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Autore: MisakiChibi_tan    17/03/2013    1 recensioni
Ryuji è sconvolto. I suoi amati genitori sono morti in un incendio che ha distrutto la loro casa e lui è costretto a trasferirsi dalla sua città natale, in Giappone, in una odiosa cittadina negli Stati Uniti, per andare a stare da degli zii che non aveva mai visto prima in vita sua.
Così, comincia anche la sua nuova vita scolastica, in un liceo dove però la vecchia mentalità razzista persiste, senza dargli tregua. Infatti, i suoi compagni di classe continuano a prenderlo in giro. Finchè un giorno Ryuji rimane chiuso dentro la scuola e da solo perso nei suoi pensieri, comincia a porsi delle domande.
L'incendio in cui sono morti i suoi genitori è stato davvero solo un tragico incidente? Oppure si è trattato di un omicidio?
Lui vuole conoscere la verità, eppure gli sembra davvero strano che tutte le domande che si pone possano trovare risposta grazie ad una sua compagna di classe, una ragazza di origini giapponesi, ma con occhi verde smeraldo e lunghi capelli rosso cremisi.
Sayla...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rosso Cremisi

Brucia. Il fuoco aumenta. Le fiamme si alzano, danzando nel buio della notte. I colori si alternano da un rosso scarlatto ad un’arancione accesso. Il calore aumenta, scaldandomi la pelle in un abbraccio che sa di morte.
L’unica via di fuga che avevo è bloccata.
Il fumo sta prosciugando tutta l’aria rimasta, avaro ed egoista.
Mi tappo le orecchie con le mani. Il rumore delle travi divorate dalle fiamme non basta a coprire le loro urla.
Ero calmo fino a cinque minuti fa, mentre osservavo la mia scoperta con incredulità e dolore.
Voglio riavere tutto com’era prima, la vita noiosa e monotona di un qualunque studente del liceo.
Ma adesso io sono qui, e non posso far altro se non ciò che hanno previsto tutti, quello che tutti hanno desiderato così ardentemente per me.
La mia morte.

 
Mi svegliai di soprassalto, il cuore che batteva all’impazzata, la fronte madida di sudore.
Tentai di calmarmi, inutilmente.
Mi chiedo solo come ho potuto per tutti questi anni dare per scontata la loro presenza, il loro affetto…
Ora che non ci sono più vorrei solo poter tornare indietro per poter vivere appieno quella vita che loro mi hanno donato, per poi morire al loro fianco, tra le fiamme, che tutto purificano.
Ma questo è solo un sogno. Tornare indietro è impossibile. E tentare di raggiungerli lo è altrettanto.
Devo aver urlato, perché Etsuji mi sta guardando, nei suoi occhi di ghiaccio scorgo un misto di preoccupazione e di tristezza.
-Tutto bene Ryuji?-
Faccio un cenno di assenso con la testa e mi rimetto sdraiato a letto. Non tento nemmeno di tornare a dormire, so bene che ora mi è impossibile addormentarmi; non posso dato che ho ancora davanti agli occhi la nostra bellissima casa in fiamme e sento ancora le loro urla di dolore.
Agguantai il cellulare e lo trascinai con me sotto le coperte. Sul display lessi l’ora: le 5 di mattina. Decisamente troppo presto per svegliarsi, per i miei gusti. Mi alzai e in punta di piedi mi diressi in cucina, chiudendo delicatamente la porta dietro di me. Mi guardai attorno, alla ricerca di una tazza e di un set per preparare del tè. Beh, chiamare quel posto “cucina” era davvero inappropriato; era più che altro una piccola stanzetta con un tavolino, delle sedie, un frigo, una credenza e una macchinetta per il caffè. Esattamente ciò che ti aspetti di trovare come “area relax” in una stazione di polizia.
Non che m’interessasse più di tanto. Ora come ora potrei anche andare a vivere sotto un ponte come un senzatetto e non me ne fregherebbe nulla.
Già, un senzatetto… dopotutto è ciò che sono.
Ancora una volta vedo la casa davanti a me, ridotta ad un cumulo di cenere evanescente.
