sforzo di gambe e si sedette, poggiando la testa sopra il palo della luce.
Le sue gambe si misero a ciondolare allegramente, così, senza motivo. Era partito come un gesto involontario, che man mano si fece sempre più piacevole. Socchiuse gli occhi, e grazie a quel movimento infantile, balnearono nella sua testa un’accozzaglia di ricordi sbiaditi, incerti. Ma era incredibile come, tra le sue memorie, si ripetesse sempre la stessa immagine, in modo ossessivo.

Flashbacks
Beta piangeva come un’ossessa, alternando singhiozzi in rapida successione. Non riusciva quasi a respirare.
Gamma sedeva accanto a lei, cercando un modo per distrarla, in modo che non sentisse più dolore.
- Dai Bee-chan, non ti sei fatta niente! Ah, guarda un elefante in mongolfiera!- disse lui, ridendo sguaiatamente nella speranza che lei credesse alla sua colossale bugia.
- Gli elefanti non vanno in mongolfiera, baka!
- Almeno per un secondo non hai più pensato al tuo ginocchio, no?-
Sorrisero.

---------

Era mezz’ora che guardava quell’orologio, eppure il tempo scorreva sempre alla stessa velocità.
Il pendolo dondolava sempre allo stesso ritmo. A forza di seguire quel movimento cadenzante, gli occhi presero ad imitarlo. Gli stava venendo il mal di testa.
- Gamma, perché fissi l’orologio?
- Voglio fermare il tempo. Per stare con te fino alla fine dei miei giorni-.
Fine Flashbacks

- Bee- chan, che ci fai qui?-.
Quel soprannome tremendamente familiare entrò nel suo cervello come la più dolce delle nenie. Aprì lentamente un occhio, poi l’altro, e sussultò involontariamente vedendo Gamma a pochi centimetri di distanza da lei. Nonostante facesse freddo e la temperatura non superasse lo zero, Beta avrebbe voluto spogliarsi di ogni cosa. Ebbe come l’impressione di trovarsi in un enorme forno a legna, dato che, ad occhio e croce, le sue guance arrivavano tranquillamente oltre i duecento gradi. Sarebbe stato solo questione di attimi, e il cuore avrebbe sfondato la gabbia toracica. Vedendo la ragazza in una sorta di trance, lui aggrottò le sopracciglia, allungò il dito medio e si mise a tastare la sua fronte, per vedere una sua possibile reazione. Ma lei non si mosse.
- Bee-chan! Sei ancora tra noi?- mormorò lui, non nascondendo una certa preoccupazione.
Non appena si accorse che il suo amico stava parlando proprio con lei, uscì dal mondo dei sogni. Sgranò gli occhi, e dopo aver sbattuto ripetutamente le palpebre per mettere a fuoco il paesaggio circostante, scoppiò in un improvviso impeto d’ira.
- Sei un idiota! Ma che ti sei bevuto per andartene in quel modo?-.
Avrebbe voluto dirgli parole ben peggiori di quelle, ma si volle trattenere. Lui invece non disse niente. Si sedette accanto a lei, pur sapendo di stuzzicarla con i suoi modi irriverenti. Sorrise nel vedere Beta allontanarsi da lui, anche se solo di pochi centimetri. Conosceva fin troppo bene quello stupido gioco infantile che prima o poi, finiva con la caduta di uno di loro. Perché no?
Se cercava qualcuno che fosse alla sua altezza, che le potesse dare filo da torcere, l’aveva trovato. Dopotutto, era da un po’ di tempo che non si divertiva nel vero senso della parola. E fu così che cominciò un giogo contorto fatto di piccoli spostamenti, che si concluse con la rovinosa caduta di lei. Si massaggiò il fondoschiena dolorante, non accorgendosi però di essere finita sopra una piccola aiuola di azalee non ancora fiorite, camuffate abilmente da una spessa coltre di neve. Si sentiva sopraffatta da un ingente senso di inferiorità. Come se, con la sua caduta, avesse visto l’abbattimento della sua dignità nei confronti di Gamma. Ed era fin troppo imbarazzante.
- Vuoi una mano?-.
Desiderava tutti gli aiuti del mondo, ma non il suo. Percepiva quella domanda come un gesto di compassione nei suoi confronti. Non voleva abbassarsi ai suoi livelli. Affondò le dita nel terreno talmente in profondità che ogni angolo delle sue unghie era ricoperto di terriccio. Un brivido le immobilizzò la schiena quando sentì la coda viscida di un lombrico attorcigliarsi sul suo indice. Sospirò. Non aveva scelta.
Tese la mano verso di lui. Non appena questi la prese, sussultò per un istante. Un piacevole torpore l’assalì, le sue labbra si schiusero in un sorriso accennato a malapena. Finalmente aveva compreso la gioia di quel calore dolce e sincero, sì soffocante, ma al tempo stesso avvolgente come il più dolce dei baci. Le lacrime uscirono spontanee, inumidendole il volto. Due accordi dissonanti, si erano trovati, e tra di loro sarebbe sbocciata una melodia perfetta.

   
 
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