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Autore: Angelique Bouchard    16/03/2013    6 recensioni
Questa storia e il Sequel de "Lettera alla donna della mia vita" che sarebbe meglio leggere.
"«Eltanin, va'!», strillò la Granger con voce isterica, intrisa di ansia, sconcerto, paura, sorpresa e un'emozione indecifrabile. E la piccola, seppur sbuffando, si voltò e corse nella direzione da cui era venuta, ma non prima di avermi preso di mano la sua pallina rossa. Ma io non mi resi affatto conto di quel gesto, il mio cervello era focalizzato su una sola parola.
Eltanin, la figlia della Granger si chiamava Eltanin."
STORIA TERZA CLASSIFICATA AL CONTEST "IL FASCINO DELLE EDITE" INDETTO DA MARY BLACK SUL FORUM DI EFP E GIUDICATO DA S.ELRIC_; VINCITRICE DEL PREMIO BRIVIDO ( + COMMOVENTE) NELLO STESSO CONTEST.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger, Nuovo personaggio | Coppie: Draco/Hermione
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
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N.b. Questa storia è il Sequel de "Lettera alla donna della mia vita", che potete trovare qui --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=980820&i=1 . Vi consiglio di darci una lettura veloce.
Un bacio,
Angelique




Storia terza classificata al Contest "Il fascino delle edite", indetto da Mary Black sul Forum di Efp e giudicato da S.Elric_ ; vincitrice del premio brivido (+ commovente) nello stesso contest.

Nickname sul Forum: 
Aurora.96 
Nickname su Efp: Angelique Bouchard 
Titolo della storia: Da adesso in poi 
Coppia: Draco/Hermione 
Raiting: Giallo 
Genere: Introspettivo, Sentimenale 
Note/Avvertimenti: Missing Moments
Introduzione: «Eltanin, va'!», strillò la Granger con voce isterica, intrisa di ansia, sconcerto, paura, sorpresa e un'emozione indecifrabile. E la piccola, seppur sbuffando, si voltò e corse nella direzione da cui era venuta, ma non prima di avermi preso di mano la sua pallina rossa. Ma io non mi resi affatto conto di quel gesto, il mio cervello era focalizzato su una sola parola.
Eltanin, la figlia della Granger si chiamava Eltanin. 
Nda: Nessuna



 



Da adesso in poi
 
 
 
[...]
non so se sarò pronto mai
prova a esser pronta tu per noi
ascolto:
mi insegnerai
che puoi,
che vale la pena vivere,
ti chiederò "dimmi perché"
tu che non parli dirai
"vale la pena, vedrai"
da adesso in poi!
Da adesso in poi ci proverò
a farti avere il meglio che ho
il peggio lo troverai da te,
ma vale la pena vivere,
mi chiederai "sì, ma perché ?"
so solo che ti dirò
vale la pena vedrai
da adesso in poi!
 
-L.Ligabue
 
 
 
 
 
