Buon Venerdì sera a
tutti! Per vostra somma (no) gioia, ecco a voi la quarta shot di questa raccolta. Ammetto
che è piuttosto lunga, però la adoro
particolarmente. Ho la febbre e non
capisco un accidente, però ci tenevo particolarmente a mantenere la mia
promessa e farvi leggere questo delirio racconto. Perciò, se trovate
degli errori, non inseguitemi con il machete. Non era mia intenzione farli,
sappiatelo.
Inizialmente
avevo intenzione di fare qualcosa di
allegro, come era valso per i due capitoli precedenti a questo. Invece, per
vostra disgrazia, è uscita questa… cosa.
Non so neanche io come definirla. Ne vado in parte fiera, dato che c’è un pezzo di me in questa quarta shot, però so che potrebbe non essere comprensibile a
tutti. C’è tanta Bakuryu, ma c’è anche…
qualche accenno di Dragon (one sided). Sì,
ora merito davvero tante botte. ♥
La
canzone cantata da Sandra è Drumming Song
di Florence and the Machine (nel testo,
però, la canzone ha come titolo un suo verso. Il motivo? Semplice, il
significato di quel verso). I versi non sono in ordine, li ho selezionati in
base a quello che volevo far dire alla Capopalestra.
Sì, non sono coerente. Lo ammetto con
estrema sincerità. Mi auguro che questa shot sia di
vostro gradimento!
Ultima
cosa, ma non per importanza: voglio
ringraziare di cuore quello che recensiscono,
quelli che mi seguono e chi ha messo
questa raccolta nelle preferite.
Grazie di cuore a tutti, davvero! Inoltre, ci tenevo a dedicare questa shot a Carolina,
che si merita molto più di tutto questo. ♥
Quarta Settimana:
Canta per me
«Canta
per me».
Così
aveva esordito Gold, quel Venerdì sera, lasciando Sandra letteralmente di
stucco. Inizialmente colpita e meravigliata, decise di non domandare alcun
chiarimento riguardante quell’inaspettata richiesta, per poi afferrare tra le
mani la sua amata chitarra.
Qualche
canzone avrebbe mai potuto dedicargli? Ormai le aveva ascoltate praticamente
tutte, durante i loro incontri, ad eccezione di una e una soltanto: Until there’s nothing inside my soul.
Le
sue dita, dapprima impegnate ad accordare lo strumento, si bloccarono
improvvisamente, non appena quel titolo crudele e il testo di quella melodia
cominciarono a riecheggiare assordanti nella sua testa. Si trattenne a stento
dall’esibire una smorfia di dolore e soffocò un gemito, non appena ricordo con
malinconia l’ultima volta in cui l’aveva cantata – e per chi l’aveva cantata, poi.
«Lance»
mormorò debolmente, in un sussurro impercettibile e quasi inudibile,
scordandosi di come Gold si trovasse a pochi centimetri di distanza da lei.
Aveva
cantato e aveva suonato con allegria per il Campione, l’ultima volta che le
aveva fatto visita e nello stesso momento in cui le aveva promesso che le
avrebbe fatto visita molto più spesso; giuramento che si era tramutata in
bugia, la stessa menzogna da cui aveva tratto nutrimento e che l’aveva illusa
per tanto tempo.
Scosse
velocemente il capo, nel vano tentativo di scacciare gli spettri di quel
passato tormentato e tentatore, per poi tornare a concentrarsi sul suo compito.
Si schiarì la voce e raccolse il coraggio a due mani, pronta ad affrontare
quella difficile sfida. Non seppe spiegarsi per quale motivo stesse facendo
tutto questo per Gold, per quell’insulso ragazzino che era comparso
improvvisamente nella sua vita, occupando i suoi giorni e farcendoli di nuove emozioni.
A suo tempo non gli avrebbe mai permesso di scoprire aspetti tanto intimi del
suo animo, eppure in quel momento non riuscì a resistere alla tentazione di
scoprire nuove carte davanti a lui.
«There’s a drumming noise
inside my head» cominciò a cantare flebilmente,
mentre pizzicava alcune corde della chitarra. Chiuse gli occhi e fece
ondeggiare la testa al ritmo crescente e incalzante della musica, completamente
persa in quell’atmosfera nostalgica che si apprestava a rievocare ad ogni frase
pronunciata. «That starts when you’re around».
Per
lunghi anni, la Capopalestra non aveva fatto altro
che stare nell’ombra di suo cugino, nell’attesa che si voltasse e la degnasse
di un miserrimo sguardo. Lo aveva seguito e desiderato morbosamente, spinta da
un motivo che neppure lei era in grado di spiegare. Che si trattasse di amore
era fuori discussione, forse: come poteva definirsi amore ciò che invece si manifestava come una vera e propria
ossessione? Come poteva chiamarsi amore
qualcosa che annichiliva e consumava la propria anima?
«I swear that you could
hear it» proseguì, con
il tono di voce accentuate dal dolore represso e soffocato in recesso isolato
del suo cuore. Rabbia cieca si accese nel suo corpo, mentre le parole
sgorgavano a fiotti dalle sue labbra, come un fiume in piena portatore di
distruzione. «It makes such
an all mighty sound!».