Scossi la testa, come se facendolo potessi cancellare i ricordi di quel giorno, il giorno in cui ho perso tutto e che in confronto fa sembrare la “mia infanzia difficile” tutta rose e fiori.
Perché la verità è che ho sempre pensato che in fondo per i miei genitori fossi solo una seccatura, che dietro a quei bei loro sorrisi si celasse un odio profondo, indirizzato esclusivamente a me.
In un certo senso li ho sempre capiti e perdonati per questo; dopotutto mia madre restò incinta di me a soli 16 anni, era ovvio che non fossi molto ben voluto. Però non ho mai avuto una specie di conferma a questi miei cupi pensieri, perché loro ci sono sempre stati per me, assecondavano ogni mio capriccio, mi coccolavano, mi difendevano e mi consolavano.
Come potrei non amarli? Erano e saranno per sempre i miei genitori.
Ma ora sono morti.
Morti.
E tra qualche ora i loro corpi –o almeno quello che ne rimane- finiranno sotto terra, sepolti e resteranno lì a marcire, almeno finché non saranno dissotterrati e gettati in una schifosissima fossa comune.
Questo è ciò che avranno i genitori migliori del mondo.
Rinunciando all’idea di preparare il tè, mi sedetti tenendomi la testa tra le mani, quando sentii la porta aprirsi cigolando rumorosamente sui cardini.
Mi alzai di scatto, facendo cadere all’indietro la sedia, solo per vedere entrare ridacchiando l’agente di pattuglia, seguito dal capo della polizia, Etsuji.
-Abbiamo una buona notizia per te, Ryuji. I tuoi zii, che abitano in America, hanno accettato di prendersi cura di te, almeno finchè non capiremo cos’è successo ai tuoi genitori.- mi disse Etsuji.
Lo guardai in silenzio. Sinceramente, non me ne importava nulla di quello che stava dicendo.
Mi preparai senza capire bene cosa stessi facendo e poco dopo mi trovavo già su un aereo diretto in America.
Quando uscii dall’aeroporto americano, c’era una volante della polizia statunitense ad aspettarmi, che mi portò a casa dei miei zii. Li salutai, senza guardarli nemmeno in faccia e poi gli dissi che ero stanco, che volevo dormire e così mi portarono in quella che d’ora in avanti sarebbe stata la mia stanza. Mi buttai sul letto, mi coprii completamente con la coperta e chiusi gli occhi.
 
Mi guardai attorno spaesato. Non mi ero ancora abituato alla nuova casa. Scostai le coperte e le risistemai a casaccio sul letto, aprii la finestra per arieggiare la stanza e mi diressi verso la porta. Scesi con calma le scale e, arrivato in cucina, presi un bicchiere d’acqua.
-Oggi è il tuo primo giorno di scuola.-.
La voce di mia zia mi riportò bruscamente alla realtà.
-Sì…-, concordai con poca convinzione. Andare a scuola in questo momento non era sulla mia lista delle “cose da fare”. L’ho sempre odiata, la scuola. Però ho sentito dire che qui negli Stati Uniti gli studenti non devono indossare un’uniforme scolastica, come si fa invece in Giappone.
Sarà dura. Inoltre, non sono mai stato molto bravo in Inglese; mi chiedo come farò a parlare con i miei compagni.
-Allora dovresti sbrigarti, o perderai l’autobus.-.
Infilai il cestino del pranzo nello zaino e corsi alla fermata del Pullman, che, appena fui salito, partì sobbalzando.
Una volta arrivati, scesi dall’autobus con passo malfermo, guardandomi ansiosamente intorno. Appena dentro il cancello della scuola, in un prato, c’era un gruppo di ragazze con delle uniforme da cheerleader blu e bianche che provavano una coreografia e poco più in là dei ragazzi si passavano un pallone da rugby.
Era almeno mille volte peggio di quanto avessi immaginato.
Sorpassai il cancello in ferro battuto con la testa bassa, attento a non incrociare lo sguardo di nessuno, e a passo affrettato, varcai l’ingresso.