E alla fine ci ero tornato a King's Cross. Mi ero ripromesso che non mi ci si sarei avvicinato mai più, che non avrei mai più guardato l'Espresso per Hogwarts, che avrei chiuso ogni tipo di rapporti con quel mondo. Ero partito, avevo lasciato l'Inghilterra per avere una vita migliore di quella che la reputazione da Mangiamorte prometteva, per non esser squadrato dall'alto in basso da ogni uomo, donna o bambino che mi incrociasse per strada. E invece ero di nuovo lì, quasi quindici anni dopo, con le persone che, sfilandomi accanto, non potevano evitare di buttare un occhio alla mia persona, storcendo pure il naso. Sembrava che tutti sapessero solo e unicamente cosa avevo sul braccio e ciò che ero stato, come se a nessuno fosse mai stato detto ciò che avevo fatto quella maledetta notte a Hogwarts. Insomma, a quelli come me non capita spesso di compiere atti eroici per salvare la vita di centinaia di persone che, oltretutto, hanno sempre denigrato, perciò, che diamine, un minimo di riconoscenza, un pizzico di gratitudine, uno sguardo un po' meno violento e assassino! In fin dei conti, era grazie a me che quella banda di maghetti scoordinati erano riuscita a organizzare una difesa un po' più resistente, grazie al contrattempo che io avevo creato a quel mezzo-serpente, quando avevo raccolto quel poco di coraggio che avessi mai posseduto e mi ero addentrato nella Foresta Proibita, da solo, camminando incontro a La Morte. A meno che il resto del mondo non sapesse nulla di ciò che aveva fatto, il che era plausibile, dal momento che nessuno mi vide uscire dal castello e incamminarmi nel bosco. Non ero neanche mai tornato indietro, e i Mangiamorte, credendomi morto, non si erano scomodati a riportare il mio corpo. Ma non poteva essere che nessuno sapesse, perché qualcuno che sapeva dove mi fossi cacciato c'era. 
Lei, lei lo sapeva dov'ero andato. 
Salazar solo potrebbe dire come, era riuscita a intercettarmi mentre uscivo dal castello e mi dirigevo verso la Foresta Proibita; mi aveva fermato e implorato di non andare, aveva persino le lacrime agli occhi, mentre stringeva in mano quella lettera che le avevo lasciato meno di un'ora prima. 
Quanto avrei voluto restare lì con lei, quanto avrei voluto possederla all'infinito, e non per una manciata di minuti rubati a un Destino deciso a schiacciarci. La sua pelle, quella notte, era stata ancor più morbida e setosa di un anno prima, il suo calore che sconfiggeva il freddo dei morti, per un momento, mi aveva talmente avvolto e stretto che mi ero quasi convinto che valesse la pena restare, che fosse inutile mettermi a fare l'eroe, che fosse sufficiente tornare nel castello e fare la cosa giusta, combattere i Mangiamorte senza consegnarmi direttamente a loro. Era quasi riuscita a convincermi, con parole tanto dolci che mi avevano fatto vacillare, mentre ci rivestivamo con una calma totalmente fuori luogo. Ma il pensiero di dover affrontare famiglie distrutte a causa di quelli come me mi aveva terrorizzato, ed ero stato codardo per l'ennesima volta. Certo, una buona dose di coraggio nell'andare ad affrontare il Signore Osc- Voldemort l'avevo tirata fuori, ma, come aveva detto quel vecchio matto di Silente molti anni prima, ci vuole più coraggio ad affrontare gli amici – o comunque, i buoni in generale – di quanto ce ne voglia per affrontare i nemici. 
Dunque, tornando a cercare di capire perché la gente mi guardasse con tanto astio, arrivai alla conclusione che le possibilità erano soltanto due: o lei, quella notte, nascose quella lettera e non disse mai a nessuno di avermi visto mentre andavo nella Foresta, così che anima viva non seppe mai cosa io – io, Draco Malfoy – avevo fatto, o lei tentò di convincerli di come avessi rischiato la mia vita per loro, ma nessuno le credette. La seconda opzione mi sembrava la più plausibile, sia per il fatto che lei – lei, Hermione Granger, leale e onesta Grifondoro – avesse tentato di aiutarmi, sia per il fatto che nessuno avesse dato ascolto a una voce che mi vedeva come una specie di eroe. E le occhiatacce che continuavo a beccarmi a quella dannata stazione erano indecifrabili, non riuscivo a capire se mi odiassero perché ero stato un Mangiamorte o perché diffidavano della bella storiella raccontata dalla Granger. 
In ogni caso, in qualunque modo fosse andata quel giorno di tanti anni prima, io mi trovavo di nuovo a King's Cross, dove centinaia di giovani maghi e streghe si accingevano a salire su quel treno rosso scarlatto, identico a come lo ricordavo. E non potei evitare ai ricordi di tornare a galla, non potei frenare le sensazioni mentre ripensavo al mio primo viaggio verso Hogwarts, l'emozione che mi aveva travolto salendo su quel treno, l'adrenalina che era entrata in circolo, la gioia che sprizzava da tutti i pori. Assurdo come in quel momento, dopo così tanto tempo, mi rendessi conto di quanto avessi sbagliato sin dall'inizio, da quand'ero bambino, molto prima che entrassero in gioco Mangiamorte e mostri vari. Ero sempre stato un arrogante ragazzino, un viziato figlio di papà che si credeva superiore persino a Merlino, avevo sempre tentato di sottomettere chi mi stava intorno, di denigrarlo e deriderlo, perché era così che mi avevano insegnato. Ma forse non avevo mai davvero creduto che fosse giusto comportarsi in quel modo, forse mi sembrava solamente più facile pensare che potessi avere tutto quando e come volevo, piuttosto che ammettere che dovevo guadagnarmi e meritarmi ciò che desideravo. 
Quanti errori che ho fatto nella mia vita, quanti irreparabili, quanti stupidi ed evitabili, quanti per codardia: in quel momento mi sembrava di vederli scorrere davanti ai miei occhi, uno per uno, anno dopo anno... Ma ce n'era uno, tra questi, che avevo deciso di non considerare come tale, uno sbaglio che, da alcune settimane, avevo deciso di chiamare “miracolo”.
 