Gold
riusciva perfettamente a udire quel rumore, di questo ne aveva l’assoluta
certezza. Nonostante fosse un ragazzino inesperto riguardo un simile campo, era
riuscito ad intuire che cosa si celava dietro quelle parole apparentemente
innocenti e pacifiche. Dopotutto, per quanto paradossale e insolito potesse
sembrare, era sempre stato capace di leggere il suo animo come se fosse un
libro aperto, senza mai sbagliare.
Forse,
dopo aver decodificato alla perfezione quel messaggio, sarebbe stato in grado
di salvarla. Ma come ci sarebbe riuscito un ragazzino di sedici anni? Come
avrebbe potuto strapparla da quell’agonia interiore e disintossicarla da quella
droga malsana? Era a dir poco impossibile riuscirvi; perfino lei, così
determinata e dotata di grande forza di volontà, aveva fallito nell’intento.
«As I move my
feet towards your body, I can hear this beat it fills my head up» riprese, mentre l’Allenatore la fissava assorto e serioso come non mai. La
Domadraghi pregò con tutto il cuore che il suo volto
non stesse tradendo alcuna espressione, in modo tale che quel Tappo maledetto
non riuscisse a sorprenderla in quell’istante di debolezza. Forse avrebbe
dovuto smettere di cantare, ma come riuscirvi, quando le emozioni prendono il
sopravvento sulla ragione? «…And gets louder and louder».
Le
sue iridi color ghiaccio si posarono su quelle dorate di Gold, intrecciando lo
sguardo con il suo nel tentativo di leggere la sua mente. Non vi trovò alcuna
traccia di compassione o tristezza, a differenza di altri che solevano
guardarla in quel modo quando qualcuno aveva la malaugurata idea di nominare
Lance in sua presenza. Lui la osservava in modo apparentemente impassibile, rispettando
i suoi sentimenti, e si limitava a stare in religioso silenzio, in attesa che
lei continuasse a deliziarlo con il suono della sua voce.
«It fills my head up and gets louder and louder» mormorò la
giovane donna a pochi centimetri dal suo viso, con voce leggermente tremante.
Per un inspiegabile motivo, quell’Allenatore la stava mettendo a dir poco in
soggezione. Smarrita nei suoi begli occhi oro, faticò a ricordare il testo
della canzone e le parole che avrebbe dovuto proferire. «It makes such an all mighty so-!».
Ma
non fece in tempo a concludere il verso, che le sue labbra si ritrovarono
improvvisamente impegnate in un bacio inaspettato. Trattenne il respiro, non
appena la bocca del ragazzo si posò sulla sua in modo dolce e delicato,
mettendo a tacere il suo tormento e regalandole un fremito lungo la schiena.
Dopo
svariati secondi di indugio e confusione, Sandra mollò la presa sulla chitarra,
per intrecciare le dita nei capelli corvini dell’amico. Lo avvicinò a sé con
fare possessivo, permettendogli così di approfondire quel contatto puro e
intimo, fino a quel momento tanto desiderato – seppur inconsciamente – da entrambi.
«San,
dimmi la verità» ansimò Gold, dopo essersi allontanato a malavoglia dalla Capopalestra per l’esigenza di aria. Appoggiò la fronte
contro la sua e la guardò negli occhi, sfidandola a rispondere alla sua prossima
domanda in modo sincero. «Concentrati. Senti ancora quel rumore? Ti sta ancora
assordando?».
Il
volto della Domadraghi si dipinse all’improvviso di
un’espressione di puro stupore e le sue guance si velarono di rosso. Per quanto
si sforzasse di focalizzare tutta la sua attenzione sui suoi pensieri,
nonostante cercasse di udire anche un solo piccolo suono, la calma regnava
sovrana nel suo animo. Non vi era più nulla capace di stordirle i sensi, di
sfiancarla e di costringerla a scivolare a terra, sopraffatta dal peso
insopportabile del dolore. Inaspettatamente, ogni ricordo di tormento appariva
sfocato e confuso, quasi avvolto da una nebbia fitta e alquanto fastidiosa.
«Non
sento più nulla, Gold» sussurrò lei in risposta, mentre lacrime calde
sgorgavano traditrici dai suoi occhi. Dovette portarsi una mano alla guancia,
per accorgersi di quelle perle salate che le stavano rigando il volto, in
manifestazione di somma gioia. Finalmente, dopo anni di agonia, quell’incubo
era giunto finalmente al termine.
«Non
permettere mai a nessuno di trattarti ancora in questo modo» asserì serio l’Allenatore,
asciugando quel pianto silenzioso con due dita. Le sorrise dolcemente, con il
cuore traboccante di gioia e felicità. In quel momento, dire che si sentiva l’uomo
– o, per meglio dire, il ragazzo – più felice della terra era solo un mero
eufemismo.
«Se
te ne andassi, ti verrei a cercare» replicò la futura Maestra Drago,
socchiudendo gli occhi fino a farli divenire due fessure ghiacciate alquanto
minacciose. «Sappi che, una volta che ti avrò trovato, non garantirò la tua
incolumità».
Ed
entrambi risero, prima di tornare a sugellare quelle promesse con altri dolci baci
e carezze delicate.