Anche se sapevo benissimo quale fosse l’aula, aspettai piuttosto oltre il suono della campanella prima di entrare in classe e quando lo feci, mi venne  voglia di scappare. Credo fosse semplicemente il mio “istinto di sopravvivenza” a dirmelo, perché gli occhi dei miei nuovi compagni di classe dicevano tutto tranne che “benvenuto!”. Guardandoli ho capito il vero significato di “sguardo omicida”.
Mi sa di essere stato preso un po’ di mira.
 
Le lezioni trascorsero in modo monotono, con un’unica eccezione: il caloroso benvenuto che ricevetti dai miei compagni.
In primo luogo, mi è stata messa una bambola voodoo sotto il banco, con un biglietto che mi avvisava di “stare attento” o avrei trovato guai; poi, durante il secondo intervallo, aprendo il mio armadietto, i miei vestiti furono sporcati da schizzi di vernice blu, e l’armadietto con i miei libri era dipinto di quella stessa vernice. Infine, all’ultima ora, nell’attimo esatto in cui stavo per sedermi, la sedia si spaccò e io caddi per terra, il rumore della mia caduta accompagnato dalle risate di scherno dei miei compagni.
Appena suonata la campanella, esausto, presi l’autobus e tornai a casa
Arrivato, chiusi di scatto la porta e mi diressi a passo affrettato nella mia camera in cui rimasi chiuso fino al mattino dopo.
 
Il suono trillante della sveglia mi perforò i timpani, avvisandomi che erano già le 7.30 passate.
Mi preparai in fretta, ma un’occhiata all’orologio mi fece capire di aver perso l’autobus.
Mi trascinai in cucina a passo strascicato; mio zio Kanou stava seduto sul divano in salotto, intento a leggere il giornale e l’ultima cosa che volevo fare era disturbarlo per farmi accompagnare a scuola da lui.
-Ehm… zio, credo di aver perso l’autobus.-, dissi tutto d’un fiato.
Mio zio mise via il giornale e mi guardò sorridendo, come se non aspettasse altro che portare al liceo suo nipote.
E’ dalla morte dei miei genitori, avvenuta ormai tre mesi fa che mi considera un adolescente depresso e triste e non ha tutti i torti. Ma ciò che mi dà fastidio sono le sue continue, incessanti e assillanti attenzioni, quasi fossi un bambino piccolo bisognoso d’affetto.
Salii con riluttanza sulla Dacia Duster bianca tirata a lucido e, fortunatamente per me, mio zio Kanou non era in vena di chiacchierare dato che se ne stette zitto per tutto il tragitto.
Quando arrivai a scuola la campanella non era ancora suonata e riuscii in qualche modo ad entrare in classe passando inosservato, anche se avevo come l’impressione che i miei capelli neri e gli occhi a mandorla gridassero “guardatemi! Guardatemi!”
Quando cominciarono le lezioni il tempo mi sembrava scorresse lentamente apposta, per farmi capire quale sarebbe stata la mia sorte in questa “fantastica” scuola.
Tolsi l’ennesima pallina di carta impigliata tra i capelli e sentii delle risate appena trattenute provenire da dietro di me. Mi girai un poco e vidi un ragazzo dai capelli castano scuro, gli occhi nocciola e la pelle abbronzata sghignazzare e farmi un gesto che credo sia conosciuto in tutto il mondo.
Ritornai a guardare il professore ostentando indifferenza, concentrandomi in modo alquanto sospetto alla lezione di chimica.
Feci appena in tempo a girarmi un poco quando sentii una ragazza gridarmi “attenzione!”.
Il tubetto di colla mi colpì in pieno sulle labbra, che cominciarono a sanguinare sporcando il libro di piccole macchie rosso cremisi.
Mi alzai di scatto dalla sedia. Di solito non reagisco alle provocazioni, ho sempre pensato che in casi del genere la mia arma migliore fosse l’indifferenza; ma nessuno si era mai spinto così in là. Era davvero troppo. Tutti mi stavano guardando, in attesa probabilmente di una mia sfuriata, quando sentii una risata di scherno provenire dallo stesso ragazzo castano di poco prima.
-Cosa c’è, cinesino? Ti fa male? Perché  non vai a piangere dalla mamma?-.