 
Era uno dei pomeriggi più caldi dell'estate, e io e mia madre, all'apparenza molto più vecchia di quanto in realtà non fosse – causa la solitudine, la derisione, lo sprezzo della gente -, avevamo deciso di fare una passeggiata per le vie di Londra, novità di quell'anno, dal momento che prima, quando andavo a trovarla, restavamo chiusi a Villa Malfoy per giorni interi, un po' per il mio volere, un po' per il suo, un po' per quello della popolazione magica, che, nonostante fosse passato più di un decennio, ancora guardava la nostra famiglia con odio e disgusto. Famiglia che si era ridotta a me e mia madre, dato che mio padre era passato a miglior vita appena tre anni dopo l'incarcerazione. Io e la donna eravamo convinti fosse stato un bene, perché vivere in quel luogo, nonostante i Dissennatori fossero stati cacciati, lo aveva reso un'altra persona, e a stento ci riconosceva quando andavamo a trovarlo. 
Così, tentando di ignorare gli sguardi maligni di chi ci riconosceva, quel giorno di inizio agosto, siccome faceva troppo caldo per stare in casa, avevamo deciso che una camminata avrebbe giovato alla nostra salute mentale, soprattutto perché incontravamo per lo più Babbani, evitando così di essere squadrati da ogni passante. Angolo dopo angolo, tra un discorso e l'altro, ci eravamo ritrovati in un parco in cui bambini tra i cinque e i dieci anni giocavano allegramente, senza mai esser persi di vista dalle madri che, sedute sulle panchine, chiacchieravano tra loro. Io e mia madre avevamo imitato quelle donne Babbane e ci eravamo accomodati su una panchina all'ombra di un pioppo.
«Torna a casa, figlio mio».
Era sempre la stessa storia, ogni volta che andavo a trovarla: lei mi implorava di tornare a vivere in Inghilterra, e io mi dilaniavo l'anima per rifiutare. 
«Non posso, Madre». Una parte di me avrebbe pagato montagne d'oro insormontabili pur di tornare a vivere a casa mia, con mia madre che, era evidente, soffriva da sola in quella villa. Ma la reputazione che mi portavo dietro era troppo intaccata e sporca per abitare in mezzo a coloro che avevano perso parenti o amici durante la guerra, e vivere tra loro avrebbe significato non avere un lavoro perché nessuno sarebbe stato disposto a darmelo, camminare per strada con nelle orecchie i mormorii disgustati di chi mi riconosceva... Non sarebbe stata una vita sopportabile.
«Vieni tu con me, Madre». E ogni volta glielo riproponevo, con quel finto distacco che in realtà era implorazione. Ma lei, ogni volta, rifiutava.
«Non sono in grado di iniziare una vita al di fuori di casa mia». Aveva paura di andar via dal suo paese, ma non si rendeva conto che il suo paese la stava uccidendo.
Le nostre chiacchiere furono interrotte da una palla gonfiabile rossa che sbattè contro le mie gambe, rimbalzando poco distante. Allungandomi un poco la recuperai e la tenni in una mano, poi alzai la testa per cercare il bambino che l'aveva accidentalmente lanciata addosso a me. La vidi a pochi metri di distanza, era una bambina sui nove o dieci anni, e teneva le manine davanti alla bocca in segno di vergogna e dispiacere. 
In quei pochi secondi, strinsi quella palla talmente forte che rischiai di farla scoppiare.
 
 
Sospirai, guardando il grande orologio della stazione: erano le undici meno venti. Ormai non mancava molto alla partenza, ed ero certo che di lì a poco sarebbe comparsa l'intera banda; mi stava venendo una certa ansia, sentivo un groppo in gola non indifferente, e, per un momento, da codardo qual ero sempre stato, sentii l'impulso di andarmene finché ero in tempo. Non so esattamente quale forza mi costrinse a rimanere appoggiato a quella colonna, le braccia incrociata sulla giacca nera Babbana, e i capelli biondi che ricadevano sugli occhi, esattamente come anni prima. Non ero cambiato molto, nel tempo, ero solo un po' più vecchio e avevo imparato a starmene per i fatti miei, a non andare in cerca di guai e ad accontentarmi di ciò che la vita mi riservava, senza pretendere di più o di meglio. A dire il vero, però, qualcosa in me era completamente diverso, ad esempio avevo imparato a vivere tra i Babbani, a conoscerli, a usare i loro oggetti e le loro invenzioni, e avevo persino scoperto, in America, di essere assolutamente in grado di rapportarmi con loro, e alcuni di loro mi stavano persino simpatici; ma la cosa migliore del vivere lontano dai maghi, era il fatto che nessuno mi conoscesse. Non avrei mai pensato che potesse piacermi un fatto simile, e invece, da dopo la guerra, avevo scoperto che il mio unico desiderio era quello di passare inosservato, e per i Babbani io non ero nessuno, solo un nome e un cognome da scoprire, senza un passato e senza una storia, senza macchie e senza vergogne. Far passare il Marchio Nero per un semplice tatuaggio un po' bizzarro era risultato più facile del previsto, e avevo persino notato che alle donne piaceva molto. Lontano dai maghi mi ero ambientato facilmente e mi ero trovato meglio di quanto potessi sperare, per questo tornare a casa era sempre più difficile e ne avevo sempre meno voglia, perché in America vivevo in pace, mentre in Inghilterra la mia guerra personale contro il mondo non era ancora finita e sembrava senza fine. 
Le undici meno un quarto, ed ecco comparire il gruppo che, ai tempi della scuola, avevo odiato con tutte le mie forze. Certo, l'astio che avevo sempre riservato loro era stato sproporzionato e spregiudicato, ma una minima parte bisognava giustificarla: sembravano degli alieni appena atterrati sulla terra, incapaci di orientarsi, si guardavano intorno come se non avessero mai visto quel posto, e non mi riferivo affatto ai bambini, per i quali poteva essere la prima o al massimo la seconda volta. Potter aveva gli occhi lucidi mentre guardava quel maledetto treno, senza neppure rendersi conto che i figli stavano litigando e ci mancava poco che cominciassero a picchiarsi; la Weasley aveva quel sorriso esagerato sul viso invecchiato, così come la figlia, mentre salutava compagni di scuola che, come lei, accompagnavano i propri bambini; poi c'era il Re dei Deficienti, quella faccia da pesce lesso per niente cambiata, solo con barba rossa e qualche piccola ruga agli angoli della bocca. Senza figli e senza moglie, proprio come mi aspettavo. 
E con loro, ovviamente, c'era la Granger.
Bella come non lo era mai stata, molto più che ai tempi della scuola, con i ricci un tempo indomabili acconciati in una pettinatura adulta ed elegante, i lineamenti più dolci, il corpo più formoso e vestito di abiti che, al contrario di quell'orribile divisa scolastica, la rendevano una donna  attraente e desiderabile a un primo sguardo. Per un momento, sentii un moto di rabbia pervadermi e scuotermi al pensiero dell'uomo – mi rifiutavo di pensare gli uomini – che avevano avuto la fortuna di toccare quel corpo, di respirare il suo profumo, di accarezzare i suoi capelli, di baciare la sua bocca...
Ed eccola lì, accanto alla madre, così simili e belle sia in viso che nel portamento, già con alcuni libri sotto il braccio e la divisa indosso. Fu lei la prima ad accorgersi di me, puntandomi addosso quei suoi occhi che mi avevano già colpito un mese prima.
 
