Come, si chiedeva, come quel piccolo, insignificante moccioso poteva aver avuto la sfacciataggine di rispondere con un’allegria tanto ostentata? Come poteva, perbacco, alzarsi così, sorridendo, di fronte a tutti i suoi compagni, dopo che lei stessa si era prodigata con tanta forza per inscenare l’appello perfetto, per calcolare ogni minimo secondo intercorrente fra il fatidico “oggi interrogo”e l’ancor peggiore pronuncia del nome del prescelto ? Come?! Forse quel piccoletto credeva di potersi permettere, in nome dell’infanzia, il totale rifiuto della serietà e della disciplina; forse credeva che, delirando su un’addizione così semplice, su di un così basilare e scontatissimo “due più due”, quella sua patetica shilouette avrebbe potuto emergere dalla profonda melma di banalità in cui fin dalla nascita era stata sommersa... forse lo credeva, sì, ma nessuno la fa alla maestra Delle Vigne, nessuno, non nella SUA classe:<< Ciel...sei sicuro di quello che dici?>> rispose dopo un poco, inarcando un sopracciglio e soffocando una risata cavallina << Sì maestra... >> rispose Ciel, insicuro.
La reazione della donna l’aveva lievemente sconvolto, e l’iniziale certezza che irradiava stava ora lasciando spazio ad una misera espressione cerula:<< Io...io..credevo...>> tentò di rispondere, ma le parole gli mozzarono la gola, fossilizzandolo un un esacerbante senso di umiliazione.
E le prime umiliazioni, quelle della tenera età, sono sempre fin troppo dolorose:<< Credevi cosa Ciel?>> non era un tono materno, quella della Delle Vigne, ma una vibrante e postulante pallonata di acidità:<<...cosa credevi? >> lo guardò fisso.
L’eco trucida della sua domanda risuonò per la classe, incastonandosi tra le risa come un insetto fra le ante di una porta. Con uno scatto istrionico, la maestra si alzò in piedi, avvicinandosi all’alunno, inginocchiandosi ed appoggiando una mano sulla sua minuscola spalla rachitica : <
La classe ormai aveva smesso di ridere, curiosa e al contempo pronta ad afferrare la prossima esca che la lingua troppo lunga di quel povero cretino dai pinocchietto bianchi, la maglietta a righe e gli occhialetti rotondi dalla montatura ocra avrebbe lanciato. E lui ancora a pensarci, incerto. Sapeva la risposta? Certo che la sapeva, semplicemente la sua maestra, la Delle Vigne, ne conosceva un’altra. Respirò, profondamente.
Tentò di ricordare le parole della mamma al parco, circa due o tre mesi fa, quando, guardando le anatre volteggiare sull’acqua, gli aveva somministrato una delle sue tante lezioni intrise di intricatissimi ma spaventosamente semplici ideali:<< Lo sai Ciel, che un tempo gli uomini volavano?>> com’era felice e spensierato quel giorno, appoggiato alla ringhiera e completamente assorto, mentre dava da mangiare alle formiche:<< Volavano?>> chiese lui velocemente, senza distrarsi dal suo lavoro, con una prosodia tanto melodiosa quanto quella dei miagolii notturni: << E come?>> nel dire ciò aveva anche sgranato un poco gli occhi, e lei rispose sorridendo, contemplando l’orizzonte:<< Sì, volavano amore mio. Volavano, proprio come queste anatre qui>> e ancora domande:<< Sì ma...come?...perché?>> di risposta la mamma si avvicino a lui, stringendolo forte e portando le labbra al suo orecchio, come scambiando un segreto intimo:<< Perché pensavano il volo,e pensandolo lo percepivano. Ricordati sempre che quello che tu credi di vedere o sentire sono solo un insieme di stimoli elettrici e sollecitazioni nervose tesoro mio – ne avevamo parlato dei nervi, no? –. I colori? Semplice luce. Le sensazioni tattili? Corpuscoli di Meissner e e di Pacini – anche di questo ti avevo parlato, spero che ti sia rimasto in testa-.E’ tutto qui, , nella tua testa. Dentro di te, non fuori. Credi che i pazzi siano tali perché vedono cose che non esistono?Se è così, allora, siamo tutti pazzi. Tutti quanti, senza eccezione. >>.
Ma adesso non c’era nessun laghetto, nessuna libera anatra in volo. Soltanto la sua classe, la pesantezza del mattino, i ruggiti della maestra e quelle sue patetiche rispostine biascicate:<< Dipende maes...>> <
Non riuscì più a trattenere il pianto:<< Da...da...da quello che credo...>> risate. Indici puntati. Voce divelta:<< Non capisco maestra...perché...perché quattro? Chi l’ ha ...deciso? Non è vero che è solo quattro, non...>> << Basta Ciel, vai fuori dalla classe!>> Ultimo grido, più forte degli altri:<< E spero tanto che tu mi stia prendendo in giro! >> e quel lungo indice imperioso, rivolto alla porta dell’aula, segnò inesorabilmente i prossimi quaranta minuti della giornata scolastica, come tutti i successivi anni della sua vita.
Segnò il suo futuro fin da quando, eseguito l’ordine, si appoggiò mollemente contro le giacche appese al muro, abbandonandosi alla cruda violenza del primo sfogo della sua vita. E mentre piangeva la sentì chiaramente: una melodia. Una sorta di musica che attraversava il legno biancastro dell’uscio, accentuando i suoi singulti. Una sorta di canzoncina, una canzoncina che chiamava il suo nome: << Ciel è-è stu-pi-do, Ciel è-è stu-pi-do>> Un crudele, ingenuo agglomerato di sadismo scolpito ad arte dall'angoscia, anticipando la pedagogica svolta di una presa di posizione epocale. Perché in quel giorno di inizio settembre, quel mattino dai risvegli come tanti, Ciel aveva conosciuto il mondo, l’illusione e la sterilità. Di fronte a quella sua intraprendente intelligenza di angelo, ancora una volta l’Uomo aveva instillato il suo germe fastidioso, impadronendosi delle molteplici Verità assolute che furono dono della sua naturalezza. E adesso, come da sempre nella Storia, mentre il povero fuori di testa scontava i loro peccati, le greggi della razza pasturavano tranquille , tristemente incatenate al sottile vincolo di un ritornello rotante. Abbandonate ad un fazioso, ripetitivo inno all’idiozia.