La sua domanda fu seguita da un coro di “uuuuuh” da parte dei miei compagni, mentre io me ne stavo immobile a fissarlo ad occhi sgranati. Mi girai di scatto e con gesti automatici e senza curarmi di quello che diceva il professore, misi via i miei libri e mi precipitai fuori dalla classe correndo. Continuai a correre finché non raggiunsi il vecchio magazzino della palestra e mi ci chiusi dentro a chiave, per poi rannicchiarmi in un angolo, con le ginocchia strette al petto.
Non mi accorsi del tempo che passava; mi ero addormentato.
Mi alzai lentamente, ma un dolore lancinante mi costrinse a rimettermi seduto, la testa tra le mani, la vista ancora offuscata dalle lacrime. Lentamente, voltai la testa verso l’unica finestrella che c’era, ma… non c’era più luce! Iniziò a sormontare in me il panico totale. Capii che, addormentandomi, era arrivata la sera.
Mi diressi a passo affrettato verso la porta, girai la chiave con mani tremanti finché non sentii la serratura scattare e uscii dal magazzino, diventato improvvisamente soffocante. Attraversai la palestra e corsi fino all’ingresso principale; tentai di aprire la porta, ma era chiusa a chiave. Percorsi tutto il corridoio cercando di aprire le porta secondarie che davano all’esterno, ma erano tutte chiuse; provai anche quelle per le uscite d’emergenza, ma ovviamente c’era un sistema che le bloccava, alla chiusura della scuola.
Preso da un attacco d’ansia, tornai all’ingresso principale e tentai di nuovo ad aprire la porta, spingendo più forte, come se la mia “forza” potesse fare qualcosa contro una porta chiusa a chiave. Mi misi a camminare avanti e indietro, nervosamente, pensando ad una soluzione; mi venne in mente che probabilmente nello studio del custode ci fosse almeno una copia delle chiavi, ma, essendo arrivato in questo liceo soltanto da due giorni, non avevo la minima idea di dove fosse quello studio. Dovevo essere lucido. Mi diressi verso il bagno; volevo sciacquarmi il viso con dell’acqua fredda, per schiarirmi un po’ le idee, quando la vidi. Anche lei mi stava guardando, sorridendo ammiccante, dall’ultimo scalino.
Scese le scale lentamente e mi venne a fianco, senza smettere di sorridere.
-Konnichiwa, Ryuji.-.
Trasalii per la sorpresa. Mi aveva appena salutato in giapponese.
La guardai meglio e notai che il taglio dei suoi occhi verdi era leggermente obliquo. I suoi capelli rossi, leggermente mossi, risplendevano accarezzati dalla luce argentea della luna; il loro colore acceso mi riportava alla mente ricordi dolorosi, come le fiamme che avevano consumato lentamente i corpi dei miei genitori, riportando i miei pensieri al sogno che avevo avuto il giorno prima, che mi aveva sconvolto, ma a cui non avevo più pensato per via della scuola.
All’improvviso ricordai, quella figura interamente vestita di nero, che si muoveva in giardino con fare furtivo, con in mano una tanica di benzina. Per via del fumo che mi offuscava la vista, ero riuscito a cogliere solo un particolare: lunghi capelli rossi, raccolti in una coda. Ma improvvisamente avrei potuto descrivere quella figura nei minimi dettagli, quella figura che avevo ormai capito essere l’assassino dei miei genitori, perché era esattamente davanti a me e mi sorrideva dolcemente.
-Ciao, Ryuji.-, ripeté, -Io sono Sayla. Sono dispiaciuta per il brutto benvenuto che hai ricevuto dai nostri compagni, ho anche provato ad avvertirti che ti stavano per lanciare addosso la colla… anch’io ho passato la stessa cosa tre mesi fa, quando mi sono trasferita qui dal Giappone.-.
La guardai ad occhi sgranati, incredulo.
-Per scappare dalla polizia…- dissi in un sussurro.
Il sorriso le sparì improvvisamente dalle labbra e sul suo volto comparve un’espressione preoccupata.