 
Quella bambina si mordeva un labbro, visibilmente a disagio e imbarazzata, mentre si avvicinava cautamente ed evitava, per quanto poteva, il mio sguardo che, al contrario, non vedeva altro che i suoi occhi. 
Grigi, di un colore tanto unico e particolare che era impossibile scordarlo, brillanti alla luce del sole, all'apparenza piatti, ma in realtà tanto profondi da poterci annegare, occhi che nascondevano miliardi di emozioni, composti da una serie infinita di diamanti luccicanti, occhi che conoscevo, che vedevo sempre, ovunque mi specchiassi.
Erano miei, quegli occhi, non era possibile che ne esistessero di uguali, erano una combinazione perfetta del grigio ferro di mio padre e dell'azzurro cielo di mia madre, più unici che rari, la parte più bella di me, quella più vera, l'unica che mi rappresentava davvero. 
Ma quegli occhi erano identici, e non l'avevo notato solamente io: mia madre, accanto a me, era pietrificata, sembrava stesse per avere un attacco di cuore, ma non ero in grado di pensare a lei, non riuscire nemmeno a voltarmi per assicurarmi che stesse bene, sentivo il mio corpo calamitato da quella bambina, da quegli occhi.
E solo quando, dopo lunghissimi minuti, riuscii a respirare decentemente e a far girare i neuroni in senso orario, mi diedi la pena di staccare gli occhi da quelli identici della bambina per spostarli sul suo intero viso. Aveva dei lineamenti che avevo già visto, la forma del viso, delle labbra, quei dentini leggermente più grandi del normale, quei capelli biondissimi, esattamente come i miei, ma, anziché lisci e sottili, ricci e ribelli come quelli di...
«Eli?».
Quella voce squillante, odiosa, insopportabile.
«Eli, dove sei?».
Quella voce inconfondibile, indimenticabile, unica.
«Eli, cosa stai-...». Ma Hermione Granger non fu mai in grado di terminare quella frase, la sua voce petulante si spezzò all'improvviso quando, una volta individuata la bambina, il suo sguardo cadde prima sulla pallina della piccola, poi su di me. Per un momento mi parve di sentire il cuore della donna esplodere e quasi potei vedere le scintille scaturire dal suo petto, lingue di fuoco ornate di rubini, diamanti, cristalli, smeraldi e altri miliardi di pietre luccicanti che mi colpirono come fossero dei meteoriti. Le mani della Granger presero a tremare in maniera incontrollabile e impiegarono un tempo infinito per posarsi sulle spalle piccole della figlia, mentre i suoi occhi non riuscivano a scollarsi dai miei, così come io non riuscivo a guardare altrove. Anzi, il mio sguardo si alternava tra la Granger e la bambina con una frequenza di venti o trenta volte al minuto, tanto che le miei iridi dovevano sembrare le palline di quello sport Babbano di cui avevo dimenticato il nome. A dire il vero, però, avevo dimenticato persino il mio, di nome. 
«Eli, va' dalla zia Ginny», mormorò l'ex-Grifondoro con la voce che tremava come una foglia sotto un vento autunnale. La bambina aggrottò le sopracciglia, dimostrando quanto fosse contrariata, poi incrociò le braccia al petto e guardò la palla che ancora tenevo in mano: sicuramente la rivoleva, ma io non mi rendevo conto di averla tra le dita, troppo impegnato a fissare i miei occhi incastonati nel viso di quella bambina, o gli occhi della Granger, così simili a come li ricordavo, elegantemente posati su un viso adulto che le stava così bene addosso.
«Eli, va'», disse con più forza la donna, scuotendo leggermente le spalle della bambina.
«Ma mamma-...».
«Eltanin, va'!», strillò la Granger con voce isterica, intrisa di ansia, sconcerto, paura, sorpresa e un'emozione indecifrabile. E la piccola, seppur sbuffando, si voltò e corse nella direzione da cui era venuta, ma non prima di avermi preso di mano la sua pallina rossa. Ma io non mi resi affatto conto di quel gesto, il mio cervello era focalizzato su una sola parola.
Eltanin, la figlia della Granger si chiamava Eltanin.
 
