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Autore: Utnapishtim    12/03/2013    1 recensioni
Fine ottocento. Un viaggio in calesse per una valle dell'alto trevigiano. Un incontro inaspettato che lascerà il segno. Una storia che si raccontava nei filò
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il passeggero


Quando ero bambino andavo sempre a giocare nella parte della casa adibita a garage. Era una costruzione più vecchia rispetto al resto, i muri erano totalmente in pietra a vista, una scala interna di legno portava al piano di sopra, dove si trovavano vecchie cianfrusaglie e il resto del fieno che fino a pochi anni prima vi veniva accantonato. Il soffitto del piano terra era di legno con delle lunghe travi tarlate. In una di queste era conficcato un oggetto che non avevo mai visto e che mi incuriosiva. Volevo sapere cosa fosse e cosa ci facesse lì ed un giorno decisi di chiederlo a mia nonna. Alla mia domanda a mia nonna si illuminò il viso. Le piaceva molto raccontare le storie della nostra famiglia e del paese e a qualsiasi discorso si facesse lei era in gradi di agganciarsi con dei racconti o degli aneddoti. Qualsiasi cosa succedesse poi, c'era sempre un proverbio pronto ad aiutarla a esprimere il suo giudizio sulla situazione. Mia nonna mi disse che quello era un ferro di cavallo, ma non uno dei soliti. Era stato piantato li a fine ottocento, quando quella stanza era usata come stalla. Il nonno di mio nonno infatti “al fea 'l biròc”, cioè lavorava come trasportatore usando appunto il biroccio, un carro a due ruote trainato da cavalli. Non era un lavoro che rendeva ricchi, mi disse, spesso si veniva pagati con un pasto e un bicchiere di vino o con qualche manciata di fagioli. Comunque bastava per mantenere la famiglia. Veniva assunto a giornata e per lavoro si trovava spesso a percorrere le strade da Colmaggiore, dove abitava verso Tarzo, oppure Revine o verso Cison e Follina e per tutta la Valsana. La Valsana era “sana” appunto perché a quel tempo era appena stata bonificata. Prima di allora i laghi di Revine si estendevano a formare un grande acquitrino malarico da Lago fino alla collina morenica di Gai. Durante la dominazione austriaca fu costruito un lungo canale rettilineo, la “Tajada” che tagliava la valle in due longitudinalmente, raccoglieva le acque ed andava a gettarsi nel fiume Soligo. Il terreno circostante era stato livellato e reso adatto alla coltivazione. Valentino, questo era il nome del mio trisavolo, quella sera stava ritornando verso casa da Follina, dopo una lunga giornata di lavoro. Era estate e il sole andava calando alle sue spalle in fondo alla valle. Il caldo era ancora intenso, c'era molta umidità. La campagna era tutto un frinire di grilli e cicale. Valentino aveva sete. Aveva oltrepassato Soller, ormai cominciava a vedere i laghi e, sforzandosi un po', in fondo, il paese. Seduto a cassetta guardava la valle intorno. Di solito arrivava in quel punto che il sole doveva ancora tramontare, stavolta invece era già l'imbrunire e in giro non c'era già più nessuno. Quel giorno aveva finito più tardi del solito. Sarebbe arrivato a casa col buio. La cosa in generale non gli dava fastidio, ma sapeva che sarebbe dovuto passare accanto al cimitero di Lago. Quel posto gli dava sempre una sensazione spiacevole, anche di giorno. Si raccontavano strane storie la sera, nei filò. Storie da vecchie comari, certo però.. chissà!. La strada proseguiva e lo vide sulla sinistra. Un piccolo campo quadrato delimitato da muri grigi screpolati, sul davanti un vecchio cancello di ferro con una croce sopra. Valentino senti la bocca un po' più secca e impastata. Tentò di sputare. La campagna intorno pareva essersi fatta più silenziosa. L'aria era ancora calda, ma un piccolo brivido lo colse di sorpresa. Scosse le redini del cavallo e lo incitò come al solito dicendo “hip!”, ma il suono gli uscì a mezza voce. Ormai era quasi davanti al cimitero. Il cancello era socchiuso. Decise di passargli davanti sforzandosi di tenere gli occhi fissi sulla strada, senza mai guardare dentro. Sentiva il suo collo farsi rigido come un tronco, il battito aumentare, il sudore diventare più appiccicoso. Stava per farsi come al solito il segno della croce, quando il suo cuore ebbe un tonfo. Con la coda dell'occhio aveva visto qualcosa, uscire dal cimitero e correre velocemente verso il suo carro. Si girò d'improvviso, appena in tempo per vedere un'ombra nera, agile come un gatto, salire sulla parte posteriore. Il legno ebbe un sussulto, il carro si abbassò e rallentò, come se un macigno molto pesante gli fosse stato buttato sopra. Il cavallo fece un mezzo nitrito ed uno sbuffo e cominciò a tirare con