-Oh- sospirò, -Non mi aspettavo che capissi così in fretta.-; sul suo viso comparve una smorfia.
-Vorrà dire che ti racconterò tutto, anche se dubito che mi crederai.-.
Ciò che mi disse successivamente mi sconvolse. I mie genitori… le persone che avevo amato di più… mi volevano uccidere? E lei mi avrebbe salvato uccidendoli in quell’incendio? Ridicolo.
-Non pensavo che anche tu fossi in casa quella sera… ti credevo ad una festa.-, disse, come se volesse giustificare ciò che aveva fatto.
Riemersi improvvisamente dai miei pensieri e mi accorsi che Sayla era in piedi davanti a me, le braccia abbandonate lungo i fianchi, in lacrime. La guardai attonito e poi scattai in avanti, afferrandola per le spalle
-Perché?- chiesi, la voce resa rauca dalla rabbia che sentivo montare dentro.
-Io non…- farfugliò lei, ma non le diedi modo di finire la frase.
-Perché hai ucciso i miei genitori?! E’ impossibile… è impossibile che loro volessero uccidermi!- dissi, stringendola più forte.
-Invece sì!- urlò. –Li ho sentiti, li ho sentiti che ne discutevano, di come toglierti di mezzo! Dicevano che tu gli avevi rovinato la vita, che  erano troppo giovani, che non ti volevano, che loro nemmeno si amavano, ma erano stati costretti a sposarsi perché la tradizione Giapponese voleva così! Io… io non potevo fare finta di niente e restare a guardare… perché io…-.
Il suo corpo era scosso dai singhiozzi e con le mani tentava di asciugare le lacrime che le rigavano le guance, mentre io la continuavo a stringere, sempre più forte.
Non mi accorsi che le mie mani scivolarono lentamente sul suo collo e a poco a poco si strinsero. Lei alzò il viso, scioccata, capendo le mie intenzioni, mentre dai suoi occhi verde smeraldo sgorgavano sempre più lacrime. La spintonai verso il muro ed inizia a gridarle contro, mentre le mie mani sbatterono la sua testa sul muro. –Perché? Perché? Perché?!- gridai disperato.
La furia prese il sopravvento e io sbattei la sua testa sempre più forte. Non ero più me stesso, perché il vero me poteva solo restare a guardare, inerme. Quando recuperai la calma, la prima cosa che vidi furono gli occhi spenti di Sayla. Indietreggia terrorizzato e guardai il liquido denso e rosso sulle mie mani; guardai il corpo di Sayla cadere a terra con un tonfo. Non arrivò il panico. Non sarebbe mai arrivato.
Girovagai per la scuola senza una meta precisa, senza sapere cosa fare, quando la trovai. Per qualche astruso motivo, forse per non farla trovare alla polizia, Sayla aveva nascosto nel suo armadietto una tanica di benzina. Rovistai tra le sue cose con le mani ancora sporche del suo sangue, finché non trovai anche un accendino. Corsi a perdifiato, spargendo la benzina per tutto l’edificio, lo imbrattai fino all’ultima goccia.
Poi ritornai al corpo di Sayla, le poggiai delicatamente la testa al muro e mi sedetti di fianco a lei. Accesi il fuoco nella pozza di benzina di fianco a me e, nonostante ne fossi disgustato, presi la mano di quella che era stata l’assassina dei miei genitori.
Mentre il fuoco stava già bruciando la mia carne, l’ultima cosa che pensai fu che se quello che Sayla mi aveva rivelato corrispondeva a verità, io non avrei avuto più alcuna ragione per vivere.





Ciao a tutti!! 
Questa è la prima storia che pubblico in assoluto, perciò mi piacerebbe molto se una volta letta, lasciaste una recensione con scritto cosa ne pensate.
In realtà questa storia è stata originariamente scritta a quattro mani, io insieme alla mia migliore amica per un compito di scuola.
Quando l'abbiamo letta in classe davanti a tutti è piaciuta molto, anche se la maggior parte dei nostri compagni ci ha detto che è molto inquietante.
Spero quindi che vi sia piaciuta e grazie mille per averla letta :))

 
  
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