 
La bambina si bloccò in mezzo alla folla e strattonò il braccio della madre per farla fermare, poi indicò il punto in cui mi trovavo, mormorando qualcosa che, da quella distanza, non potei sentire. La Granger le abbassò il braccio, probabilmente ricordandole che era maleducazione indicare, ma la bambina si liberò dalla sua presa e guardò ancora verso di me, dicendo forte: «Mamma, guarda!». E la donna si voltò nella direzione indicata dalla figlia, così come tutto il resto del gruppo: numerose paia di occhi si puntarono improvvisamente su di me, facendomi sentire tremendamente in soggezione e a disagio, ma c'erano solo due sguardi che mi interessavano, dunque impiegai poco a liberarmi di quelli diffidenti di Potter e Weasley, o quello sorpreso della rossa, o quelli interrogativi dei vari bambini. 
La Granger ed Eltanin mi fissavano in due modi totalmente differenti: la prima era di nuovo sconvolta, esattamente come un mese prima, ma la seconda era sorridente e felice, tanto che, prima che sua madre o chiunque altro potesse fermarla, prese a correre verso di me, facendo saltare i voluminosi capelli ricci e biondi. In quel momento, vedendola così contenta di vedermi, capì che lei sapeva ciò di cui io non ero ancora certo al cento per cento, e che quindi tutte le supposizioni e ipotesi che avevo fatto in quel mese – il più lungo della mia vita – erano fondate. 
Eltanin era mia figlia.
Lo vedevo in quegli occhi identici ai miei, in quel biondo da Malfoy, in quel modo un po' presuntuoso di guardare tutto e tutti, in quel portamento fiero, che però era anche simile a quello orgoglioso della madre Grifondoro, così come i ricci indomabili, la forma del viso e i denti.
Ecco, Eltanin non era mia figlia, era nostra figlia. Di un Malfoy e della Granger, di un Purosangue e una Nata Babbana, di un Mangiamorte e un'eroina di guerra. Era grigia come i suoi – miei – occhi, era il risultato dell'aver mischiato il bianco e il nero, era ciò che stava in mezzo a tutto ciò che c'era di diverso sulla faccia della Terra, era il punto in comune tra tutti gli opposti, era la  perfezione nata da due persone imperfette. 
Non so dove trovai la forza di staccarmi da quella colonna e piegarmi sulle ginocchia, così da avere il viso all'altezza di quello della bambina, che ormai mi aveva raggiunto e, affannata, sorrideva, assomigliando a un vero e proprio angelo. 
«Eltanin».
 
 
La Granger, per una volta in vita sua, si comportò da codarda e scappò via da me, camminando nella stessa direzione presa dalla figlia. Ma io non riuscii a fermarla, la mia mente realizzò troppo tardi che se n'era andata, impegnata com'era a rendersi davvero conto che quella bambina si chiamava Eltanin.
Eltanin, la stella più luminosa della costellazione del Dragone.
Eltanin, “l'occhio del Drago”. 
Eltanin, la bambina dagli occhi luminosi come una stella, identici a quelli del padre, Draco.
Eltanin, il mio miracolo personale, la luce dei miei occhi.
 