più fatica. Valentino era pietrificato, il respiro gli si era bloccato in gola. La figura si era acquattata in fondo al carro. Valentino si scosse d'improvviso e senza sapere quello che faceva, srotolò la frusta ed alzò il braccio come per colpire gridando contemporaneamente più volte: “chi setu? Cossa vutu?” con voce che voleva essere minacciosa, ma usciva stridula e rotta dal terrore. La figura non disse niente e non fece una mossa. Rimaneva semplicemente lì, rannicchiata. Valentino non sapeva cosa fare. Cominciò a osservarla meglio. Era qualcosa, dalla forma non del tutto definita, ma sembrava simile a un uomo. I contorni si distinguevano, ma non si capiva bene se avesse vestiti, peli o la pelle nuda. Sembrava quasi fatta di un addensamento di quel buio che ormai era sceso nella valle. Se era un uomo era un uomo decisamente grosso. Lentamente la figura alzò la testa. Due occhi rossi e luminosi come braci si posarono su di lui e gli fecero gelare il sangue. Prima di riuscire a pensare qualsiasi cosa Valentino cominciò a colpire quell'essere furiosamente con la frusta. L'essere non si mosse di un millimetro e continuò a fissarlo. Sembrava che le frustate gli fossero del tutto indifferenti. Valentino si fermò ansimando. Il carro continuava faticosamente ad avanzare ed il cavallo aveva svoltato come d'abitudine verso destra, imboccando la strada che attraversava la valle e si portava sull'altro versante. L'uomo era disorientato e incredulo. Che cos'era quell'essere? Cosa voleva? Perché non reagiva alle frustate? Sentendosi impotente piagnucolò: “Va via, va via demonio!”. Quella parola lo colpì come uno schiaffo. Allora era così. Si trovava davvero di fronte a quel demonio del quale il prete e le suore parlavano. Ed era venuto a prendere proprio lui. Il pensiero corse alla sua famiglia. La moglie doveva aver già abbrustolito la polenta e scaldato i fagioli, i bambini sicuramente correvano per la cucina giocando affamati. Tutti lo aspettavano per mettersi a tavola, forse cominciavano a chiedersi perché tardava. Sarebbe mai tornato a casa? Cominciò a pensare alle immagini dell'inferno con cui il prete amava condire le sue prediche minacciose la domenica in chiesa. Il fuoco, la sofferenza eterna.. Preso dalla disperazione si fece il segno della croce e cominciò febbrilmente a recitare il Padre nostro, l'Ave Maria e tutti i frammenti di preghiera che conosceva. Niente. L'essere oscuro continuava a fissarlo immobile, senza scomporsi. Non ne vedeva il viso, ma aveva come la sensazione che si stesse facendo beffe di lui. Erano quasi arrivati a metà della valle e Valentino si sentiva sconfitto. Le preghiere ormai si confondevano con il pianto, le imprecazioni e le frasi sconnesse. Improvvisamente si rese conto che non c'era niente da fare. Ormai era perduto. Questo pensiero gli conferì una certa calma. Si rivolse ancora una volta a quell'essere: “ma insoma cossa vutu da mi?”. L'essere continuava a stare fermo. Valentino continuava a guardarlo smarrito. Il carro continuava ad avanzare. Come il cavallo mise uno zoccolo sul ponte sulla Tajada l'essere ebbe un fremito. cominciò a guardare a destra e a sinistra come se fosse spaventato. Ora anche le ruote del carro stavano salendo sul ponte e l'essere sembrava cercasse di rannicchiarsi più indietro, come se non volesse attraversarlo. Una volta arrivato sopra l'acqua l'essere emise un grido stridulo e, con un salto, si gettò nel canale scomparendo. Valentino frustò il cavallo che aumentò il passo. Continuò per un po' a fissare la superficie della Tajada, ma non vide più nulla. Viaggiò veloce quasi fino a casa, senza mai voltarsi indietro. Prima di arrivare in paese si fermò. I grilli ricominciavano a cantare (ma forse non avevano mai smesso), le lucciole si aggiravano per i campi. La sera aveva ripreso la sua dolcezza. Valentino guardò di nuovo il punto in cui la figura nera si era acquattata. C'era qualcosa che luccicava. Salì sulla cassa del carro e si avvicinò. C'era uno strano ferro di cavallo, più piccolo di quelli che si usavano solitamente e dalla forma strana. Vicino, una moneta d'oro. Quasi senza rendersene conto mise in tasca la moneta. Il ferro di cavallo non lo avrebbe potuto usare. Decise di piantarlo su una trave della stalla forse per ricordo, o come monito. O semplicemente così, perché non aveva il coraggio di buttarlo via. Questa è la storia che mia nonna dice di aver sentito dal nonno di mio nonno, in un filò. Lui giurava che era vera. Mia nonna dice però che a quei tempi, nei giorni di festa, si mangiava molta pinza e si beveva molto vino. Non era inusuale vedere il diàul, la strìga o il mazaròl.
  
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