 
Pronunciai il suo nome con cautela e a voce bassissima, come se temessi di consumarlo, di sciuparlo, come se avessi paura che, dicendolo un po' più forte, quella bambina meravigliosa potesse sfumare in una nuvola di fumo.
«Papà», mormorò in risposta la piccola, con un sorriso più luminoso e caldo di mille soli messi insieme. E a sentirmi chiamare in quel modo, qualcosa nel mio petto si mosse, anzi, qualcosa prese a ruotare a una velocità da far girare la testa, creando un vero e proprio tornado dentro di me, spazzando via tutta la polvere e i rifiuti accumulatisi sul mio cuore, liberandolo di tutte le cose vecchie e inutili, di tutte le paure e le vergogne. Una cascata di diamanti scese dal cielo e atterrò direttamente nel mio petto, illuminandomi, facendomi brillare, quando un tempo il mio nome portava solo oscurità, e potevo sentire il rumore prodotto dal luccichio di quei cristalli, tanto intenso da riempire i timpani, così basso da cullare. Quella semplice parola mi colpì con la forza di un fulmine, scaricandomi addosso tutta la sua elettricità e incendiandomi, scaldando il mio cuore ormai raggrinzito dalla mancanza di affetto e dall'odio, facendolo battere a velocità disumana, tanto che, per un momento, temetti che potesse esplodere. Un vento gelido si agitò nel mio petto, ma la sensazione che mi procurò fu di un calore tanto infuocato da farmi sentire come se fossi in un deserto e la mia unica fonte di acqua fresca e pulita fosse lei, quell'angelo di bambina che mi sorrideva felice, come se io fossi il più bel regalo mai ricevuto, senza rendersi conto che, in realtà, era l'esatto contrario, ed era lei il mio regalo più grande.
«Quindi lo sai...». Fu tutto ciò che riuscii a dire, e un istante dopo mi sentii tremendamente stupido. Ma Eltanin non si fece scoraggiare dal mio semplice commento, anzi, il suo sorriso, mentre annuiva, divenne ancor più luminoso e raggiante, e a me girò vorticosamente la testa. 
Il resto della banda, intanto, ci aveva raggiunto, ma nessuno si avvicinò più di tanto, neppure la Granger, che rimase a un paio di metri di distanza, gli occhi lucidi di lacrime e un sorriso impercettibile sulle labbra rosate. 
«Mia mamma mi ha spiegato chi eri quando siamo tornate a casa, quel pomeriggio», cominciò a spiegare la piccola, con lo stesso tono da maestrina che aveva sempre avuto sua madre, «mi ha detto tutto, di te», aggiunse la bambina, oscurandosi leggermente in viso. E il suo occhio, non potei non notarlo, cadde sul mio avambraccio sinistro, coperto dalla giacca nera. Per un momento sentii l'impulso di urlare contro la Granger: come le era venuto in mente di raccontare tutto alla bambina? Come aveva potuto dirgli che ero stato un Mangiamorte, il seguace di un mostro assassino? 
Poi, però, una voce, dentro di me, mi chiese se davvero volessi raccontare menzogne a mia figlia, come se essermi perso tutta la sua infanzia non fosse già abbastanza imperdonabile.
«Posso vederlo?», mi chiese improvvisamente Eltanin, posando la sua mano, che mi sembrava così piccola, sul mio braccio, alludendo, chiaramente, al Marchio Nero. Il respiro mi si incastrò in gola per un attimo: sapevo che avrebbe voluto vederlo, probabilmente per controllare che sua madre gli avesse raccontato tutta la verità, ma io non ero pronto a espormi tanto, il semplice fatto che lo sapesse mi metteva a disagio, figurarsi scoprirlo davanti ai suoi occhi. 
«Non è il luogo adatto», risposi, prendendo il suo polso sottile e allontanandolo con più delicatezza possibile. La scusa che ci fossero troppe persone intorno mi salvò, anche se sapevo che se ne sarebbe ricordata in futuro. Eltanin annuì piano, per niente intimorita, o disgustata, o arrabbiata; il suo sorriso rimaneva sulle sue labbra da bambina, ma d'un tratto, senza alcun preavviso, s'incrinò, e i suoi – miei – occhi grigi si riempirono di lacrime luccicanti.
«Perché te ne sei andato?», mormorò con voce rotta dal pianto imminente, «non mi volevi?», chiese con un filo di voce, temendo, probabilmente, che dirlo più forte lo avrebbe reso reale. 
Io, invece, mi sentii morire vedendola così abbattuta al pensiero che me ne fossi andato a causa sua, ed era una sensazione che non avevo mai provato, non avevo mai sentito un dispiacere simile al pensiero che qualcuno si ritenesse responsabile delle mie azioni.
Una lacrima sfuggì al suo controllo e rotolò lenta sulla sua guancia liscia e priva di imperfezioni; con un dito la raccolsi, lentamente, sfiorando la sua pelle con tanta cura e attenzione che mi pareva di toccare la più antica e preziosa delle sculture.
«Io non sapevo della tua esistenza», mormorai, sentendomi tremendamente in colpa, «prima di quel pomeriggio, io non ho mai neppure sospettato che tu esistessi. Mi dispiace», sussurrai a una spanna dal suo viso, incapace di sostenere il dolore e la mancanza che vivevano nei suoi – miei – occhi. A sentir quelle parole, la piccola aggrottò le sopracciglia e si voltò di scatto verso sua madre, che ci osservava in lacrime – di gioia, di dolore, di nostalgia. 
«Non è colpa sua», dissi, capendo immediatamente che Eltanin, nel suo piccolo, non potè evitare di incolpare sua madre del fatto che io non fossi a conoscenza della sua esistenza. La bambina si voltò di nuovo verso di me, un interrogativo grande come il mondo era impresso sul suo viso. «È colpa mia, piccola, sono sparito senza dir nulla a nessuno. Non ho potuto farne a meno, non c'era più posto per me, qui», tentai di scolparmi così, suonando patetico persino a me stesso. 
«Ma se avessi saputo di me», mormorò Eltanin, asciugandosi gli occhi con la manica del mantello, «saresti rimasto?», chiese con voce tremante, probabilmente temendo la risposta. La sua domanda, però, mi colse totalmente impreparato: dopo tutto quello che avevo passato a Hogwarts e nel paese in cui ero nato, se avessi saputo che la ragazza con cui avevo fatto l'amore due volte – ed entrambe nelle peggiori delle situazioni – aspettava una figlia da me, sarei rimasto? Avrei sopportato gli sguardi astiosi della gente, le loro occhiatacce? Avrei rischiato la prigione, rimanendo nel mio paese, per la figlia di un amore così insicuro e instabile? Avrei scontato la pena per dei crimini che non avevo mai commesso, pur di non abbandonare la ragazza che amavo e mia figlia? Non era di certo una prospettiva allettante, avrei davvero potuto sopportare una vita simile?
«Sì, sarei rimasto», dissi, andando contro ogni mio pensiero, sorprendendo me stesso, realizzando, mentre la mia bocca pronunciava quelle parole senza che io la controllassi, che era la verità, che sarei stato disposto ad affrontare tutto e tutti se avessi saputo che, da un momento all'altro, la ragazza che amavo avrebbe partorito mia figlia. 
Eltanin sorrise ancora, e a me mancò il respiro: c'era qualcosa, nel modo in cui tirava le labbra, che mi ricordava qualcuno, e impiegai un tempo indeterminato per capire chi. 
Mio padre. 
Le fossette sulle guance erano identiche alle sue, ed erano meravigliose, tanto che quasi mi venne da piangere al pensiero che, sul viso di mio padre, non ero mai riuscito ad apprezzarle come avrei dovuto. 
«Oh», mormorai all'improvviso. Pensare a mio padre mi aveva ricordato  qualcosa di importante che dovevo fare: lasciando la mano di Eltanin, alzai le braccia e portai le mani sotto il colletto della giaccia e della camicia, slacciando il gancetto della collana d'oro che portavo al collo da quando avevo undici anni, precisamente dal mio primo giorno ad Hogwarts. Senza una parola, portai poi le mani dietro il collo sottile della bambina e lei scostò immediatamente i capelli biondi, abbassando la testa per poter vedere il ciondolo appeso alla catenella. Quando agganciai la collana, allontanai le mani e le permisi e
di prendere il pendaglio tra le dita piccole, così che potesse osservarlo meglio.
«È lo stemma dei Malfoy, mio padre me lo diede il mio primo giorno di scuola», sussurrai, mentre la piccola osservava il ciondolo con l'ennesimo sorriso delizioso. «E tu sei una di noi, anche se non sono certo che sia una buona cosa, al giorno d'oggi», aggiunsi con rammarico. Ma Eltanin non mi diede il tempo di aggiungere altro, e prima che potessi rendermene conto mi ritrovai la visuale ostacolata dalla massa informe di ricci biondi, le braccia sottili che mi stringevano il collo e il suo mento sulla spalla. E di nuovo sentii un calore mai provato invadermi e scaldarmi dalla testa ai piedi, una doccia di lava bollente mi investì e non bruciava affatto, semplicemente splendeva di vita, di gioia, di amore. Il mio cuore prese a battere a velocità sovrumana, come se stesse disperatamente cercando di scapparmi dal petto per andare a toccare quello di Eltanin, la mia bambina. Impiegai più tempo del dovuto per convincermi ad alzare le braccia e stringere piano il corpo minuto e fanciullesco della piccola, ma alla fine le restituii l'abbraccio – impacciato, poiché per nulla abituato – e fu ancor più bello.
Non mi resi conto di quanto tempo passammo abbracciati, io e mia figlia, stretti l'uno all'altro come se, in quei pochi attimi, volessimo recuperare tutti gli anni perduti, mentre la Granger, con il bel viso bagnato di lacrime, ci osservava da meno di due metri di distanza, singhiozzando di gioia. Quello fu certamente uno dei momenti migliori della mia vita, uno dei pochi in cui mi sentii veramente felice, bene, libero, e per un momento mi sembrò di avere tutto, pur non avendo niente. 
Il maledetto treno scarlatto fischiò, segno che, chiunque non fosse ancora salito, doveva affrettarsi a farlo. Vidi la Granger risvegliarsi all'improvviso e sobbalzare, accorgendosi di quanto fosse tardi, mentre Weasley e Potter si affrettavano a caricare i bauli dei tre ragazzini.
«Eli?». La Granger chiamò dolcemente la bambina, e io la sentii scuotere la testa sulla mia spalla, stringendo più forte la presa: non voleva andarsene, voleva restare con me. In quel momento temetti davvero di scoppiare in lacrime.
«Forza, piccola», le dissi più dolcemente che potei, allontanandola delicatamente da me, prendendole le mani. «Devi andare ad Hogwarts, non sei contenta?», le chiesi, fissandola nei suoi – miei – meravigliosi occhi.
«No, voglio stare con te», replicò Eltanin, trattenendo a stento le lacrime. Io sorrisi, sentendomi al settimo cielo, se non più in alto. 
«Dai, tesoro», la incitò la Granger, senza però osarsi ad allontanarla da me, cosa che apprezzai non poco; ma la bambina scosse di nuovo il capo, stringendo con più forza le mie mani. A quel punto mi resi conto che, se volevo che partisse – ma io non lo volevo affatto, dannazione -, dovevo assicurarle che, quando fosse tornata, mi avrebbe trovato lì ad aspettarla, dovevo prometterle che, se era ciò che voleva davvero, non l'avrei mai più abbandonata.
«Ascoltami, piccola», mi affrettai a dire, mentre il treno fischiava per la seconda volta, «mia madre, cioè tua nonna, vuole conoscerti, quindi, se tua madre è d'accordo», e mi arrischiai a lanciare un'occhiata alla Granger, mentre la bambina la fulminò con lo sguardo, sfidandola a dire di no, «passeremo il Natale tutti insieme a Villa Malfoy», le promisi, baciandole una mano. 
«Ma le vacanze sono lontanissime!», si lamentò la piccola. Ridacchiai, non potei evitarlo, e la Granger neppure.
«Da adesso in poi», dissi, «varrà la pena aspettare, credimi». Eltanin, seppur riluttante, si lasciò convincere dalle mie parole, così mi abbracciò di nuovo, per un momento, e mi baciò una guancia; io le presi il viso tra le mani e le baciai la fronte, alzandomi poi in piedi, mentre lei salutava sua madre. 
Il treno fischiò per la terza volta, e i motori si accesero... ma la Granger si stava ancora perdendo il raccomandazioni di ogni tipo.
«... studia, sii gentile con tutti, non cacciarti nei guai, e se qualche ragazzino fa il prepotente con te», e quella strega – in tutti i sensi – alzò lo sguardo su di me con un ghigno degno di una Serpeverde, «amalo più che puoi. Un giorno ti ringrazierà», concluse la donna, abbracciando la bambina e guardandomi da sopra la sua spalla.
Non so grazie a quale divinità facemmo in tempo a mettere Eltanin su quel treno, ma alla fine il mezzo scarlatto si allontanò velocemente, portandosi via la mia bambina, e l'impulso di correrle dietro fu fortissimo. 
C'era solo un motivo per cui non lo feci, e, a dire il vero, le assomigliava molto.
La Granger era lì, immobile a fissare la curva dietro la quale il treno era sparito,  le lacrime che avevano ripreso a scendere sulle sue guance, un sorriso dolce ma di già nostalgico a disegnare le sue labbra, mentre Potter, la Weasley e il fratello  cercavano di calmare la figlia più piccola, rossa come la madre, che batteva i piedi perché voleva andare ad Hogwarts. 
Impiegai un tempo infinito per convincere le mie gambe a muoversi e a camminare verso la donna che mi dava le spalle, e quando la raggiunsi il mio cuore batteva ancor più forte di quando avevo abbracciato mia figlia, e mi stupii di quanto fosse resistente per non essere ancora scoppiato a causa di tutte quelle emozioni così potenti. Non capii se lei si fosse accorta di me oppure no, ma non importò più di tanto, semplicemente le abbracciai la vita dal dietro e feci aderire la sua schiena al mio petto, e combaciammo perfettamente, come due metà di una stessa pietra, come le due gocce del Tao, quel meraviglioso simbolo Babbano che univa il bianco e il nero e tutte le diversità.
 
Malfoy e Granger.
Purosangue e Nata Babbana.
Mangiamorte e Salvatrice.
Me e lei.
 
A quel contatto, la Granger si irrigidì un momento, ma l'istante dopo si sciolse come la cera di una candela, come neve al sole, e la sentii respirare sul mio petto, la sentii singhiozzare ancora, ma stavolta di gioia, e potei respirare il suo profumo, identico a come lo ricordavo, delizioso, dissetante, dolce, unico.
«La Casata dei Malfoy non può terminare, Granger», le mormorai nell'orecchio, baciandole poi la guancia, assaporando la sua pelle. La donna rimase interdetta per un momento, senza capire cosa intendessi dire, dunque voltò il capo verso di me e – anche se per un momento perdemmo entrambi il filo del discorso, causa la vicinanza dei nostri volti -, riuscì a chiedermi: «Che vuoi dire?». 
Ghignai, facendole aggrottare le sopracciglia per la confusione, poi la baciai, e fu come morire e rinascere nello stesso momento, fu come precipitare al centro dell'Inferno e poi risalire lentamente verso il Paradiso, fu come vedere la luce dopo giorni, mesi, anni di solo buio. Sentii le sue labbra modellarsi sulle mie come se fossero state create da uno stesso stampo, come se fossero destinate a unirsi solo tra di loro, perché era il loro destino, perché con qualcun altro sarebbe stato tremendamente sbagliato, perché i loro sapori erano gli unici a stare bene insieme. 
E quando ci allontanammo, una forza sovrannaturale ci impedì di separarci davvero, i nostri volti rimasero tanto vicini da sfiorarsi e regalarci brividi mai provati prima, i nostri respiri si incatenarono e si mischiarono, i nostri occhi si scontrarono e, per un momento, mi mancò il fiato. Nelle iridi color cioccolato della Granger vidi l'arcobaleno che avevo cercato nel cielo di ogni paese che avevo visitato in quegli anni, vidi finalmente il sole spuntare da dietro le nuvole, perché il temporale era passato una volta per tutte, lei ed Eltanin avevano rischiarato la mia vita.
Ghignai di nuovo, mentre sia io che la donna tornavamo con la mente alla conversazione interrotta da quel bacio mozzafiato. «Che il prossimo deve assolutamente essere un maschio», mormorai sulle sue labbra. Quella frase, all'apparenza ironica, era, in realtà, un giuramento, la promessa di un futuro roseo e luminoso, felice, insieme, io, lei ed Eltanin. Era un po' come un Voto Infrangibile, ma le bacchette erano inutili, non servivano catene magiche a legarci, bastavano i nostri sguardi e le nostre braccia, che erano più forti di qualunque altra magia al mondo. 
La Granger rise e chiuse gli occhi, appoggiando il capo alla mia spalla e lasciando che le ultime lacrime – di gioia, di soddisfazione, di liberazione – scivolassero lente sulle sue guance che parevano di un colore più vivo, mentre io le baciavo la tempia e la stringevo quasi da farle male. 
Dietro di noi sentivo Potter e compagnia ridacchiare e commentare, ma non me ne curai per niente, potevano dire ciò che volevano, non mi interessava, tutto ciò che mi importava era che, finalmente, avessi la donna che amavo tra le braccia, la madre di mia figlia, la quale, di lì a qualche mese, avrei riabbracciato, baciato, coccolato e amato, recuperando il tempo perso, al quale, da quel momento in poi, non avrei mai più pensato. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
N.b. Il titolo della One - shot è quello della canzone di Ligabue, “Da adesso in poi”, dedicata al figlio, e la citazione iniziale è proprio tratta dal testo della canzone. 
Spero che vi sia piaciuta!
Un bacio,
Angelique
   
 
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